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domenica 5 luglio 2009

IL CASTELLO DI FRANZ KAFKA


- di Saso Bellantone
Pubblicato nel 1926, due anni dopo la morte causata dalla tubercolosi, Il castello è uno dei romanzi più strani e misteriosi di Kafka nonché l’ulteriore esempio di come l’autore sia capace di guardare nelle profondità dell’esistenza umana, scorgendone i motivi essenziali e più nascosti che la caratterizzano. Per questo motivo, l’intera opera kafkiana è la testimonianza di un’intensa vita interiore ricca di domande, sconvolgimenti, paure, incertezze, esitazioni, sofferenze che lo scrittore ceco ha lasciato a noi posteri. Le sue storie si presentano come dei diari di bordo dell’uomo nell’insicuro mare dell’esistere. Diari, in balia dei flutti storici, che per un attimo finiscono dentro la fragile bottiglia che è la nostra vita. I protagonisti di queste storie sono come Teseo. Si ritrovano mortalmente in viaggio attraverso le cupe vie dell’esistenza, dietro le quali, pronto ad aggredirli, si cela sempre il Minotauro, l’eterna e infinita fame da parte del tempo, il suo scorrere inesorabile a scapito di ognuno, sullo sfondo dell’insormontabile punto di domanda intorno alla verità o non verità dell’esistere stesso, dunque del suo scopo.
Nel leggere queste storie, ci si sente strappati dalla propria vita e catapultati in quelle dei protagonisti. Malgrado sé, ci si sente condotti negli abissi di quelle storie da una forza bruta che, quando comincia a mancare l’aria, non fa risalire in superficie. Trattiene giù a perdita di fiato, per osservare un attimo ancora quelle storie così simili alla vita effettiva. O forse, per fare esperienza della principale condizione dell’esistenza umana: la mortalità. In ogni attimo si vive la propria fine ma l’attimo dopo si è ancora là, bisognosi di capire come finisce ognuna di quelle storie. Quando poi l’ultima macchia d’inchiostro scorre via oltre gli occhi, perdendosi nelle candide pagine restanti, solo allora quella forza lascia spazio (tempo) al respiro. Solo adesso si è certi che profondità e superficie sono la stessa cosa. Una certezza ottenuta a caro prezzo: il dubbio su tutto il resto. Non si sa più se si respira davvero, se per una volta nella vita si ha mai preso fiato realmente o se sarà possibile farlo in futuro.
Adesso, l’aria non sembra più aria. Tutto l’habitat nel quale si vive diviene assurdo, ognuno comprende quanto sia illogico, insensato, contraddittorio, impossibile persino se stesso. “Perché?” – è questa la domanda che risuona nel nostro intimo labirinto – “A che scopo vivere?” – così ognuno si chiede, guardando verso il colle su cui troneggia il Castello. Ma «la collina del Castello non si vedeva avvolta com’era da nebbia e tenebre, non il più fioco barlume indicava il grande Castello. K. stette a lungo sul ponte di legno che porta allo stradone del villaggio, e alzò lo sguardo verso il vuoto apparente» (p. 19). Il castello è infatti il simbolo di ciò che ogni uomo rincorre per tutta la propria vita: la verità. Per più di una volta nella propria vita, ogni uomo alza gli occhi verso l’alto, tentando di scorgere anche solo per un attimo quel volto o quella figura, metafora del senso dell’esistere: dio. Ma c’è sempre nebbia, oscurità, non si vede mai nulla. Non si riesce ad intravedere né la verità né dio. Che ci sia davvero il nulla in quella direzione? Se così fosse, come giustificare la vita? Perché il mondo è fatto così e non altrimenti? Perché il vero, il sacro non può essere colto? Perché obbedire a questa legge, a questa impossibilità?
Non c’è senso eppure ogni cosa avviene come se ci fosse. Tutto prende forma secondo questa assurdità. Tutti obbediscono a questa idiozia. Tutti credono che esiste uno scopo per ogni cosa, solo perché vi sono pochi eletti che lavorano per la verità e per dio. Ma dove sono questi prescelti? In mezzo a noi? E dove più esattamente? Perché non è possibile incontrare nemmeno questi? Perché i loro responsi sono imperativi, comandi, leggi a cui non è possibile sottrarsi? Perché sono così importanti nella vita di ognuno di noi, quando invece sono sempre fisicamente assenti dalla nostra vita? Perché tutto non può stare diversamente? Perché noi non possiamo essere diversamente? Perché a nessuno di noi è consentito da tutti gli altri essere diverso? Perché non è possibile dedurre che il Castello, la verità, dio non esistano? A che pro continuare a sostenere il contrario? A che serve?
Queste domande, celate dietro Il castello, sono la lente d’ingrandimento di cui Kafka ci ha voluto fornire per guardare alla nostra condizione esistenziale e a quella planetaria, continentale, statale, sociale, individuale. Per ogni livello dell’esistenza, noi erriamo come estranei a noi stessi. “Perché così e non altrimenti?” – si chiede Kafka. La risposta…spetta ad ognuno di noi.

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