- di Saso Bellantone
Chitarrista, compositore e scrittore, Luca Francioso nasce a Reggio Calabria il 19 maggio 1976 e vive a Bagnara Calabra. A 11 anni (1987) inizia a studiare chitarra classica con il maestro Giuseppe Alati, mentre a 20 anni (1996) si avvicina al Fingerstyle, perfezionandolo l’anno dopo con il chitarrista Franco Morone. Da anni ormai vive a Padova, dove alterna l’attività concertistica e didattica a un’intensa produzione musicale e letteraria.
Chitarrista, compositore e scrittore, Luca Francioso nasce a Reggio Calabria il 19 maggio 1976 e vive a Bagnara Calabra. A 11 anni (1987) inizia a studiare chitarra classica con il maestro Giuseppe Alati, mentre a 20 anni (1996) si avvicina al Fingerstyle, perfezionandolo l’anno dopo con il chitarrista Franco Morone. Da anni ormai vive a Padova, dove alterna l’attività concertistica e didattica a un’intensa produzione musicale e letteraria.
Tra le sue opere musicali, ricordiamo: La casa di Isoke (2010), Distanze (2010), Camelia (2010), L’altra pelle (2009), La tutt’altra lontananza (2008 studio e live), Tra i sogni e il cuscino (2007), The show (2005, libro e cd), Argile (2005), Luoghi (2004), Schizzi su carta (2002), Scala cromatica per uscita di sicurezza (2000). Tra le sue opere letterarie, ricordiamo: La Chiusura (2009, pdf), Un ingannevole dubbio (2008), The show (2005, libro e cd), L’uomo era (2001, pdf), Ad un passo (2000), La retta è un cerchio che non si chiude mai (1998).
Come ti sei avvicinato alla musica?
Ci sono stati vari input. Quello che ricordo con più forza è stato l’approccio ritmico. Fin da bambino, infatti, battevo su cuscini, pentole, tavoli, per la disperazione dei miei genitori e dei vicini – cosa che sto notando accadere anche in mio figlio Simone (3 anni). In seguito tutto si è incanalato nella voglia di armonia, di melodia, di polifonia, di suono, e la chitarra ha sintetizzato in pieno entrambi gli slanci.
In seguito l’aiuto, l’incoraggiamento e il sostegno di persone come Giuseppe Alati (il mio primo maestro di chitarra) e di molti amici più grandi di me che non mi stancavo mai di guardare suonare (imparando moltissimo!) lungo la via marina di Bagnara, sono stati un grosso stimolo. È così che sono arrivato ad amare la chitarra e la musica.
Come avviene il tuo passaggio dall’amore per la musica in generale all’amore per il Fingerstyle? Che cos’è il Fingerstyle?
Il Fingerstyle è una tecnica esecutiva nata dalla necessità di portare sulla chitarra la capacità polifonica di una piccola orchestra, di suonare cioè più voci contemporaneamente. Questa tecnica è nata con i primi bluesmen americani e in seguito si è evoluta lentamente, soprattutto con molte influenze di altri generi, diventando il Fingerstyle, cioè “suonare con le dita” qualunque genere musicale.
Il mio avvicinamento al Fingerstyle è stato molto drastico e istantaneo, non c’è stata evoluzione alcuna. Dopo aver studiato chitarra classica a Bagnara con Giuseppe, ho ripreso gli studi con Maurizio Paggiaro, a Padova. È stato lui che mi ha fatto ascoltare un CD di Fingerstyle di Franco Morone e in quel momento è scattata la magia e l’innamoramento per questa tecnica. Il giorno dopo avevo già contattato Franco che, oltre a essere uno dei più grandi chitarristi di Fingerstyle sulla scena mondiale, è diventato (suo malgrado!) il mio mentore.
Così ho cominciato a scrivere e a comporre per chitarra acustica, scegliendo la strada del solista, scelta importante ma anche molto pratica: in questo modo si possono dettare i tempi della propria vita artistica come si preferisce, cosa che con un gruppo è davvero più difficile. E per il tipo di persona che sono e per come lavoro, credo sia stata la scelta più giusta.
Qual è l’essenza della musica? Cosa pensi riguardo al senso, allo scopo e agli usi della musica sia a livello individuale sia sociale?
La musica, oggi, per lo più è una forma di intrattenimento, più o meno impegnato, più o meno profondo. In realtà lo scopo primo della musica è terapeutico, curativo. Naturalmente è allo stesso tempo uno straordinario mezzo di comunicazione, essendo espressione e linguaggio, e credo che fare musica – fare arte in genere – sia una grande responsabilità sociale, dal momento che siamo interdipendenti, esseri che palpitano e pulsano assieme.
Chi fa musica è responsabile di quel che comunica e di come lo comunica. Ciò, naturalmente, non vuol dire che non possa essere “leggera”, ma non tenendo conto di questi aspetti se ne toglie il senso sostanziale.
I Greci impiegavano il termine “poiein” per significare “creazione”. Poi questa parola, nel corso del tempo si è trasformata di linguaggio in linguaggio fino a diventare, in italiano ad esempio, la parola “poesia”. Quando un poeta comunica sé stesso, cioè scrive una poesia, è un creatore di mondi, riproduce il mondo, crea nel senso pieno della parola. In relazione al modo nel quale vivi, puoi definire la tua musica “poesia”? In breve, intendi la tua musica nel senso di arte, di creazione?
Personalmente ritengo che la musica ci sia già. Esiste. L’artista non fa altro che farsi trovare pronto. Il tempismo dell’artista coincide con la sua capacità di sintonizzarsi con certe frequenze, di aprire la porta nel momento giusto. Poi, chiaramente, il passaggio, il processo di traduzione – che ognuno compie in modo diverso – rende unico il risultato. La musica è qualcosa di etereo, divino, che ci precede e che ci sopravvivrà.
Anziché di “creazione” io parlerei di “traduzione”. Certo è, d’altro canto, che chi ha la grazia e l’impudenza di darsi a questo processo – in tutte le arti – in qualche modo “crea”, perché, una volta che si traduce, si rigenera.
Oltre a essere un chitarrista e un compositore, sei anche uno scrittore. Non a caso alcune tue opere sono pensate su due livelli, musicale e letterario. In questo senso, perché scrivi? Perché senti l’esigenza di comunicare anche mediante l’arte della parola, ciò che già comunichi con la chitarra?
La bellezza. Non riesco a contenerla. Sborda, come un bicchiere pieno, e a volte mi fa male. È questo che genera la voglia di comunicare, come una sorta di liberazione. Così, spesso, la musica non mi basta.
Da un punto di vista estetico e tecnico ho scelto questi due linguaggi, la musica e la scrittura, perché sono le due arti che mi divertono e mi emozionano di più e che di più sento mie. Se un giorno dovessi smettere, per qualsiasi ragione, troverei in qualche modo un’alternativa per poter continuare a comunicare. È un’urgenza, la mia. L’artista – che non è una cosa che si “fa” ma un modo di vivere, vedere e percepire – non ha alcun filtro, nessuna dogana tra occhi e cuore e se non condivide ciò che sente e vede finisce con l’appassire.
Io compongo e scrivo quasi ogni giorno e non butto via niente, mai. Nemmeno le cose più stucchevoli, banali o monotone. Serve. Serve tutto.
In questo tuo rapporto con l’esistente, con il mondo, nel quale traduci quel che avverti attorno a te mediante queste due forme di comunicazione e di liberazione, cioè musica e scrittura, che cosa racconti?
Non c’è mai volutamente un soggetto predefinito. Esiste il gusto di raccontare – un dettaglio, un accessorio. Molto spesso mi ritrovo ad osservare ciò che viene scartato da tutti, ma che a guardarlo bene, sa donare ricchezze con straordinaria unicità. Lì si nasconde il germoglio di qualcosa che altrimenti non si potrebbe raccontare.
Alla luce di quanto hai detto, secondo te, un artista – o un traduttore, un comunicatore – che porta alla luce quei particolari dell’esistenza dei quali nella quotidianità non facciamo caso, se è privo di lettori, di ascoltatori, di pubblici, in breve se è privo di fruitori dei dettagli che racconta, un artista può sentirsi tale?
L’arte si compie quando avviene la condivisione. Se non accade diventa un esercizio stilistico o tecnico. A volte gli artisti pensano di poterne fare a meno – del pubblico, intendo. Ma questa è una grande illusione: l’emozione, il movimento e il linguaggio artistico hanno compiutezza solo con l’interazione emotiva tra chi propone e chi fruisce della proposta.
Non è necessario che ci siano tante persone, ne basta una: una testa, un cuore, un’anima, un occhio, uno sguardo, perché la condivisione si possa compiere. È una sorta di matrimonio, un miracolo: viversi vicendevolmente, donando tutto se stessi.
Nativo di Reggio Calabria, sei vissuto a Bagnara Calabra e poi ti sei trasferito a Padova, dove vivi esclusivamente della tua musica, sia dal punto di vista creativo sia dal punto di vista concertistico e didattico. Che cosa significa oggi, secondo te, vivere come un artista e vivere esclusivamente della propria arte? Quali sacrifici comporta accettare questo incarico, questa missione?
Ognuno di noi è un tesoriere meraviglioso, uno scrigno che protegge e custodisce un dono: una sorta di post-it sul quale c’è scritto lo scopo della nostra vita, il nostro talento, quello per cui siamo stati progettati. È difficilissimo trovarlo – scelta assai saggia della vita, nasconderlo, vista la superficialità con cui viviamo. È necessaria un’accurata ricerca, tenace e cosciente.
Oggi in pochi credono di possedere un talento, anzi molti la ritengono quasi ridicola questa possibilità, così non ci pensano, causando dei danni irreparabili a loro stessi.
Vero è che nessuno ti aiuta in questa ricerca, né la scuola né la famiglia né la collettività. Invece di centellinare le forze verso il singolo obiettivo e alimentare così la diversità (grandissimo dono!) e l’unicità, si continua a perseguire questa illusione che tutti devono saper fare tutto, una cosa davvero contro natura.
Nessuno poi ci insegna a vivere, interpretare e accettare il nostro dono, una volta trovato – chi ha la grazia di riuscirci. Spesso, infatti, ci si può trovare di fronte ad un talento sconveniente per il tempo e il luogo in cui si vive.
Ad esempio, il musicista. Farlo oggi è davvero poco raccomandabile, secondo le leggi di questo mondo, puramente pragmatico e sull’orlo dello squilibrio, vittima dell’illusione di massa (forse il vero “oppio dei popoli”) dello stipendio fisso e del controllo che ne deriva. Ma in verità niente si può controllare. Citando il film “Istint”, ispirato dall’illuminante libro “Ishmael” di Daniel Quinn, al massimo si può controllare il volume dello stereo, niente di più.
Fare il musicista, scegliere il proprio dono, al giorno d’oggi è difficilissimo, perché le nostre scelte si muovono non sulla base dell’amore per quello che si sceglie, ma sulla base di quanto quello che si sceglie ci può far guadagnare. Così, quando scegli per amore, per il mondo non può funzionare. Ma io credo che se scegli per amore sarai davvero felice, se scegli per denaro la tua unica ricompensa sarà il denaro.
Quando ho scelto di fare il musicista, la preoccupazione della mia famiglia e dei miei amici non è stata capire se quella che stavo scegliendo era davvero la mia strada, quanto se la strada poteva essere fruttifera o meno, pericolosa o meno. Ma questo è assurdo: il tuo dono non può essere pericoloso per te, mai.
Io ho la presunzione di credere che se fai le cose che ami, se lo scegli ogni mattina, riceverai ciò che ti serve per vivere, né più né meno. È necessario affidarsi, però. Alla generosità della vita. A Dio, se ci credi. Se tu semini con amore finirai con il raccogliere amore: la vita prima o dopo ti ricompensa. E lo sa fare bene.
Che cosa ti spinge ogni anno a tornare per qualche giorno al Sud, in particolar modo nella tua terra natia?
Principalmente mi manca il mare. Quello della Costaviola, il “mio” mare. Sono cresciuto guardandolo: cattivo e arrabbiato, dolce e leggero e ogni volta che lo guardo per me è come tornare a casa.
Un’altra ragione che mi spinge a tornare sono i legami affettivi che ho con le persone che sopravvivono al tempo e alla distanza, considerando che sono passati ventun’anni.
Traducendo gli stralci di vita che passano inosservati dai più, in un certo senso un artista si mostra come un sognatore. Che genere di sognatore? Chi è capace di concretizzare questi sogni che vede – e che gli altri non vedono, presi dal tempo quotidiano – e di comunicarli agli altri. Attraverso la tua musica e la tua scrittura hai avuto la possibilità di realizzare tanti di questi piccoli sogni: esiste in te, però, come si suol dire, un sogno nel cassetto che ancora rincorri, che ancora desideri realizzare
Distinguerei “sogno” da “utopia”, termini e significati che abbiamo in effetti confuso. “Utopia” è qualcosa che non si realizzerà mai, “sogno” invece è una visione, è il germoglio del nostro talento. A noi ce l’hanno fatto chiudere nel cassetto, ma non c’è cosa più mortale.
I sogni sono una cosa sacra ed io il mio sogno lo sto vivendo appieno: cerco ogni giorno di essere me stesso, di ottimizzare cioè il mio potenziale.
Puoi commentare un tuo aforisma che recita: “L’atto d’amore più grande e solidale che si possa fare è essere se stessi”.
In genere si considera la solidarietà un atto di generosità verso gli altri. Io credo invece che la cosa più salvifica che si possa fare verso tutti, è essere se stessi, compiere quel che realmente si è.
Quali sono gli ultimi lavori di cui ti stai occupando? Quando usciranno?
L’11 settembre uscirà la versione cartacea del mio nuovo thriller “12 birre”, un libro che dal 19 aprile di quest’anno sta uscendo a puntate ogni lunedì sul mio sito (www.lucafrancioso.com) e sul sito della mia casa editrice e discografica, “Fingerpicking.net”, e che si chiuderà con la ventunesima puntata il 6 settembre. Il 7 novembre uscirà un nuovo CD di ninne nanne e filastrocche, dedicato a mia figlia Veronica, il naturale seguito del mio primo CD di ninne nanne e fiabe “Tra i sogni e il cuscino”, dedicato al primogenito Simone e uscito nel dicembre 2007. Il 18 dicembre uscirà un nuovo CD di inediti che tratta il tema del sogno e del talento, come puoi notare temi che mi stanno molto a cuore.
Contemporaneamente sto lavorando ad altri progetti: ad un libro didattico che dovrebbe uscire a settembre per la “Carish”, assieme all’amico e chitarrista Daniele Bazzani; a un greateast hits che dovrebbe uscire l’anno prossimo e che conterrà la musica che sento più mia, quella più vicina a quel che sono adesso; a dei singoli sperimentali di musica acustica ed elettronica per chitarra.
Inoltre ho in serbo altre idee per nuovi libri e brani, quindi c’è davvero ancora tanto da fare o, per restare nel tema dell’intervista, c’è tanto da tradurre. È la straordinaria bellezza di scegliere quel che sei. Se scegli quel che sei, non puoi che essere felice.
Pubblicato nel Costaviola Informa (periodico d’informazione della Costa Viola), Anno 1, Numero 4 (Luglio-Agosto).
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