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sabato 19 dicembre 2009

Auschwitz: rubare la memoria è un crimine contro il genere umano

- di Saso Bellantone
La notizia del furto della scritta in ferro posta all’ingresso dell’ex campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau (Polonia) ha fatto il giro del mondo. La polizia apre un’inchiesta e offre un premio di 5000 zloty (1250 euro) per chi ritroverà la scritta. Tralasciando gli ulteriori particolari relativi alla vicenda – rintracciabili nelle testate giornalistiche, nei quotidiani e nei siti internet di tutto il mondo – sembra il caso di soffermarsi a riflettere e porsi alcune domande: con tutte le gioiellerie, le banche, gli uffici postali, i palazzi e le ville lussuose appartenenti a capitalisti stra-milionari ecc. nonché con tutte le rare e, per questo, costose opere d’arte presenti nei musei di tutto il mondo, perché rubare il cartello contenente la scritta Arbeit macht frei (Il lavoro rende liberi)? Che genere di valore economico è possibile dare a questa testimonianza dello scempio svolto dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale? Quale ricchezza è possibile trarne? E poi, chi oserebbe acquistare un simile oggetto, il cui valore umano s’inscrive nella storia e nella memoria non solo del popolo ebraico – vittima delle empietà contro il genere umano compiute dai nazisti – ma di tutte le civiltà terrestri, coinvolte e non in quegli anni di guerra, di assurdità e di estrema miseria della ragione? Se è da stupidi pensare di poter trarre qualche profitto da un cartello simile, è rabbioso immaginare che c’è qualcuno pronto a pagare un’immensa somma per possederlo. Eppure, sicuramente c’è qualcuno pronto a questo. Perché? Lo scopo non è di collocare questo cartello in mezzo ad altre rarità dell’arte, dell’ingegno, della storia umani presenti nella propria collezione. Piuttosto, si tratta di privare l’umanità di una delle testimonianze che, come dice la stessa parola, provano con certezza che la Shoah è avvenuta, che il regime nazista ne è stato l’artefice, che il popolo ebraico ne è stato il martire. Da anni, infatti, circolano delle correnti – cui fanno parte filosofi, scienziati e studiosi di ogni disciplina nonché uomini comuni – le quali, non si riesce a capirne il motivo, negano l’esistenza dei campi di sterminio, la Shoah e quasi si battono per santificare tutti gli appartenenti al nazismo. È chiaro che il furto del cartello “Il lavoro rende liberi” rientra nel progetto, ad opera di sconosciuti, di rimuovere la memoria storica non solo dalle persone ma anche dai luoghi nei quali viviamo che, come nel presente caso, “ricordano” la tragedia della Shoah. Se questa è la verità, allora a noi non spetta altro che batterci in senso opposto: ricordare quello che è accaduto, le milioni di vittime, la follia nella quale troppo facilmente possiamo cadere quando, nel delirio della nostra pesante e nera quotidianità, incontriamo un’idea, come quella di razza superiore. La condanna di questo furto non può essere che ovvia; la vergogna e la rabbia altrettanto scontati; la speranza, nel dolore del passato, di non incorrere mai più in una scelleratezza del genere è invece la sfida cui questo furto ci chiama nuovamente.

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