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sabato 25 settembre 2010

MOBY DICK di HERMAN MELVILLE

- di Saso Bellantone
Chi ha mai fatto un viaggio per mare? E un viaggio su di una baleniera? Chi sa che cos’è una baleniera, com’è fatta, quale tipo di equipaggio vi è imbarcato, che cosa vi avviene, quali compiti svolge ogni marinaio, quali preparativi occorrono prima della partenza, per quanto tempo resta in mare aperto? Perché esiste un tipo di nave (e di pescatori) che va esclusivamente a caccia di balene? Quali balene preferisce cacciare? Che cos’è una balena? Chi conosce com’è fatta, quali sono le sue dimensioni, le sue caratteristiche interne ed esterne, la sua storia? Da quanto tempo si conosce l’esistenza (e si va a caccia) della balena? Che cosa spinge l’essere umano a cacciare la balena? Quali profitti ne ricava? Chi ha mai fatto parte della ciurma di una baleniera?
Scritto nel 1851 da Herman Melville, Moby Dick non è semplicemente un libro che si limita a rispondere a questi interrogativi. È l’immaginario resoconto di un’esperienza di caccia alla balena, vissuto come parte della ciurma di una baleniera, il quale, leggendolo, diventa per il lettore il reportage reale dei principali momenti della propria vita vissuta. Momenti contrassegnati da una tipicità umana eternamente ritornante nel medesimo modo: la sfida di ciò che è ignoto nella natura, intesa come unica forma per la scoperta di sé.
Questa sfida è ambientata in uno scenario nichilistico, assolutamente immanente, nel quale, paradossalmente, il silenzio della voce di Dio, che sopravvive all’oblio umano mediante le Scritture, continua a riecheggiare e a tuonare sugli avvenimenti umani, decidendone il destino.
Che cos’è la vita umana se non un viaggio nell’ignoto per trovare se stessi? Moby Dick racconta proprio questo, vale a dire il tentativo di scoprire se stessi in un mondo apparentemente spoglio di ogni senso. In ogni viaggio che intraprendiamo verso l’ignoto, rincorriamo contemporaneamente due scopi: la nostra vera identità; il senso della vita. Il problema, secondo Melville, è il modo con il quale affrontiamo questa doppia esplorazione: “Se questo mondo fosse una pianura senza fine, e navigando verso Oriente potessimo raggiungere luoghi sempre più lontani e scoprire visioni più dolci e più strane di tutte le Cicladi o delle Isole del re Salomone, allora il viaggio avrebbe senso. Ma quando viaggiando non facciamo che inseguire i remoti misteri di cui sogniamo, o dare la caccia in modo straziante a quel fantasma demoniaco che prima o poi nuota davanti a ogni cuore umano; allora, quando diamo la caccia a cose del genere tutt’intorno a questo tondo globo, tali cose ci portano all’interno di sterili labirinti, oppure ci lasciano sommersi a metà strada” (p. 203).
Quando non sappiamo più qual è la nostra vera identità né se esiste il senso della vita, partiamo alla scoperta di entrambi, sfidando l’ignoto. Con noi, portiamo i nostri stessi residui in un mondo sconosciuto pieno di sconosciuti. A volte siamo soli contro tutti; altre volte affrontiamo la sfida in compagnia di amici. Amici totalmente diversi da noi – nella cultura, lingua, tradizione, usi e costumi – che però sfidano l’ignoto per le nostre stesse ragioni, per altri motivi o per il semplice gusto di sfidarlo. Qualora affrontiamo questa battaglia assieme ad altri, occorre imparare a convivere con la diversità e la stranezza di ognuno pensando che un altro fa la stessa cosa nei nostri confronti. Ma è anche necessario accettare le regole, la gerarchia, l’ordine necessari per la coesistenza e per la sopravvivenza di tutti. Specialmente laddove si convive nella stessa temporanea dimora che, per offrire il suo apparente riparo a ognuno, dev’essere curata da tutti. La cura, si sa, non termina mai.
In ogni viaggio, scopriamo luoghi e cose impensabili, ascoltiamo storie incredibili e conosciamo persone completamente estranee a tutte quelle già conosciute, con le quali ci confrontiamo per trovare noi stessi. Sono persone inimmaginabili, la cui aria misteriosa è simile allo stesso ignoto cui andiamo incontro e che, il più delle volte, se non lo siamo proprio noi, fanno da capitani all’avventura che è dentro e fuori di noi. Di costoro non sappiamo nulla. All’inizio abbiamo notizia soltanto degli atti leggendari e delle pazzie di cui si sono resi protagonisti; osservandoli sotto questa luce, proviamo a un tempo ammirazione e timore, sicurezza e coraggio. Poi, proprio quando ormai abbiamo varcato il punto del non ritorno, scopriamo il loro lato più oscuro e il nostro viaggio prende un’altra piega: andiamo con loro in capo al mondo per braccare incessantemente il diavolo bianco, bianco come l’ignoto, come tutto quello che fa maggiormente paura. Ma non è facile, al pari degli altri diavoli, stare addosso, uccidere e squartare il diavolo bianco.
Quando cominciamo a comprendere che non è questo lo scopo del nostro viaggio, è difficile restare impassibili di fronte all’atmosfera spettrale nella quale navighiamo; è arduo vincere la paura infusaci dalle oscure profezie che tornano alla memoria e dai tetri presagi che c’incalzano l’uno dietro l’altro; è faticoso voltare le spalle a quei segni speranzosi che c’intimano di tornare indietro, specialmente quando non si è il capitano della propria nave e si è comandati da chi non pensa ad altro se non al diavolo bianco. Che cos’è l’essere umano se non un diavolo di diverse forme rispetto a quello che insegue ovunque senza fermarsi mai? In questo modo, però, l’essere umano bracca il diavolo bianco, se stesso oppure una folle e distorta immagine artificiosa di sé? Spesso siamo a tal punto fuori di noi stessi che non distinguiamo più il bene dal male, il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto: in questo sortilegio che ci auto-provochiamo, come fossimo davvero indiavolati, fraintendiamo i prodigi che ci suggeriscono di fare dietrofront, considerandoli dei comandi sovrannaturali che ci ordinano di andare avanti.
C’è un limite, però, che non ci è concesso oltrepassare: il divino. Quando anche con il solo pensiero ci eleviamo sul mondo alla maniera di divinità, in questo momento perdiamo per sempre la via del ritorno e vediamo moltiplicarsi i neri presagi che accelerano il compiersi del nostro dannato destino. Non ci frena più niente, non c’è lacrima che tenga il nostro triste fato: la sfida delle sfide contro il bianco avversario, è la legge che abita là dove prima dimorava in noi la ragione. Arriverà l’ora, prima o poi, in cui staremo innanzi al nostro rivale dei rivali come diavolo contro diavolo e non avremo più il tempo di trovare noi stessi né il senso della vita. Ergendoci contro la Balena Bianca alla maniera di Achab, cioè come divinità traboccanti di sé, non avremo scampo. Mantenendo invece un confine dentro il quale scoprire il nostro essere e il senso della vita, potremo sperare nella salvezza. Ma il confine che immagina Melville è religioso e provvidenziale: per questo motivo, per sperare di salvarsi, ognuno di noi dovrebbe chiamarsi “Ismaele”.

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