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giovedì 15 ottobre 2009

TRACHINIE di SOFOCLE

- di Saso Bellantone
Protagonista di Trachinie non è il forte Eracle – che non appare mai direttamente sulla scena fuorché sul finale – bensì Deianira, il figlio Illo, i messaggeri, i servitori, le schiave, tutti coloro che sono deboli, oppressi, impotenti dinnanzi alla forza di Eracle. Assumendo il punto di vista di quest’ultimi, Sofocle mostra che vuol dire vivere all’ombra di grandi eroi-padri come Eracle, metà uomo/metà dio, a sua volta impotente riguardo all’oscuro vaticinio che lo segue inesorabilmente ovunque, segnandone il destino.
La scena si apre a Trachis, in Tessaglia, davanti alla casa di Ceice che ospita Eracle e la moglie Deianira. L’incipit è un detto antico pronunciato da Denianira, che mette in risalto l’argomento della tragedia: «di nessuno tra i mortali potrai conoscere / se sia vissuto nella felicità o nella sciagura / prima della sua morte» (p. 137).
Sofocle affronta la questione felicità/infelicità rapportandola al binomio vita/morte. In altre parole, si pone il problema della qualità della vita, affermando che il criterio per valutarla è la “fine della vita” stessa. Non è possibile sapere se un mortale è vissuto felicemente o infelicemente, prima che la sua vita è giunta al termine. Per quale ragione? A causa della vita stessa. Nella propria essenza, la vita non è fissa, stabile, immobile; finché resta tale, la vita non si ferma, non si blocca, non conosce battuta d’arresto. É movimento, mutamento, trasformazione continua. L’unico avvenimento che può arginare, trattenere, contenere la sua metamorfosi assidua è la morte.
La morte infatti sigilla, chiude, pone termine alla vita, cioè dà un’immediata scadenza al suo movimento, dà un limite alla sua ininterrotta trasformazione, la obbliga a divenire diversa da sé, ad alterarsi entro un confine preciso; la morte le impone qui e ora la sospensione di ogni cambiamento, la costringe all’immobilità, alla fissità, alla staticità. Quando avviene, la morte finisce la vita, la interrompe, la blocca, taglia tutti i legami e i nessi che consentono alla vita di cambiarsi costantemente. Non le concede il tempo di decidere quale ultima trasformazione effettuare. La morte decide per la vita, la afferra in un istante, alla sprovvista, la serra saldamente senza concederle alcuna via di fuga. Infatti, quando c’è la morte, la vita è finita, ha dei limiti precisi, dei margini che la vita non può più valicare perché non può muoversi più. Solo nella morte, la vita acquisisce un volto, dei lineamenti precisi e, attraverso di essi, un senso.
Ecco perché Sofocle pensa che è la morte a stabilire la qualità della vita, vale a dire il suo senso. Solo dopo che l’uomo non vive più è possibile precisare come egli sia vissuto. Solo quando il mortale è divenuto ciò per cui è nato – un morto appunto – e ha realizzato il tratto distintivo del proprio essere – la morte – è possibile sapere se la sua è stata una vita felice o meno.
Qual è il mondo nel quale Sofocle afferma che la morte è il metro della qualità della vita? Quello greco, retto dagli dèi olimpici, dei quali gli umani sono figli, creature. Un universo dai colori cupi nel quale la vita degli uomini è in balia di oracoli e dèi, e quella delle donne, dei figli, degli schiavi, dei servitori tutti dipende dalle scelte e dalle azioni degli eroi-padri. Tutti, però, sono prigionieri nella stessa rete di un’esistenza infima, infelice, priva di libertà. Trachinie è la tragedia dove tutte le visioni, le interpretazioni, le concezioni possibili intorno all’esistenza umana vengono ridotte al livello più semplice, sintetizzabili nella domanda: la vita è dominata dalla felicità o dall’infelicità? Solo la morte concede ai vivi di rispondere sui morti. Ma per chi sopravvive è un amaro compito stabilire come sono vissuti i defunti, così come arduo è vivere nel ricordo di coloro la cui vita hanno giudicato.
Nonostante l’antico detto appena pronunciato, Deianira, avvolta dal tempo dell’attesa, guarda alla propria vita e fluttua tra i ricordi di disperazione, tristezza e angoscia che finora l’hanno caratterizzata. Non ha mai potuto decidere da sé la propria vita. Il padre la promise prima al fiume Acheloo e lei aveva desiderato la morte piuttosto che giacere con una divinità metamorfica; poi, liberata da Eracle, fu data in sposa a questi. Fu un colpo di fulmine. All’inizio, Deianira temette di non essere abbastanza bella per il semidio; in seguito, comprese che nemmeno allora aveva imboccato la strada per la felicità, perché Eracle – eternamente impegnato ad affrontare le proprie fatiche – è sempre lontano da casa, dai figli, ma soprattutto da lei.
A questa vita di travaglio, di preoccupazione, dominata dal tempo dell’attesa e della speranza nel ritorno incolume del proprio sposo; a questa vita di prigionia all’interno delle mura di una casa vuota, schiava dei propri doveri di madre, ma privata dell’amore del proprio sposo che non c’è mai, se non per fecondarla e ripartire subito alla volta di un’altra fatica, si aggiunge per Deianira il tormento del presente scaturito da un gesto mai compiuto prima dal marito. Prima di partire per l’ennesima fatica, «come chi fosse già morto» (ibid.), Eracle le lascia una tavoletta indicante la quota di spartizione delle terre tra lei e i figli, da eseguire se non fosse tornato a casa entro quindici mesi. Perché stavolta Eracle le consegna la tavoletta? La nutrice consiglia Denianira di mandare il figlio Illo in cerca del padre, il quale la informa che si trova in Eubea per combattere contro la città di Eurito. La madre, però, insiste che il figlio avda alla ricerca di Eracle: perché? Cosa spaventa a tal punto Deianira?
Un oracolo svolto dalle sacerdotesse di Dodona, nell’Epiro, aveva rivelato che in quella terra avrebbe trovato la morte oppure la liberazione da tutte le proprie fatiche. In questo modo compare uno dei elementi che più caratterizzano e determinano il mondo eroico greco: l’oracolo, il vaticinio, la previsione degli eventi futuri. Assieme al detto antico con cui si apre l’opera, l’oracolo è l’altro fattore essenziale attorno al quale si svolgono i fili della tragedia.
In passato, Eracle era riuscito a tornare vittorioso da ogni battaglia, ma stavolta incombe su di lui un oscuro presagio, una profezia che lo segue inevitabilmente e che nell’animo di Deianira, paradossalmente, pesa più dell’infelicità del proprio passato. Deianira sa infatti che agli oracoli nessuno può sfuggire: l’oracolo aveva predetto la morte o la liberazione dell’eroe dalle fatiche; poiché i quindici mesi d’attesa per la spartizione degli averi, come recita la tavoletta, sono quasi scaduti ed Eracle non ha ancora fatto ritorno presso casa, Deianira teme che il marito abbia incontrato la propria fine nella sua ultima impresa, come aveva predetto l’oracolo. Per questa ragione manda il figlio Illo alla ricerca del padre.
Il coro, provato dal dolore della donna, cerca d’infonderle speranza, affermando ambiguamente che «il re figlio di Crono / che governa ogni cosa / non assegnò nulla ai mortali / che non recasse dolore. / Ruotano, intorno a tutti, pena e felicità, / come i tragitti circolari dell’Orsa» (pp. 140-141). Contro la vaporosità delle parole del coro, vi è la pesantezza della tavoletta che Deianira ha nelle mani, segno ammonitore dell’antico vaticinio, presente e assente nel contempo e tuttavia incalzante.
Quando l’ombra sembra ormai dimorare nell’animo della donna, ecco giungere un messaggero: questi informa Deianira che Eracle è di ritorno ma tarda perché nel preparare le offerte votive a Zeus sulle coste dell’Eubea, gli abitanti di Trachis lo tempestano di domande. Tutto sembrava perduto ma all’improvviso si riaccende la speranza: nell’altra faccia della profezia, la speranza è la liberazione di Eracle dalle proprie fatiche. Per Deianira questo significa vivere finalmente in pace col proprio marito e sposo, ossia vivere felice.
Mentre esclamazioni di gioia riempiono la casa e la speranza della felicità sembra realizzarsi, ecco giungere il segno vero e proprio del ritorno del marito: Lica, messaggero di Eracle, si avvicina assieme a un corteo di donne e spiega a Deianira i motivi del ritardo del suo signore. Il marito, per volere di Zeus, era stato venduto come schiavo a Onfale, regina barbara, perché aveva ucciso Ifito, figlio di Eurito, per vendicarsi degli insulti del padre; dopo un anno al servizio di Onfale, Eracle era riuscito a liberarsi e aveva raso al suolo la città di Ecalia, dalla quale provengono le donne al seguito di Lica.
Pensando forse al proprio travagliato passato, privo della libertà di scelta, Denianira prega Zeus che una sorte come quella delle schiave mandatele in dono da Eracle non affligga i suoi figli. Ma a un tratto, la sua attenzione è attratta da una donna che sembra di stirpe nobile e allora chiede a Lica di svelargli l’identità di quella. Il messaggero, però, finge di non sapere chi sia e la donna lascia che tutti entrino in casa. Subito, un altro messaggero interviene, comunicandole che Lica l’ha imbrogliata: quella donna dalle sembianze nobili, le rivela, è Iole, il vero motivo per cui Eracle ha ucciso Eurito ed ha rasato al suolo la città di Ecalia. Eracle l’aveva chiesta al padre come concubina ma, poiché gliela negò, invaghito da Afrodite, l’aveva presa con la forza.
È un momento decisivo: proprio ora che Deianira comincia a immaginare la fine dei propri tormenti e ad assaporare un po’ di felicità, ecco che le rivelazioni del messaggero gettano la donna nello sconforto di una tremenda verità: il marito ama un’altra donna. È come se il mondo crollasse addosso a Deianira: tutto sembra finito, svuotato di ogni senso. Che senso ha la sua vita priva della libertà di scelta, costretta alla schiavitù e all’oppressione? Che senso hanno tutti i suoi sacrifici, la sua prigionia in una casa quasi sempre vuota, i suoi doveri di madre, ora che il suo uomo non l’ama più?
Chiede a Lica il motivo delle sue menzogne e il messaggero le risponde che non gliel’ha ordinato Eracle, ma l’ha fatto spontaneamente per evitare di affliggerle il cuore. Lica la scongiura di trattarla con gentilezza perché «colui che ha sempre trionfato con la forza delle sue braccia / è stato sconfitto dalla passione per costei, completamente» (p. 151). Per evitare di attirarsi qualche sciagura degli dèi, Denianira lo rassicura che farà come lui dice e lo invita a entrare in casa per consegnargli i doni da inviare a suo marito. Disperata, Deianira decide di giocare l’ultima carta disponibile per garantirsi l’amore di Eracle: decide di usare il dono che il centauro Nesso le aveva fatto prima di morire a causa della freccia avvelenata scagliata da Eracle, che aveva intinto nel sangue dell’Idra di Lerna. Il centauro le aveva detto di raccogliere il suo sangue dal punto della ferita inferta dalla freccia, in modo da ottenerne un filtro capace di fare innamorare Eracle di lei più di ogni altra donna.
Preparato il filtro d’amore, Deianira consegna a Lica la tunica imbevuta del sangue del centauro, spiegandogli che questo era il voto che aveva fatto agli dèi se avesse visto tornare a casa il marito sano e salvo; in più, lo avverte affinché nessuno la indossi prima di Eracle, né che alcun raggio di sole, recinto sacro o fuoco la veda prima che lui l’abbia vestita.
Appena Lica si avvia, Deianira è scossa da un brivido per ciò che ha visto: il fiocco di lana con cui ha intinto la tunica per il marito – gettato in terra alla luce del sole – si è corroso e di esso è rimasto solo un mucchio di cenere schiumante. Tremenda è la luce della verità: il centauro Nesso l’ha raggirata. Non era un filtro d’amore ma un veleno col quale ha avvelenato colui che ha sempre amato e atteso.
Deianira riprende a straziarsi, ormai persa nel labirinto in cui la ragione diviene follia. Ritorna il figlio Illo che l’accusa del misfatto e le narra la sofferenza e la follia di Eracle, provocati dal veleno. Le parole del figlio frantumano ulteriormente lo spirito della donna in preda al dolore, cancellando ogni minima traccia d’identità, ogni ricordo, ogni altra persona, ogni pensiero fuorché uno: la morte. Ritiratasi nelle stanze della casa, in uno stato di completa assenza, piange, abbraccia l’altare, tocca gli oggetti familiari; poi, totalmente in delirio, si reca nella stanza di Eracle, si denuda, si sdraia sul letto nuziale e si toglie la vita con un colpo di pugnale nel fianco.
Forse vittima della disperazione per il mancato amore del marito – ma sicuramente marionetta innocente nelle mani del centauro Nesso che si è assicurato la vendetta con l’inganno – Deianira vive l’attimo più atroce della propria infelice esistenza: con l’unica scelta che ha preso in tutto la sua vita, si scopre a un tempo artefice della morte dell’amato e della propria sventurata fine. Perciò Sofocle afferma: «folle chi fa conto su due o più giorni: / non esiste domani, prima che sia finito bene il giorno d’oggi» (p. 164).
Addolorato dalle atroci sventure accadute a Eracle e Deianira, il coro descrive l’arrivo di Illo presso il padre, per comunicargli la morte della madre e la verità dei fatti. Un vecchio lo scongiura di non svegliarlo per non sentire di nuovo i suoi lamenti provocati dal veleno che lo sta uccidendo, ma Eracle si sveglia e riprende a delirare, a urlare, a chiedere l’aiuto degli dèi prima e ad offenderli con bestemmie dopo. Non sopporta di morire così, non per colpo di spada ma per via di una donna, e chiede al figlio che lo uccida, lo prega di consegnargli Deianira per ucciderla, inconsapevole ch’ella è già dipartita.
Illo allora gli svela la verità ed Eracle comprende che è veramente giunta la propria fine: Zeus infatti aveva predetto che nessun mortale avrebbe potuto ucciderlo fuorché qualcuno che dimori già nell’oltretomba. Eracle dunque si ritrova legato a una profezia antecedente quella di Dodona, che però compie quest’ultima: in questo giorno sarebbe stato liberato dalle proprie fatiche – come voleva l’oracolo di Dodona – perché sarebbe morto a causa di un mortale che dimora già nell’oltretomba, ovvero il centauro Nesso – come voleva l’oracolo dei Selli.
Eracle fa giurare al figlio due promesse davanti agli dèi: di portarlo nella vetta più alta dell’Eta e di bruciarlo su di una pira, senza versare alcuna lacrima; di sposare Iole. Per far felice il padre e mostrarsi devoto e rispettoso nei suoi riguardi, Illo giura di adempiere alle proprie promesse e anche lui, come la madre, si ritrova condannato a un’esistenza priva di scelta, oppresso dal volere del forte Eracle, schiavo del proprio sangue.
La tragedia si conclude svelando l’antico detto iniziale. Non c’è felicità per coloro che abitano il mondo greco – o forse l’universo in generale – ritrovandosi schiavi di oracoli, dèi e del sangue degli eroi-padri. Ma nelle parole di Illo si scorge soprattutto il profondo rammarico dell’uomo nei confronti degli dèi, artefici di tutto ciò, creatori degli uomini e indifferenti alle loro sofferenze, di cui invece gli dèi stessi dovrebbero vergognarsi: «nessuno vede il domani; ma l’adesso / per noi è strazio, per loro vergogna. / Ed è pena ancora più atroce / per chi, tra tutti gli umani, subisce questa cieca rovina» (pp. 173-174).
Queste parole, così antiche eppur così attuali, sottolineano l’assenza di speranza nell’uomo in un cambiamento, la sua vanità. Condannato a un’esistenza retta dal tempo del dolore impenetrabile e ingiustificabile, l’uomo di oggi, con le parole di Sofocle, considera il tempo cronologico come un ‘tempo della vergogna e della colpa degli déi’, creatori di un mondo colmo solo di avvenimenti atroci: «nulla, in tutto questo, che non sia Zeus» (ibid.). Per quanto la speranza sia l’ultimo di tutti i mali, l’uomo però non può farne a meno. La questione è decidere su che cosa sperare, quando non si può farlo verso un “chi”.
La devozione di Illo nei confronti di Eracle rappresenta simbolicamente la venerazione delle vecchie generazioni ad opera delle nuove, dei padri ad opera dei figli, delle tradizioni ad opera dei giovani. Dal momento che il mondo è dolore e che gli usi, i costumi, le tradizioni, le leggi passate causano maggiore sofferenza, i giovani decidono di smettere di adorarle, rispettarle, riverirle. È il momento di crearne delle nuove capaci di rendere la vita di ognuno felice. Questo è il compito delle fresche generazioni. Tuttavia, chiusi i rapporti con il passato, restano intrappolati in un limbo, frutto della barbarie dell’informazione e del falso sapere.
Per edificare un nuovo domani, è necessario l’impossibile. Ma questo è tale finché nessuno tenta di renderlo il suo contrario. Possibile, infatti, è una parola che ha a che fare con la speranza. La formazione delle nuove leve del domani deve vertere su questo. Tradotto in termini profani, la parola speranza mira alla felicità. Se vivremo con questo ideale, ossia la costruzione di un mondo più felice, un giorno coloro che ci giudicheranno, quando noi saremo morti, diranno: “Hanno vissuto infelici, ma erano felici nel farlo”.

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