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giovedì 6 febbraio 2014

Supersantos


- di Saso Bellantone
Lentamente, la nave oltrepassava le calme acque dello Stretto, proprio come un millepiedi attraversa una distanza pari ai gradini dell'uscio di una casa. Lentamente, la rondine solcava il cielo blu in direzione del proprio nido, proprio come pescespada salta oltre la schiuma marina per rintanarsi nella sua tana. Lentamente, le automobili scorrevano per la via principale del paese, proprio come i barattoli di legumi sopra il nastro trasportatore all'interno di una catena di montaggio. Lentamente. Pacatamente, passava la vita nel piccolo paese del Meridione. Come se tutto fosse avvolto nelle maglie di un sogno appena cominciato. La fila alla posta o al bar centrale, le ore di scuola o quelle sul posto di lavoro, la mano a tressette dello zio o la cottura della parmigiana della nonna, tutto avveniva a rilento, passo passo, senza fretta, come se il destino di quella bella giornata primaverile fosse già segnato, deciso, stabilito da qualcosa, o qualcuno, che si prendeva tutto il tempo necessario per l'importanza del momento.
Lentamente il supersantos rimbalzava sulle brune piastrelle che ricoprivano la terrazza e lentamente Lazzaro gli andava dietro, per afferrarlo con le sue manine, lanciarlo nella direzione opposta, riprenderlo e scagliarlo nuovamente dall'altra parte. Era felice, Lazzaro. O meglio, non sapeva nemmeno lui che cosa provava. Era, semplicemente, su quel terrazzo, assieme al pallone e ai movimenti automatici e privi di ragione che la palla stessa gli imponeva di compiere. Correre, saltare, andare, tornare, afferrare, lanciare, stare. Stare, sì, seduto per un tempo incalcolabile e indescrivibile sopra la sfera arancione e a linee nere, finché gli adulti non sarebbero apparsi dal nulla e l'avrebbero riportato a casa sua. Ma gli adulti, quegli strani esseri alti e grossi non comparivano, e lui se ne stava seduto sul pallone, dondolandosi avanti e indietro, tenendosi sorridente alle sbarre della balconata.
Fu allora che accadde.
All'improvviso.
Come temporale sotto il cielo azzurro, come boato in un silenzio sepolcrale, Lazzaro sentì. Sentì qualcosa colpirlo immaterialmente, calarsi dentro di lui, riempirlo dalla testa alla schiena, facendo vibrare le sue orecchie di un suono tonante, profondo e acuto nel contempo. Come riemergendo dalle acque o svegliandosi di colpo da un lungo sonno, Lazzaro capì che stava respirando, sentiva l'aria entrare dentro di lui, riempirlo e svuotarlo armonicamente, costantemente, senza possibilità di opposizione alcuna. Abbassò la testa e scorse il suo corpo, il suo petto, la sua pancia, le sue gambine. Si ritrovò seduto sul supersantos, con le mani aggrappate all'inferriata che dava sulla via principale del paese. Vide la nave e lo Stretto, il millepiedi e i gradini della casa di fronte, la rondine e il pescespada. Udì il cinguettio della prima e il fracasso del corpo del secondo che sbatteva sul mare. Udì il rumore delle automobili e quello della catena di montaggio sotto il palazzo, le voci della gente in fila alla posta e al bar, quelle dei bambini a scuola e degli operai sul proprio posto di lavoro, quella della zio che chiamava l'asso e dell'olio che friggeva le melanzane. Percepì il profumo dell'aria, la sua freschezza sfiorare timidamente la sua carne. Avvertì il cattivo odore dello scarico della macchine, la fragranza della frittura proveniente dalla cucina della nonna, il sapore della saliva nella bocca, la morbidezza del supersantos su cui era seduto, la freddezza dei ferri a cui era aggrappato. Captò quell'indecifrabile senso di movimento, di dinamismo, di vitalità che coinvolgeva tutto, tutte le cose facenti parte di quell'ambiente che gli stava attorno e di cui soltanto in quell'istante si era accorto.
Si alzò di scatto e guardò il pallone su cui era seduto poco prima. Era sconvolto e provava pace nel contempo. Non capiva cosa gli stesse accadendo. Gli sembrava di essere stato catapultato su quella terrazza da chissà dove, da un luogo nascosto di quell'ambiente in cui si trovava. Si sentiva pesante, si girò rapidamente pensando qualcosa, o qualcuno, si fosse appoggiato a lui, sulla sua schiena, ma non c'era niente, non c'era nessuno...
Sentì qualcosa pulsare dentro di lui, un ritmo ignoto e familiare nel contempo, incomprensibile ma già udito, nuovo ma già sentito in qualche altro posto... Mise una manina sul petto e avvertì la sua pressione. La tolse e, alzata anche l'altra, cominciò a osservarle entrambe. Strani segni le attraversavano. Le lasciò cadere ai suoi fianchi e scorse nuovamente la palla colorata immobile sotto di lui.
Non capiva e non aveva paura, eppure gli sembrava di sapere già quello che stava accadendo. Poi corse.
Corse dentro, nella cucina, in direzione della mamma, seduta innanzi alla nonna che preparava la parmigiana, e la strinse a sé. Riconosceva il suo volto, forse, era l'unica certezza che aveva in quel momento di confusione e di innata consapevolezza che avvertiva.
Stringendosi più forte che poteva alle braccia di lei, l'immagine del pallone abbandonato sul terrazzo fissa nella sua testa, si chiedeva, per la prima volta, pur sapendo già la risposta, come fosse stato possibile di essersi svegliato soltanto adesso.

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