Come molti sanno – o non sanno – buona parte della teologia cristiana (cattolica) pone a fondamento della propria interpretazione del peccato il pensiero di Paolo di Tarso. Le Epistole dell’apostolo sono infatti la più vicina fonte letteraria agli avvenimenti riguardanti il Messia Gesù e l’origine del cristianesimo. Non è questa la sede per interessarsi del passato “ebraico” dell’apostolo e delle ragioni di natura psico-fisiologica che lo spingono alla “conversione”. Piuttosto, per fare luce sull’odierna concezione del peccato della chiesa cattolica, ci si soffermerà sulla più celebre Epistola di Paolo: la Lettera ai Romani (68 d.C.). In questa Epistola, Paolo enuncia una teoria generale riguardante il Messia Gesù, detto il Cristo, che è il cuore pulsante di tutta la teologia cristiana successiva. Dal capitolo 5, versetto 12 in poi, stabilendo un parallelismo tra un “primo” Adamo e un “nuovo” Adamo (il Messia), Paolo delucida che il senso profondo della venuta del Messia Gesù è liberare il mondo e l’umanità dallo stato di peccato in cui si trovano a causa della trasgressione di Adamo. Il segno tangibile del peccato è la mortalità del creato intero. Con la propria morte e resurrezione, il Messia Gesù libera il mondo dal peccato e dalla morte, avvolgendoli in uno stato di grazia. Il Messia Gesù, dunque, introduce una nuova giustizia rispetto a quella precedente, quella mosaica. Mentre secondo la Legge mosaica ogni uomo è peccatore e, per questo motivo, muore, con il Messia Gesù si attiva una nuova tipologia di giustizia in virtù della quale tutti gli uomini risultano “giusti”, cioè “non peccatori”. Scrive Paolo: «Noi siamo morti per il peccato» (Romani 6, 2). Paolo pensa il nostro vecchio corpo, mortale e peccatore, è morto crocifisso assieme al Messia, ma ognuno di noi risorge in un corpo nuovo “vivo”, giusto e eterno come quello del Messia stesso, col quale si entra in connessione a partire dal battesimo nel suo nome. In poche parole, il Messia sconfigge una volte per tutte il peccato e la morte e, in questo modo, le elimina dal creato. Chi è battezzato nel suo nome, quindi, non è più in condizioni di peccare né può morire perché è risorto in un nuovo corpo soggetto alla nuova giustizia introdotta dal Messia, la grazia, vale a dire la liberazione dal peccato e dalla morte. Al tempo di Paolo non esiste ancora un cristianesimo: i seguaci del Messia Gesù (e di Paolo) sono considerati una setta interna all’ebraismo. Nel corso del tempo, morto Paolo, appaiono varie correnti o eresie (Marcione, Ario ecc.) che interpretano i fatti relativi al Messia Gesù in diverso modo così, per risolvere una volta per tutte la questione, si decide di organizzare un concilio per ascoltare le differenti interpretazioni e stabilire qual è l’interpretazione “più vera” del Cristo: il Concilio di Nicea (325 d.C.). A partire da questo concilio, il cui arbitro è l’imperatore Costantino, comincia a esistere la religione cristiana, perché proprio in quel momento si stabilì un “canone”, cioè il Credo, e il dogma trinitario. Il Credo, che è rimasto immutato per buona parte fino a oggi, è la professione di fede dei cristiani, il cui testo recita: «Fu crocifisso per noi (Gesù Messia) sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto, e il terzo giorno fu risuscitato per la remissione dei peccati (dei nostri)…». Dunque, il Credo è in accordo con l’apostolo Paolo riguardo al peccato: con la morte e resurrezione di Gesù Messia, l’uomo è libero dal peccato. “Rimettere i peccati” significa infatti “assolvere, condonare, liberare dai peccati”. Via via che il tempo passa, la Chiesa introduce una nuova preghiera nella propria dottrina, mettendola in contrasto sia con il Credo sia con Paolo: il “Confesso”. Il Confiteor è menzionato per la prima volta come parte dell’introduzione della Messa di Bernoldo di Costanza (morto nel 1100), ma molte sono le forme che circolano nel Medioevo. Nel 1962, la Chiesa stabilì la forma del “confesso” così come la conosciamo ora. Il testo di questa nuova preghiera recita: «Confesso a dio onnipotente e a voi fratelli che ho molto peccato, in pensieri, parole, opere ed omissioni, per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa…». È evidente il contrasto del “confesso” con Paolo e il Credo. Il “confesso” ripristina lo stato generale di peccato (e di morte) e di condanna che Paolo considera cancellato dalla morte e resurrezione del Messia Gesù e che il Credo convalida. L’uomo tornerebbe a essere schiavo di un circolo vizioso del peccato che lo coinvolge in modo onnilaterale. Secondo il “confesso” l’uomo non solo peccherebbe mediante pensieri, parole, opere e sviste, ma la colpa grava tutta su di lui. Le Epistole di Paolo sono la testimonianza più vicina al Messia Gesù. Paolo descrive la propria sapienza come un evangelo trasmessogli direttamente da Dio, dunque superiore a tutti gli altri evangeli. In altre parole, la sapienza paolina è la “verità” perché proviene da Dio. Le sue Epistole sono la codificazione di questa sapienza divina. Ripristinando quel che Dio ha cancellato per mezzo di suo figlio, lo stato di peccato, allora la Chiesa pretende di stabilire una verità superiore a quella divina, perché in contrasto con la verità codificata nelle Epistole prima e convalidata poi nel Credo. Così facendo, si potrebbe pensare che la Chiesa vuole innalzare il proprio volere al di sopra di quello divino, ossia che vuole mettersi al posto di Dio. Dal momento che l’uomo non è Dio e sbagliare è umano, è preferibile pensare che l’introduzione del “Confesso” nella dottrina cattolica sia semplicemente una “omissione”, una svista, un abbaglio operato dalla Chiesa accidentalmente e senza secondi fini. Se è andata così, ritengo necessario che la Chiesa riveda la propria dottrina, per epurarla da preghiere che potrebbero non solo metterla in contrasto con se stessa e con il proprio credo (e, come si è visto, lo è di fatto), ma anche metterla in disaccordo con la verità divina svelata all’apostolo delle genti e contenuta nelle sue Epistole. In sintesi, bisogna abolire il Confiteor.
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