Nel precedente articolo intitolato “Il Natale: riflessioni ironiche sulla ritualità del dono” si è messo in evidenza, con tono burlesco ma non per questo sciocco, che la pratica del dono, con tutti i suoi retroscena, è scaduta in una vuota abitudine. Le cause di questa ‘secolarizzazione della ritualità del dono’ sono: il dominio di uno standard di vita basato sul consumismo, sull’apparenza, sulla logica del vincente, sull’accelerazione del tempo lavorativo e ludico; la disinformazione, l’esagerata cura del corpo, dei beni, dei figli, la fossilizzazione mentale – dovuta alla povertà e alla fame post-guerra, alla paura, alle malattie, agli svariati traumi della storia personale di ognuno e della storia generale del nostro paese e del pianeta; il lusso, lo spreco, i vizi, in breve la cosiddetta ‘bella vita’; la trasformazione tecnologica, informatica, mediatica, urbanistica, insomma il cambiamento onnilaterale che ha pervaso la nostra società dagli anni ’80 in poi. Se da un lato il senso di questo mutamento totale della società è di migliorare continuamente la qualità della vita dei cittadini, dall’altro ne provoca il decadimento psichico, culturale, morale e ideale. Pur essendo in compagnia degli altri, a lavoro, in casa, a scuola o nel tempo libero, si è soli con se stessi. Ci si trova in balia della solitudine, dell’insicurezza, della paura, della rabbia, dei ‘perché?’ e si finisce per assumere un ideale di vita attivo, freddo e calcolante che violenta dalle fondamenta tutti i valori nei quali si è sempre creduto: la libertà, la giustizia, l’amore, l’amicizia, il rispetto, la legalità, la famiglia, la fede, la solidarietà, il buon senso. In poche parole, ci si trasforma in vuoti e omologati manichini, facilmente manipolabili, prevedibili e gestibili dalla culla alla bara, vaganti nei tristi e grigi teatrini delle nostre artificiali città senza sogni. La nostra gelida metamorfosi da esseri umani in automi fa piazza pulita dei vecchi valori e delle antiche ritualità, utili per rendere la vita comune più sensata, carica di significati e di speranze. Tra questi riti, anche quello del dono perde il proprio talento: ossia, quello di rendersi utile per la vita; ma anche quello di fare comunità sia in famiglia, sia nel parentato, nel vicinato o nella società tutta. Ma in che senso lo scopo del dono è la vita o fare comunità? Che cos’è il dono? Nell’antica Grecia si trova un esempio utile per cominciare una ricognizione specifica sul dono: il mito di Prometeo. Il titano ruba il fuoco agli dèi e lo dà gratuitamente agli uomini. Naturalmente, il mito non vuol dire che, per essere tale, il dono dev’essere qualcosa di rubato. Piuttosto, che è qualcosa di gratuito. Il dono, dunque, sarebbe soltanto l’azione stessa del donare gratuitamente? Oppure c’è dell’altro? Prometeo dona agli uomini il fuoco: dunque, il dono è la consegna gratuita della proprietà di un oggetto da qualcuno a qualcun altro? Il dono di Prometeo sarebbe allora soltanto il fuoco, dato agli uomini gratuitamente? E che cos’è il fuoco? Come diremmo oggi, soltanto un soprammobile? Un prodotto da collocare da qualche parte assieme ad altri, per bella vista? Il fuoco è quell’elemento utile per riscaldarsi, per cucinare, per tenere lontani gli animali feroci, per illuminare, per sciogliere le sostanze, per creare manufatti vari, per riunirsi assieme e svolgere una serie di pratiche comunitarie, per segnalare la propria presenza. In questo senso, quel che Prometeo dà agli uomini non è un mero oggetto per arredare la palude, il deserto, la caverna o la foresta che abitano, bensì un “mezzo” – come dice la stessa parola, un medium – utile per svariati scopi, vale a dire per tutto quello che è realizzabile soltanto mediante il fuoco stesso. Che cosa dà agli uomini, gratuitamente, il titano Prometeo? Non semplicemente il fuoco, ma tutto ciò che è possibile realizzare per mezzo del fuoco. Dal momento che mediante il fuoco gli uomini possono soddisfare un insieme di utilità, se prima ne erano privi, questo vuol dire che precedentemente gli uomini non erano in condizioni di appagare tutte le utilità attuabili mediante il fuoco perché, appunto, non avevano il fuoco. Ma che significa per gli uomini riscaldarsi, cucinare, tenere lontani gli animali feroci, illuminare, sciogliere le sostanze, creare manufatti vari, riunirsi assieme e svolgere una serie di pratiche comunitarie, segnalare la propria presenza, e tutto ciò mediante il fuoco? In breve, vuol dire vivere. Senza il fuoco, non potendo svolgere tutte queste utilità, gli uomini non erano in grado di vivere. Allora, quello che Prometeo dà gratuitamente agli uomini non è soltanto il fuoco bensì la capacità di vivere: la vita. Il mito di Prometeo mette in evidenza che il dono non è il gratuito passaggio di proprietà di un soprammobile da una persona a un’altra, ma è sempre un “donare la vita”, perché attraverso l’oggetto che si dà gratuitamente a qualcuno, si permette a questi di svolgere infinite utilità possibili soltanto mediante quell’oggetto stesso. Facendo un salto dall’antica Grecia alla tradizione cristiana, l’idea del dono come “dono di vita” è riscontrabile anche nella rappresentazione della natività del Messia Gesù che ogni anno componiamo nelle nostre case e luoghi pubblichi: il presepe. Che cosa raffigura e in questo modo rievoca il presepe? Si è soliti considerare il presepe soltanto da un punto di vista religioso, ossia come il momento nel quale il figlio di dio nasce nel mondo. In questa prospettiva, si tende a mettere in risalto il bambinello nella mangiatoia, la sacra famiglia col bue e l’asinello nella stalla, la cometa, gli angeli ecc. e, per questa ragione, oggi ci si limita spesso a riprodurre il momento religioso del presepe – la natività del Messia Gesù – e si esclude quello mondano. Basti pensare alle semplici sfere che poniamo nell’albero, contenenti la stalla, la sacra famiglia, il bue, l’asinello, la cometa e l’angelo; oppure alle suppellettili che rappresentano tutto questo in piccole e medie dimensioni; oppure ai presepi-viventi nei quali, per questioni di semplicità ed economia scenografica e di tempo, si riproduce sempre e soltanto la solita sintesi della natività. Naturalmente, secondo un punto di vista religioso, con questa ridottissima sintesi ci si concentra nell’avvenimento cardine del cattolicesimo: dio dona gratuitamente se stesso, facendosi uomo, per salvare il mondo e l’umanità dal peccato e dalla morte e promettere la vita eterna. Questo, per chi è credente, basta e avanza nella realizzazione del presepe. In un’altra prospettiva, sempre religiosa, la natività raffigura anche la donna Maria che dona la propria vita a dio, che s’incarna e viene al mondo come figlio di Maria; o anche simbolizza la fede di Giuseppe che crede in dio – e nel detto di Maria – e si fa servo di dio, divenendone il padre terreno. Ma che cosa raffigura l’elemento mondano del presepe? Chi sono i protagonisti? Che cosa fanno? L’elemento mondano del presepe, spesso tralasciato o rimosso, rappresenta la risposta degli uomini alla natività del Messia Gesù: l’offerta gratuita di doni. Oltre agli ignoti re magi, che portano oro incenso e mirra, molte persone comuni – detti generalmente ‘pastori’, ma di fatto rappresentano un misto delle genti del tempo – giungono da ogni dove e portano pane, pesci, acqua, vino, formaggio, prodotti della terra, pecore, tutti i prodotti relativi alla vita e alla professione consuetudinaria di ognuno. L’offerta di doni al Messia Gesù è simile al dono di Prometeo ma all’inverso: infatti, mentre il titano dà gratuitamente agli uomini un dono “divino”, gli uomini danno gratuitamente al Messia Gesù (dio) un dono “umano, terreno”. Non è questa la sede per stabilire se il presepe raffigura un fatto realmente accaduto oppure no – con ciò non si intende mettere in discussione la nascita del Messia, bensì l’avvenuta visitazione di tutta questa gente così com’è raffigurata nel presepe. Piuttosto, bisogna ricalcare il senso dell’offerta di doni al Messia. Pane, pesci, acqua, vino, formaggio, ortaggi ecc., ma anche l’oro donato da uno dei magi, sono quei prodotti senza i quali, nel mondo, non è possibile vivere, nemmeno per il Messia appena nato. In questo senso, donando gratuitamente a Gesù – o alla sua famiglia – tutti questi beni materiali senza i quali non è possibile vivere (o sopravvivere), gli uomini del presepe non fanno altro che donare gratuitamente la vita (o la speranza di vivere) al Messia. Non c’è ancora cristianesimo al momento della nascita del Messia Gesù; né alcun angelo gira di casa in casa per annunciare l’avvenuta nascita del figlio di dio. La tradizione afferma che i magi sono condotti alla stalla – o alla grotta – da una cometa: forse, anche gli altri uomini l’hanno seguita. Ma al di là delle effettive cause che spingono gli uomini fino alla stalla, quello che è rilevante sottolineare è che gratuitamente danno i loro doni e, “per mezzo di questi”, permettono al Messia e alla sua famiglia di vivere (o di sperare di vivere). Dunque, sia nell’antica Grecia sia nella tradizione cristiana è possibile rilevare una comune concezione del dono: quest’ultimo, non solo dev’essere gratuito ma, al di là del bene donato, è sempre un dono di vita (o per la vita, se si vuole). Il dono di vita, poi, è sempre un dono che fa comunità. Attraverso il dono di Prometeo gli uomini possono cominciare non solo a vivere ma a intendersi come una comunità: il destino di ciascuno è legato a quello di tutti gli altri e quello di tutta la comunità è legato al destino del dono di Prometeo, il fuoco. Se quest’ultimo svanisce, si perde, si spegne, è rubato, è tutta la comunità a pagarne le spese: tutta la comunità rischia di non sopravvivere e, in questo senso, corre il pericolo di perdersi essa stessa, di slegarsi, di svincolarsi dal comune destino ufficializzato dal fuoco. Allo stesso modo, attraverso il dono degli uomini fatto al Messia Gesù, da un lato quest’ultimo può iniziare a vivere o a sperare di vivere; dall’altro lato, gli uomini possono incominciare a immaginarsi ‘come in una nuova comunità’, vale a dire quella creata dal Messia Gesù con l’atto stesso della propria nascita. Il destino degli uomini, anche quello di Maria e Giuseppe, dipende adesso da quello del Messia Gesù: se questi piuttosto che iniziare a vivere, comincia a morire, ne va della comunità stessa appena sorta. Ecco il senso dell’offerta di doni al Messia, ecco il sorgere della comunità di coloro che diverranno i seguaci di Gesù Messia. Naturalmente, i piani di dio per il proprio figlio vanno al di là dell’uomo e del tempo: e giunto a 33 anni, il Messia Gesù comincia il proprio cammino per morire crocifisso e, risorgendo a nuova vita, condurre l’umanità intera alla vita eterna (ma questa è teologia). Di fronte a questo scenario, nel quale il dono si mostra come un qualcosa di gratuito e che và al di là dell’oggetto stesso in cui si concretizza, in quanto è un dono per la vita e per la comunità, la nostra attuale prassi del dono, nella sua abitudinaria, fredda e insignificante ripetizione che avviene nel grigio e spettrale teatro della nostra società, fa pensare. Oggi, il dono è ancora gratuito? Lo si intende come un dono per la vita e per la comunità? Cominciare a riscoprire queste qualità del dono, specialmente nel periodo natalizio che incalza, significherebbe iniziare a guardare a un nuovo sole dagli abissi della notte nichilista nei quali ci troviamo.
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