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giovedì 13 febbraio 2014

Versieri: DOVE CONDUCE LA NOTTE di Carlo Menga


- di Saso Bellantone

Una candela rossa
e un fischio di pipistrello;
un muro grigio e fioco
che può sembrare un castello.
Ragionando per gioco
col proprio mucchio d'ossa,
è bello che un poco si possa
indovinare
dove conduce la notte.

La notte... Amica tanto attesa, nemica detestata, presenza, o assenza, ricorrente nel corso della nostra permanenza in questo “posto” soggetto da sempre alle più disparate interpretazioni e congetture. C'è chi la brama già alle prime luci dell'alba, chi invece la disprezza in ogni bianco istante; c'è, anche, chi vive soltanto nel suo grembo, poiché all'interno di esso si cela, e si mostra, il mistero del “posto” in cui ci si trova. Egli si interroga, vaneggia, sogna e si lascia andare in teorie e fantasticherie simili a tesori, per i pazzi, e a miseria, per i savi. Eppure costui vive, sì, vive... Vive il tempo sconnesso di un “posto”, apposto e alla rovescia assieme. La luce di una candela tiene compagnia. Rossa, sì, come il colore del volgare “capo d'anno”, in quanto è nella notte che si nasconde, e si manifesta, la fine e l'inizio. Già... la fine, e l'inizio, di questo “posto” matto e logico nel contempo, nel quale si è relegati malgrado sé, finché la fine finisce e l'inizio... inizia. Fa paura soltanto a pensarci... la fine e l'inizio, istantanei, fugaci, effimeri, come il fischio di un pipistrello... nella notte, sì. Nella notte. Dove riposa il segreto di questo “posto”, il suo cominciare e il suo terminare... Dove tutto può apparire, contemporaneamente, per quello che è e che non è. Come un muro, antico e debole può avere l'aspetto di un castello rievocante altri tempi o... viceversa. Come un uomo, vecchio e stanco, può sembrare un dio o... soltanto un uomo.
Qui, nella notte, niente è definito fuorché la notte, il buio, l'incapacità di vedere e, anche, l'abilità di sapere la propria mortalità, finitudine, caducità, in questo “posto” che, come donna timida e imbarazzata e confusa, non vuole spogliarsi degli abiti che occultano la sua bellezza, la sua verità. E allora si gioca, si immagina, ci si illude, si tenta a indovinare l'enigma che tanti altri pensatori e poeti e amanti e semplici mortali hanno fatto prima di noi, invano. E ciò, coscienti della propria mortalità, ha un che di bello, di incantevole, di meraviglioso. Perché, se non nella sua essenza, sempre “altrove” conduce la notte.
In questa poesia, che intitola l'omonima raccolta (Città del Sole, 2012), Carlo Menga esprime in pochi versi le emozioni provate dall'uomo innanzi alla notte. Ente dotato di un potere capace di stregare ogni vivente, la notte è il luogo primo della veglia, dell'esser desti, dell'interrogarsi intorno al senso e alla definizione di questo “posto” chiamato mondo. Nella notte, in compagnia della fioca luce di una candela, attraversato dal brivido che la domanda stessa suscita, l'essere umano pensa e gioca e ragiona e ironizza sul mistero dei misteri, l'enigma dell'enigma, l'esserci cioè, come un surplus, in un luogo che non ha volto né concretezza nonostante la propria materialità, presenza, evidenza. Sconfitto da una domanda che non troverà mai risposta alcuna, è bello indovinare, tentare, pronosticare finché se ne ha il tempo; finché il tempo stesso, non ha svelato ormai la malattia di cui siamo infetti, soltanto per essere innanzi alla notte nel porci, oppure no, il suo interrogativo: la nostra mortalità.

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