Di fronte allo scadere della ritualità del dono in una pratica abitudinaria e vuota di significato, evidenziata nell’articolo “Il Natale: riflessioni ironiche sulla ritualità del dono”, nell’articolo successivo – dal titolo “Alla riscoperta del dono: il mito di Prometeo e la natività cristiana” – si è intrapreso un percorso utile per riscoprire quali sono quei tratti principali che arricchiscono di senso la pratica del dono: la gratuità, l’utilità per la vita, la capacità di fare comunità. L’idea della gratuità del dono si mantiene nella nostra tradizione, per fare un esempio, mediante la parabola del buon samaritano (Lc 10, 29-37): diversamente dal sacerdote e dal levita, il samaritano vede l’uomo spogliato, percosso e lasciato mezzo morto dai briganti, si avvicina a lui, gli fascia le ferite, lo porta a una locanda, si prende cura di lui, paga di tasca propria l’albergatore e gli dice: «Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno» (Lc 10, 35). Compie tutto questo senza alcun interesse, in modo assolutamente gratuito. Se da un lato questa parabola testimonia la permanenza nella nostra tradizione dell’idea della gratuità del dono, dall’altro lato bisogna chiedersi: perché quando si riceve un dono, ci si sente obbligati a ricambiare? Da dove nasce la sensazione di dovere in qualche modo contraccambiare il dono ricevuto? Ma allora, in questa prospettiva, il dono sarebbe un’obbligazione? Che ne è della gratuità del dono se lo si ritiene un dovere, un debito, un impegno? Ritenerlo tale, non significa, forse, considerare il dono qualcosa che non è gratuito? Nel Vocabolario delle istituzioni indoeuropee (1969), svolgendo un’indagine linguistica, Emile Benveniste scopre che, nonostante la radice della parola dono nella nostra cultura è “do” e significa “dare”, esiste un’altra radice parallela alla prima, di provenienza hittita, che suona “dà” e che significa “prendere”, non dare. Benveniste sostiene che la radice “dà” non vuol dire né dare né prendere bensì “afferrare”. Interpretandola in questo modo, la radice hittita evidenzia che, nell’atto di donare qualcosa a qualcun altro (dunque nel dare ad altri) questi “prende”, “afferra” qualcosa dal primo. Che cos’è questo qualcosa che si “prende”, si “afferra”? Semplicemente il dono che è dato dall’offerente? Oppure un dovere, un debito, un impegno, un’obbligazione a contraccambiare? Proseguendo la propria indagine, Benveniste si accorge che, nel tempo, la parola “dono” ha subito un declino. Mentre in greco ci sono ben cinque parole per dire questo termine, in latino ve ne sono due e in italiano soltanto una. • Greco: dos, dono in generale; dosis, l’atto del donare; dorea, l’insieme dei doni; doron, il dono gratuito; dotine, il dono obbligato. • Latino: donom, il dono gratuito; munus, il dono obbligato. • Italiano: dono, il dono gratuito e il dono obbligato. Che cos’è questo “dono obbligato”? Com’è possibile che esistano due tipologie di dono? Benveniste trae spunto per le proprie ricerche dal Saggio sul dono (1925) di Marcel Mauss. In quest’opera, utilizzando le ricerche etnografiche condotte da Franz Boas e Bronislaw Malinowski presso le popolazioni della Melanesia e della Polinesia, in particolare del rituale del potlach e del Kula ring, l’antropologo francese tenta di risalire all’origine dell’economico. Mentre la tradizione considera il baratto la più antica forma di scambio, Mauss si accorge che le civiltà analizzate svolgono degli scambi somiglianti di più alla pratica del “dono”. Queste popolazioni vivono secondo una precisa modalità, che Mauss denomina“sistema delle prestazioni totali”, nella quale lo scambio di doni ha un ruolo decisivo. Se di prim’acchito questi scambi sembrano avvenire liberamente, Mauss scopre che a ben vedere accadono secondo un’invisibile costrizione cui tutti sono soggetti (o cui si liberamente assoggettano). Questa comune e immateriale obbligazione a scambiare (donare) beni con altri, secondo Mauss, si snoda attraverso tre momenti fondamentali: tutti sono obbligati a dare; ricevere; ricambiare. In questo modo, si crea un’infinita catena di circolazione dei beni, la quale non fa altro che rafforzare il legame sociale. In questo senso, chi non dona o si rifiuta di ricevere un dono o non contraccambia, mette in pericolo il proprio legame con chi ha donato qualcosa a lui e, in questo modo, con l’intera comunità cui appartiene. Dalla solidarietà si passa all’ostilità. Lo scambio di doni, praticato nelle forme del potlach o del Kula ring, non avviene sempre ma in alcuni momenti principali della vita di queste popolazioni: nascita, maturità, nozze, funerali ecc. In queste occasioni, i capi tribù indossano le maschere degli antenati e si scambiano di tutto. Il contraccambio non può avvenire immediatamente, bensì nel tempo e con l’obbligo di restituire “un di più” rispetto al dono ricevuto dall’altro, perché ne va della faccia, cioè dell’autorità e del prestigio sociale. Per questa ragione, gli scambi divengono delle guerre simboliche e spesso si giunge all’estremo e paradossale gesto di dono, vale a dire alla distruzione di tutti i beni, per dimostrare che la propria forza e potenza è tale da permettere anche un gesto simile. Queste pratiche sottolineano che lo scopo di un bene qualsiasi non è di essere capitalizzato, accumulato o economizzato bensì di circolare, di muoversi all’infinito di persona in persona, al fine di “fare comunità”. A prova di ciò, questi popoli producono degli oggetti di forma circolare (che oggi diremmo di bigiotteria) quali bracciali di conchiglia e collane di madreperla, il cui scopo, appunto, è di “muoversi in circolo” gli uni in senso orario, gli altri in senso antiorario. Se il mito di Prometeo e la natività cristiana, come abbiamo visto nel precedente articolo, mettono in risalto che il dono è sempre “gratuito”, le indagini di Mauss presso le popolazioni della Melanesia e della Polinesia ricalcano, invece, che il dono è sempre “obbligato” perché in esso ne va, oltre che della propria faccia, della comunità. La parola latina munus usata per dire il dono obbligato – il cui corrispettivo greco è dotine – è a fondamento della parola comunità: communitas. Munus, proveniente dalla radice indoeuropea mei che significa “dare il cambio”, indica una carica pubblica, una funzione di prestigio, un obbligo attribuito a una persona all’interno di una specifica comunità. Chi riceve il munus è obbligato a restituire alla comunità che lo ha rivestito di questa carica: doni, privilegi, cariche minori, spettacoli ecc. In questo senso, la parola communitas non significa “un insieme di beni” bensì “un insieme di soggetti legati da un sistema di obblighi”. Immunis – termine opposto a communis – è quel soggetto che non si riconosce obbligato, un dis-obbligato, il cui senso è simile a ingratus. Il munus, dunque, è un Giano bifronte perché da un lato indica la capacità di assumere un obbligo, dall’altro il dovere di adempierlo. La duplicità di senso che caratterizza il munus ci conduce a un’altra parola presente nella nostra tradizione per indicare il dono obbligato (o reciproco): daps (banchetto religioso, festa sacra), il cui corrispettivo greco è dapane (spesa). Dalla parola daps proviene damnum (danno). Un’altra parola presente nella nostra tradizione è gift, che in inglese significa “dono” ma in tedesco e in olandese può significare anche “veleno”. Nelle popolazioni anglo-sassoni, infatti, il dono per eccellenza è “il dono da bevanda” che, nel caso di eccesso, può provocare danni, avvelenare. In questa prospettiva, il dono sembra avvicinarsi alla parola greca pharmakon, descritta da Platone nel duplice significato di “rimedio e veleno”. Come risolvere allora la questione del dono? È soltanto gratuito o soltanto obbligato? Il declino della parola dono dal greco e latino all’italiano, mette in evidenza due dati relativi all’attualità: da un lato, ci si dimentica del carattere gratuito del dono; dall’altro, si sostituisce l’elemento obbligante del dono, cioè utile per rinsaldare il legame comunitario o sociale, con il “dovere del dono” per motivi esclusivamente di apparenza, moda e abitudine. In questo modo, si trascura l’idea che il dono è allo stesso tempo gratuito e obbligato. Ci si scorda che bisogna donare gratuitamente e che farlo in questo modo significa segnalare all’altro di voler stringere o rafforzare un legame, al di là di ogni interesse materiale, sociale ed economico; che il dono è sempre (o dovrebbe essere) qualcosa che è utile per la vita dell’altro; che chi riceve il dono deve contraccambiare soltanto se brama allo stesso modo del donante di unire o consolidare un legame; che in questo modo si costruisce insieme una vera comunità di amanti, amici, parenti, cittadini dello Stato e poi del pianeta. Invece, si preferisce egoisticamente capitalizzare una serie di cianfrusaglie e ricchezze per sentirsi migliori di altri soltanto perché se ne possiede di più; o contraccambiare ai doni degli altri per fare “bella faccia”; o regalare agli altri – a Natale, nei compleanni, matrimoni, battesimi, feste varie, lutti (per chi ancora lo fa) – soltanto perché “si usa così”. In questa prospettiva, non ci si rende conto che il dono è sempre un bene e un male a un tempo: dipende dal modo in cui lo si intende e dal carico sentimentale (passione) col quale si è spinti a donare. Ecco perché alla gratuità del dono si sostituisce l’interesse personale; all’utilità per la vita l’inutilità; al talento di fare comunità la disgregazione sociale. E quando si giunge a questo, si comincia a capire una delle ragioni della solitudine nella quale ognuno di noi oggi si trova, senza vie d’uscita, come un deserto senza fresche oasi o come un mare aperto senza terre e approdi sicuri. Sembra assurdo, o ridicolo se si vuole, tuttavia anche dal modo in cui si concepisce il dono e la pratica del donare dipende il nostro futuro, individuale e comune. Riscoprire il dono nella sua duplicità, gratuito e obbligante, vuol dire ri-comprendere il senso della vita e dello stare assieme agli altri. Ma noi, piuttosto che rimediare alla vita degli altri, e in questo modo alla nostra, preferiamo avvelenare gli altri e, tramite loro, noi stessi.
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