- di Saso Bellantone
Quando si è duri d’orecchio, c’è poco da dire o da fare. Da anni il mito del ponte sullo stretto, il Titano che collegherà l’isola al continente spalancando le proprie braccia, ci perseguita come la morte. Così come quest’ultima prima o poi arriva, allo stesso modo l’ora in cui il mito diviene realtà sembra avvicinarsi.
A dicembre/gennaio – dice il presidente del Consiglio – partiranno i lavori per la costruzione dell’opera faraonica che rilancerà l’economia e il turismo italiano nel mondo. Ma l’Italia, e in particolare in Sud, ha davvero bisogno del ponte?
Da tempo i figli di questa terra ricca di storia, cultura, risorse e volontà, ma priva di infrastrutture, fabbriche, aziende e lavoro, alzano in coro la voce nella speranza di essere ascoltati, ma i monologhi di chi abita la suite dello Stato italiano ridondano imponenti, sovrastando, paradossalmente, quell’insieme di voci che, di contro, appaiono come un bisbiglio.
Perché il ponte? Chi lo vuole? Qual è la sua utilità? Quale è il senso di questa fatica dell’uomo, paragonabile a quella del semidio Eracle, quando la legge del pianeta dimostra che nulla di quanto l’uomo costruisce è eterno.
Le testimonianze di questa regola, scritta nelle intramontabili pagine della nostra memoria con inchiostro rosso-sangue, sono tutte quelle catastrofi – escluso le tragedie provocate dall’uomo, come le guerre e le armi di distruzioni di massa – che stravolgono il volto urbano delle nostre città, provocando centinaia o migliaia di morti: alluvioni, terremoti, tzunami, glaciazioni, eruzioni vulcaniche, cicloni ecc.
Di fronte a questa fatalità cui tutto ciò che fiorisce sulla superficie terrestre è soggetto, sembra assurdo captare quei monologhi che risuonano il comando “Sia il ponte sullo stretto!”, quasi simile agli imperativi divini presenti nel Genesi biblico. Che può farsene di un’opera transitoria come il ponte una terra carica di ferite come il Sud e bisognosa di un altro genere di rimedi? Realizzare il ponte sullo stretto per rilanciare il Meridione e l’Italia intera è lo stesso che prescrivere un’ingessatura immediata del piede per chi, invece, ha anche un’emorragia interna. Bisogna prima curare l’emorragia e poi ingessare. Stesso dicasi per la Calabria e la Sicilia. Ma qual è la fuoriuscita di sangue di queste regioni? Di cosa hanno realmente bisogno?
In breve: di lavoro. In questo senso, il ponte sullo stretto non rappresenterebbe un’occasione utile per creare migliaia di posti di lavoro? Certamente, ma spesso la disperazione che aleggia nelle nostre terre rende ciechi ed egoisti riguardo all’utilità lavorativa del ponte. L’edificazione del Titano è un’occupazione temporanea che richiede sì centinaia o migliaia di operai ma soltanto per un numero preciso di anni, trascorsi i quali, vale a dire ultimati i lavori, si torna punto e a capo. In altri termini, la maggior parte degli impiegati si ritroverà di nuovo a spasso.
“Ma almeno li si è tolti dalla strada e dal malaffare, consentendogli l’opportunità di crearsi una famiglia e un futuro?” – obietteranno molti. Senza dubbio. Ma a costoro gli si chiede: e poi? Li pensioniamo? Li mandiamo a casa? E come si sfameranno? Che dire, invece, di tutti gli altri che non avranno l’opportunità di far parte della squadra chiamata a realizzare il ponte? Li lasciamo a zonzo, come facile preda della malavita? “Gli altri si arrangiano: quando poi i lavori saranno completati, beh, chi lo dice che ancora sarò vivo. Fatti loro!” – rispondono tanti. Questo è puro egoismo, non è lo spirito col quale si prende parte al bene comune. A costoro gli si domanda: siete sicuri che andrete proprio voi a lavorare al ponte? E se non fosse così?
Bisogna trovare la forza per vincere lo smarrimento e l’amor proprio e affrontare la questione del “lavoro” al ponte con estrema lucidità. Se il lavoro è la nostra chiave di lettura relativa alla costruzione del ponte, allora il lavoro sia la chiave di violino per armonizzare i nostri propositi e la nostra volontà con l’effettivo fabbisogno della Calabria e della Sicilia, dei nostri giovani e del nostro avvenire. Chi comanda la messa in opera del ponte, dovrebbe bloccare un attimo i propri imponenti soliloqui, almeno per ascoltare il sussurro che la gente del Sud, insieme, gli propone, al fine di rilanciare l’economia e il turismo nazionali. Di che cosa ha bisogno il Mezzogiorno?
Il Meridione ha bisogno di un potenziamento e perfezionamento delle strade, delle ferrovie, dei porti, degli aeroporti, degli acquedotti, delle dighe, delle centrali elettriche, dei depuratori idrici, delle terre agricole e degli allevamenti, delle aziende e delle imprese, della sicurezza e nettezza urbana e extraurbana, delle risorse turistiche, dei trasporti, dei musei, delle gallerie d’arte, dei cinema, delle scuole e delle università, delle istituzioni. Urge della creazione di nuove industrie agricole, alimentari, siderurgiche, chimiche, tessili e della moda, farmaceutiche e sanitarie, meccaniche, energetiche, edili, telematiche, tecnologiche, artistiche, turistiche. Necessita di nuovi centri commerciali, della produzione, promozione ed esportazione dei prodotti tipici, di nuovi centri di studio e di ricerca, nuovi ospedali, case di cura, centri sportivi e di benessere, piscine, alberghi, hotel, biblioteche, teatri, parchi acquatici, ludici o zoologici. Ha bisogno di maggiori finanziamenti e investimenti, di sicurezza nelle case, nelle strade, nelle scuole e negli ospedali, di una nuova grande rete di servizi, primo fra tutti quello dell’igiene e della sanità cittadina, di tante altre cose e interventi che vengono in mente a tutti coloro che leggono queste righe. In una parola, il Sud ha bisogno di speranza.
La pianificazione e la concretizzazione di tutto questo, rappresenterebbe il giusto intervento sul diroccato presente che abbiamo innanzi agli occhi e la saggia preparazione del futuro di queste terre e dei suoi giovani, perché produrrebbe tanto di quel lavoro da consentire alla maggior parte dei disoccupati e dei disperati di lavorare, di edificare da sé il proprio destino, quello della comunità italiana e dei propri figli. In poche parole, si darebbe a tutti l’opportunità di rendersi utili per il rilancio economico, sociale, culturale, turistico, industriale e chi più ne ha più ne metta, non solo del Meridione, ma dell’intero Paese.
Di fronte al triste scenario che vediamo ogni giorno, che c’induce a diventare egoisti e parassiti e a pensare che niente cambierà mai, la costruzione del ponte è l’ultimo problema. Se s’intervenisse là dove occorre, allora la realizzazione del ponte rappresenterebbe la ciliegina sulla torta della rinascita del Meridione e dell’Italia nel mondo.
Per questa ragione, è necessario riflettere sul serio sulla questione, evitando mode culturali e schieramenti politici. Per cambiare il nostro Sud bisogna prima abbandonare le proprie avare ambizioni, la chiusura in se stessi e l’ignoranza e cominciare a sentirsi parte dello stesso Sud che si vuole rilanciare. Solo in questo modo possiamo trasformare il nostro sussurro in un ruggito carico di forza, coraggio e speranza per le generazioni a venire. Solo così possiamo attirare l’attenzione del Premier, ma bisogna farlo subito.
Circa 50 chilometri a bassa velocità fra Reggio e Messina. Il Ponte sullo Stretto rischia di passare alla Storia come l'unica, grande opera, capace di rallentare piuttosto che velocizzare l'agonia delle arterie viarie del Mezzogiorno d'Italia.....
RispondiEliminaper non parlare dell'impatto ambientale che avrà questa ciclopica costruzione e il caos che provocherà a livello urbanistico...
RispondiEliminache dire poi di tutti quelli che, da generazioni, abitano nei luoghi dove dovranno crearsi i cantieri e le immense colonne di sostegno? Saranno traferiti altrove? E se ne andranno spontaneamente o dovranno essere cacciati con la forza?