La crisi del dono e della pratica del donare evidenziano la mancanza di significato nella quale aleggiamo. Se procedere in questo modo verso il futuro è, come direbbe Walter Benjamin, la catastrofe, volgere lo sguardo indietro, invece, è la salvezza. In questa prospettiva, riscoprire il senso che altre civiltà hanno attribuito (o attribuiscono) al dono e alla pratica del donare – come ad esempio si è fatto negli articoli precedenti – vuol dire generare un contro-movimento alla secolarizzazione e alla crisi dei fondamenti, ma anche alla tipologia di vita fredda, accelerata, abitudinaria e calcolante che (s)qualifica il nostro presente. In altre parole, significa osservare se stessi, gli altri e la società nella quale viviamo da un altro punto di vista, capace di offrire i mezzi per combattere la catastrofe e puntare alla salvezza. Grandi studiosi come Jacques Godbout o Alain Caillé hanno sottolineato che tra i tanti aspetti che accomunano le antiche civiltà con quelle attuali vi è anche la pratica del donare. Il tempo, le epoche, le civiltà stesse passano e si trasformano, ma la pratica del dono sembra resistere. Si pensi al Natale, alle varie cerimonie religiose e cultuale, ai battesimi, cresime, matrimoni, funerali, compleanni, sagre, feste in generale; ma anche agli alcolisti anonimi, al dono del sangue e di organi, ai servizi, al volontariato, alle opere d’arte ecc. Tuttavia, usando i principali tratti che caratterizzano il dono – ossia la gratuità, l’obbligazione, l’utilità per la vita, la capacità di fare comunità – come lenti d’ingrandimento utili per esaminare la nostra attuale pratica del dono e attitudine al donare, ci si rende conto che nulla, di fatto, corrisponde a ciò che denominiamo con la parola “dono”. In altri termini, il dono così come lo pratichiamo e concepiamo non è gratuito, non è un’obbligazione, non è utile per la vita, non fa comunità. Così come lo pratichiamo e immaginiamo oggi, il dono non è gratuito ma interessato: si tratta di fare bella figura, di acquisire fama e prestigio, di ricevere in cambio favori di vario genere, considerazione, rispetto, altri doni in cambio. Il dono non è obbligante ma un consuetudinario dovere da ricambiare, ossia una vuota e metodica abitudine da attuare, per garantirsi tutto quello poco prima elencato. Non è qualcosa di utile per la vita ma il più delle volte è qualcosa di inutile, un gingillo da esporre in casa, in ufficio, in macchina o nella propria persona per acquisire e mantenere ciò che è elencato sopra. Non fa comunità piuttosto la distrugge, è la scossa tellurica che separa gli amici, i parenti, gli amanti, i cittadini, i terrestri, perché quel che vi è in ballo è tutto quello (e altro ancora) che è sopra riportato. In alcuni casi, il dono si mostra come ciò che uccide fisicamente – si pensi al dono di alcolici, stupefacenti, scooter, automobili iper-veloci e così via – o uccide mentalmente – qualsiasi dono che, staccato da un preciso contesto sano, genuino, ben pensante e, in taluni casi, di fortuna, diviene una gabbia dalla quale non si è capaci più di uscire. Se a tutto questo si aggiunge il fatto che la pratica del dono alimenta di nuova linfa vitale il sistema economico che, negli ultimi mesi, tanto ci fa dannare, allora si capisce che nella nostra società è veramente difficile riconoscere un dono e una pratica del donare i cui talenti siano la gratuità, l’obbligazione, l’utilità per la vita e il fare comunità. In questo scenario, ha ragione il filosofo Jacques Derrida per il quale “il dono è l’impossibile”. In breve, se il dono è qualcosa che non ha quei talenti ma è sempre interessato ed è il motore dell’economia allora affinché ci sia “veramente” dono non deve esserci chi dona né il dono stesso né chi riceve. in poche parole, non deve accadere nemmeno la pratica del donare. Ogni qualvolta appare l’intenzione di donare, il dono cade nella logica dell’interesse e dell’economia. Per questa ragione, non dovrebbe esistere neanche la parola “dono” perché pensandola così come siamo abituati a concepirla, attiviamo già la logica dell’interesse e dell’economia. È questa logica, infatti, che si cela dietro la secolarizzazione e la crisi di fondamenti che ci conducono alla catastrofe. Se non è possibile tornare indietro e ri-cominciare a intendere il dono come ciò che è gratuito, obbligante, utile per la vita e capace di fare comunità, allora l’unica salvezza consiste nella dimenticanza della parola “dono”, della sua pratica (ormai abituale) e, in questa modo, della logica dell’interesse e dell’economia che si cela in esso. Se tutto quel che si può donare, alla fine, appartiene a questa logica, allora è necessario iniziare a “dare” quel che non si può: in altre parole, se tutto ciò che è oggettivabile rientra in quella logica e conduce alla catastrofe (personale e totale), allora il contro-movimento ha origina in tutto ciò che oggettivabile non è. E che cosa più del tempo non può essere oggettivato? Non s’intende il tempo che misuriamo con gli orologi ma quello che si nasconde tra un movimento e l’altro delle lancette degli orologi stessi. In questo tempo “nascosto”, che non misura la quantità ma la qualità, si nasconde la parte più inquietante (e forse più vera) di ognuno di noi. Concludo questa serie di pensieri sul dono, lasciandovi alcune domande: che cosa avviene quando – davanti all’albero di natale, al presepe, in casa o per le strade, al mare o in montagna, in ospedale o nei cimiteri, insomma in qualsiasi luogo – “passiamo il tempo” con le persone che amiamo, coi genitori, i nonni, i parenti, gli amici, i conoscenti, i bisognosi, gli ammalati, i reietti, gli animali, i paesaggi, con la memoria dei defunti, di vecchi ricordi ecc.? Che accade – in noi, attorno a noi e negli latri – quando “passiamo il tempo” in uno di questi modi? Chi scopriamo? Il mondo? La vita? Noi stessi? dio? O tutti insieme? Ciascuno risponda a modo proprio…
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