- di Saso Bellantone
È incredibile! Siamo nel terzo millennio: il pericolo di un impero nazista e comunista, con i rispettivi archetipi di tipi umani superiori (ariano e nuovo) è appena stato scansato…e ancora si afferma, ideologicamente, che esistono sul nostro pianeta varie razze di esseri umani???
Se proprio non si può fare a meno di usare questo vocabolo, bisognerebbe limitarsi a parlare di razza umana e non di razze umane. Sostenere l’inverso implica ritenere che tutti gli umanoidi che abitano il pianeta Terra non provengono dallo stesso primate, ma che risalgono a diverse tipologie: alcuni derivano dagli orango, altri dagli scimpanzè, dalla bertuccia, dal babbuino, altri provengono da pianeti e galassie diversi, altri ancora sono stati portati sul nostro pianeta dalla cicogna, altri nascono sotto i funghi e via dicendo.
Se soltanto uno di questi casi fosse possibile, come stabilire quale tipologia di umanoide è migliore o superiore rispetto alle altre? Questi concetti, compreso quello di razza, hanno valore in natura? Oppure sono solo dei vocaboli coi quali gli uomini edificano una visione distorta delle cose?
Forse è vero, non tutti proveniamo dallo stesso primate – e forse vi sono diversi ceppi originari dai quali, separatamente (nel tempo, nello spazio, nel clima, nell’habitat) si sono evolute differenti forme umane – ma come è possibile affermare, da un punto di vista ideologico e biologico, che esistono diverse razze umane? Nel primo caso, significa sostenere che Dio possiede un armadio pieno di diversi modelli umani bell’e pronti da riprodurre nel mondo a proprio piacimento: prima Adamo ed Eva, poi Rocco e Arianna, poi Igor e Ludovica, poi Alì e Issacar, poi Chen e Chung Lu, poi ET e TE e così via. Nel secondo caso, vuol dire ritenere che esistono forme di vita ‘umana’ differenti, vale a dire organismi viventi di fattezze umane che, però, nella struttura e nei processi interni, sono dissimili l’uno da tutti gli altri.
Se davvero ci siamo evoluti da diversi capostipiti o chissà che, sorge un’altra questione: come sono apparsi sulla Terra queste differenti tipologie? L’una indipendentemente dalle altre? Oppure è comparsa, all’origine, una prima tipologia di animale simile a quella che poi diverrà la scimmia, dalla quale, col passare di lunghissimi periodi evolutivi, derivano le diverse specie diffuse oggi in varie regioni del pianeta (comprese quelle scomparse)?
Ci troviamo di fronte al problema dell’origine della vita e della sua evoluzione in varie forme di adattamento storico-climatico, che ha prodotto in seguito modelli di vita più complessi quali i vegetali, gli animali e compagnia bella. La domanda è: la natura (o Dio, per alcuni) – riproducendo qua e là nel liquido primordiale gli stessi procedimenti chimici che hanno generato diverse forme di cellule eucariote, procariote e quant’altro – è stata così geniale a produrre in diversi luoghi, dissimili ma uguali generi di pesci, anfibi, dinosauri, chimere, pietre pomici, erbacce e ominidi? Oppure c’è riuscita una volta sola e da questo caso ha creato tutti i tipi? Come spiegare, in alcuni casi, i generi maschile e femminile? La natura ha creato prima la specie femmina e poi da questa ha generato il maschio? E la fecondazione? La femmina si è auto-fecondata e ha partorito due gemelli (i biblici Caino e Abele o altri per diverse tradizioni e culture) dai quali deriverebbe l’intero genere umano? Oppure la natura ha raggiunto per vie diverse vari prototipi umani?
È il classico problema dell’uovo e della gallina, insolubile per chi non possiede doti magiche, profetiche o sovrannaturali – e tecnologiche (ossia la celebre macchina del tempo). Da un lato sembra assurdo immaginare che ogni specie vivente si sia evoluta e moltiplicata da un unico tipo prodotto dalla natura nel brodo primordiale; dall’altra, è altrettanto assurdo pensare che la natura sia riuscita a creare più tipologie di specie, simili e diverse, dalle quali provengono tutte quelle conosciute e non. E se fosse più attendibile questo secondo caso?
Se è così difficile capire l’origine di ogni forma di vita terrestre, può essere così semplice e banale liquidare la questione della razza o delle razze umane asserendo con estrema certezza, sia idealmente che biologicamente, che esistono “più razze umane”? La questione chiama in causa la scienza, la quale, al di là di ogni darwinismo e teoria evoluzionistica finora escogitata – deve riconsiderare la questione a monte: vale a dire, ricominciare a immaginare situazioni originarie della vita, adoperando anche il buon senso. Ma che significa razza?
Il concetto di razza proviene dal francese antico haraz che vuol dire “allevamento di cavalli”. All’interno delle specie animali o vegetali, indica l’insieme di individui aventi caratteristiche simili; in antropologia, si usa per classificare gli uomini in “tipi”. In questo secondo caso, la distinzione degli uomini avviene a seconda delle loro caratteristiche fisiche che, secondo la “teoria climatica”, sono determinate dall’ambiente naturale.
Lo studio sulle “razze” si affermò all’epoca delle grandi esplorazioni geografiche che, fornendo un’abbondante varietà di “tipi umani”, stimolarono i tentativi di sistemazione delle diverse popolazioni in uno schema generale e “scientifico”. In questa carreggiata, si cominciarono a elaborare diverse classificazioni che avevano in comune un approccio biologico alla questione e si basavano su una combinazione di fattori anatomici e fisiognomici (colore della pelle, tipo di capelli, forma del cranio, del naso, statura ecc.). Ad esempio, alcune di queste classificazioni dividevano il genere umano in tre principali razze: negroide, mongolide e caucasica, ognuna a sua volta suddivisa in sottorazze.
Queste ripartizioni pretendevano far risalire alla “razza” le diversità culturali, storiche ed economiche delle diverse popolazioni. Verso la fine del XIX secolo, Joseph Arthur Gobineau, elaborò una teoria della razza fondata esclusivamente sulla cultura e sul “grado di civiltà”, che prevedeva una suddivisione delle razze in evolute o superiori e primitive o inferiori (e di qui si giunse al nazismo e al comunismo).
Nel XX secolo, lo sviluppo della ricerca genetica dimostra la fragilità dei precedenti approcci “scientifici”. Infatti, se prendendo in considerazione soltanto le caratteristiche “esterne” è possibile stabilire delle distinzioni, svolgendo un’analisi “interna” risultano solo minime variazioni genetiche tra una “razza” e l’altra e spesso in contraddizione con le variazioni fisiche esterne. Queste diversità genetiche avvengono soprattutto all’interno delle singole popolazioni in relazione all’habitat nel quale si vive (social-naturale) e determinano un rimescolamento dei geni e la comparsa di caratteri nuovi.
L’analisi scientifica del genoma umano ha messo in evidenza che non esiste alcun gene che si chiama “razza” (caucasica, amerindia, africana, mongola o chissà che) o che la decida. Piuttosto, ha dimostrato che diversi individui umani, presi ai quattro angoli della Terra, sono geneticamente quasi-identici. Forse la scienza non possiede ancora i mezzi necessari per svolgere un accertamento più accurato; forse in futuro dimostrerà che questo gene esiste. Ma fino ad allora, si tenga ben chiaro questo: l’idea di una diversità biologica delle razze in seno alla specie umana non ha alcun fondamento scientifico.
Questo è quanto ha stabilito l’UNESCO nella “Dichiarazione sulla razza”, un documento approvato a Parigi nel 1950, nel quale si afferma con una formula piuttosto semplicistica: “in base alle conoscenze attuali non vi è alcuna prova che i gruppi dell’umanità differiscano nelle loro caratteristiche mentali innate, riguardo all’intelligenza o al comportamento”.
Nonostante ciò, secondo la genetica moderna questo concetto può continuare a essere utilizzato non per descrivere una realtà immutabile, ma l’effetto di un processo di selezione naturale in continua evoluzione, che determina la diversa distribuzione delle caratteristiche genetiche nelle differenti popolazioni.
Se bisogna usare questo concetto, propongo di utilizzarlo in un modo più specifico, collegandolo a un altro vocabolo: terrestre. Dire “razza umana terrestre” non è la stessa che dire “razza germanica, etiopica, semitica o quant’altro”.
Dovremmo tornare a guardare le stelle (come facevamo sia da selvaggi sia nei momenti d’inizio delle più belle culture che caratterizzano la storia delle nostre civiltà) e cominciare a pensare in modo diverso. Bisogna sentirsi parte di un’unica specie vivente che abita il pianeta Terra assieme ad altre forme di vita diverse dalla nostra: quella umana. In sintesi, bisogna iniziare a intendersi tutti come dei “terrestri”.
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