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giovedì 9 febbraio 2012

OLTREWEB La mobilità del lavoro e il Nuovo Grande Leviatano

- di Saso Bellantone
Buon meriggio web,
la polemica innescata da “l’uomo del monte” a proposito della monotonia del posto fisso ti ha proprio accecato. Non riesci a mandar giù l’idea che il posto fisso, oggigiorno, è soltanto un lontano ricordo e ti arrabbi, quando invece quello che dovrebbe preoccuparti seriamente sono altre parole de “l’uomo del monte”, ossia di non escludere la possibilità di fare esperienza lavorativa all’estero.
Il posto fisso è stato il baluardo di quelle generazioni vissute a partire dal secondo dopoguerra fino all’entrata dello “stivale” nelle “ben irrigate” lande a nord di esso. In quel periodo, occorreva ricostruire il paese in ogni sua dimensione pubblica, la popolazione era inferiore rispetto a oggi, si rivitalizzava l’agreste e il periferico in modo poliedrico – agricoltura, industria, strade, ferrovie, infrastrutture, istituzioni, scuole, attività commerciali, banche, forze armate e via dicendo – per creare le future metropoli dell’economia e del potere, e consentire allo stivale di rinascere dalle proprie ceneri, con una propria costituzione, propri ordinamenti, una propria autorità e una propria moneta. Il posto fisso è stato il punto di ripartenza dello stivale per riaffermarsi come uno Stato di diritto, autonomo e indipendente rispetto agli altri Stati, dai confini territoriali, costituzionali, monetari, legislativi ben definiti.
Una volta risorto, lo stivale è entrato in una seconda fase della sua storia. Con la stabilizzazione onnilaterale della dimensione pubblica, la crescita della popolazione e il funzionamento a pieno regime delle metropoli dell’economia e del potere, il posto fisso ha iniziato a scarseggiare, specie nelle periferie dello stivale, che hanno iniziato ad attraversare un periodo di stasi. Per questo motivo, la gente, specie quella del Mezzogiorno, ha iniziato a trasferirsi nelle regioni più a nord o addirittura all’estero, per poter sopravvivere e/o di aiutare economicamente i familiari rimasti nella terra natia, facendo qualsiasi lavoro. Queste generazioni sono passate insomma da un’idea del lavoro di tipo unico e statico a una di tipo molteplice e dinamico. In altri termini, anziché fare sempre il medesimo lavoro nello stesso luogo per gli anni utili ai fini del pensionamento, hanno svolto diversi lavori in località differenti fino alla pensione (e oltre). La mobilità del lavoro, dunque, è qualcosa che queste generazioni hanno già vissuto, sperimentando il lato oscuro che si cela nel lavoro mobile: l’insicurezza, il sacrificio, il pericolo.
Trasferitasi altrove per lavorare, questa gente meridionale ha sfidato l’ignoto senza punti di riferimento né aiuti, in balia dell’incertezza. Non sapevano se avrebbero trovato lavoro né, qualora la fortuna li avesse baciati, quanto sarebbe durata la loro occupazione. Tuttavia, ha dedicato la vita esclusivamente al lavoro, con molti sacrifici, allo scopo di sopravvivere e di crearsi un domani una casa, una famiglia, un futuro. Alcuni ci sono riusciti, altri sono stati meno fortunati. Una delle peculiarità che tali precursori meridionali hanno vissuto, è stato il mescolarsi ad altri individui originari delle regioni settentrionali, occidentali e orientali dello stivale. Gente diversa, ognuno con una propria storia, una propria cultura, un proprio linguaggio, una propria terra natia, una comunità d’appartenenza, insomma una propria identità. Insieme, tali individui hanno affrontato il medesimo pericolo: quello di perdere i legami con le proprie origini, un rischio provocato, anzi insito, nella dedizione che necessariamente hanno dovuto sviluppare nei confronti del lavoro, allo scopo di sopravvivere. Per loro, non c’era altro a cui pensare: lavorare o morire.
Naturalmente, le condizioni storiche nelle quali hanno vissuto questi precursori della mobilità del lavoro, erano diverse da quelle attuali. Oggi, il paese è ricostruito, il periferico è all’abbandono, le metropoli dell’economia e del potere sono sature, la popolazione è cresciuta: sia quella originaria dello stivale sia quella proveniente da altri paesi. Quest’ultima, trovando occupazioni lavorative che gli stivalati disprezzano perché troppo locali o umili, mischiandosi con gli stivalati, vive in terra stivalica quello che le generazioni del Mezzogiorno hanno vissuto alcuni decenni fa: fa esperienza che la sopravvivere consiste nel lavorare o morire. La popolazione stivalata, romanticamente illusa dall’idea del posto fisso, pur mobilitatasi e trasferitasi altrove – allo scopo di concretizzare la fatica di tanti anni di studio, di tasse universitarie e di sacrifici sostenuti in proprio o con l’aiuto della famiglia –, è tuttavia incapace di metter radici nei centri dell’economia e del potere, fuorché in maniera statistica, raccomandata e/o sfruttata, contrattualmente e in nero. A questa, non resta alternativa, come dice “l’uomo del monte”, se non di trovare fortuna e sopravvivenza nelle “ben irrigate” lande a nord dello stivale. Là, dovrà esperire (se non lo ha già fatto) che sopravvivere è una scelta tra il lavoro (qualsiasi) e la morte.
Quello che accomuna i precursori stivalati trasferitisi al nord, gli immigrati giunti nello stivale e gli attuali disoccupati stivalati costretti a guardare alle “ben irrigate” lande del nord, non è meramente la mobilità del lavoro ma quel che si cela in essa: la schiavitù del lavoro. Perché quando il lavoro si manifesta insicuro spazio-temporalmente e la sopravvivenza diviene una questione lavorativa, si diventa schiavi. Ricordi, mio caro web, che cosa accadde l’ultima volta che apparve la schiavitù del lavoro, prima della formazione dello stivale, prima dei precursori, nei tempi della jüngeriana “mobilitazione totale”? Allora dalla mobilità e schiavitù del lavoro, prova a osservare quale grande avvenimento è in atto nelle “ben irrigate” lande del nord, dove “l’uomo del monte” suggerisce di andare, che accade anche nello stivale.
Un nuovo Leviatano sta sorgendo, a causa del quale i confini dello stivale cominciano a traballare. Caduti sono già quelli territoriali e monetari, quasi precipitati sono quelli legislativi, pronti a crollare sono quelli costituzionali. Il Grande Leviatano del Nord è quella macchinazione che si compie alla maniera di un Nuovo Titanico Stato di diritto autonomo e indipendente rispetto agli altri Mostruosi Contenitori situati ad est, in medio oriente e oltreoceano. A tal fine, però, così come accadde per lo stivale nel secondo dopoguerra ma all’inverso, sta già intessendo ogni sua dimensione pubblica devitalizzando l’attuale periferico – i vecchi Stati – e creando gli snodi cruciali della propria economia e del proprio potere. Per evitare di trasformarsi in una nuova Babele, il Colossale Progetto Settentrionale compie se stesso, sorreggendosi nell’idea della mobilità del lavoro, che produce schiavitù. Ossia, installando in se stesso tutta quella forza-lavoro disoccupata proveniente dai vecchi Stati, nei quali non ha trovato occupazione, cancellando ogni singola identità e impiantando a tutti una nuova: quella della tecnica. Ma a quale scopo sorge questo nuovo Immenso Leviatano? Per la futura lotta per il potere tra Poderosi Titani che si sorgono all’orizzonte, preannunciando nuovi pericoli. La mobilità del lavoro, e la schiavitù che genera, non sono altro che la premessa, rievocante antichi totalitarismi, dei capitoli oscuri della storia a venire.
Medita web, medita…

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