IN QUESTO BLOG NON SI PUBBLICANO COMMENTI ANONIMI.

martedì 3 gennaio 2012

L'ARTE PERIFERICA: intervista a Oreste Kessel Pace (parte prima)

- di Saso Bellantone
Scrittore, poeta, giornalista, saggista, Oreste Kessel Pace nasce a Palmi nel 1974 ed è un amante spassionato della storia locale, che divulga mediante lezioni, seminari, interventi e relazioni presso università e associazioni culturali, ma anche tramite documentari televisivi, racconti, poesie, romanzi, saggi. Membro C.A.I. sezione Reggio Calabria, membro onorario di Kronos Reggio Calabria e Presidente fondatore del club UNESCO di Palmi, Oreste Kessel Pace ha collaborato come recensionista per “La Piana” fino al 2006 e per Costa Viola Magazine fino al 2007, ma anche per Famiglia Cristiana, Il Domani di Calabria, Il Quotidiano di Calabria, La Gazzetta del Sud, La Voce dei Giovani, Calabria Letteraria, Lettere Meridiane, Turismo in Sicilia Magazine, HERA Misteri, Archeomisteri, ReggioTV, Helios Magazine. Tra i premi e i concorsi letterari cui ha partecipato, si ricordano il primo posto sezione racconto inedito presso il Premio Letterario Internazionale Anassilaos con l’opera “Il Canto delle Onde” (1998); il primo posto sezione romanzo inedito presso il Premio Letterario Internazionale “Calabria Cultura e Turismo” con l’opera “Sant’Elia Juniore” (1998); il primo posto sezione romanzo inedito Premio Calabria Cultura di Ieri e di Oggi con l’opera “San Rocco di Montpellier” (2002); il primo posto sezione romanzo inedito presso il Premio Letterario “Fata Morgana” con l’opera “San Rocco di Montpellier” (2002); il premio speciale sezione racconto inedito presso il Premio Letterario “Reghium Julii” Reggio Calabria con l’opera “Anno Domini 590, Attacco a Taureana” (2009); il primo posto sezione racconto inedito presso il Premio Letterario “San Giacomo” Ferrara con l’opera “HAITI” (2010); la menzione speciale sezione racconto inedito presso il Premio Letterario “Rhegium Julii” Reggio Calabria con l’opera “Artemide” (2010); il primo posto sezione inedito presso il Premio Letterario “Un mare da leggere” MCT Gioia Tauro con l’opera “Il mistero del relitto nel Petrace” (2010); la Menzione Speciale alla carriera per l’Impegno e la Divulgazione della Storia presso il Premio di Giornalismo Arte e Cultura “GIGI MALAFARINA” (2011). Tra le sue pubblicazioni, si ricordano i romanzi PALMI ANNO 2100 (E.P. 1998); SAN ROCCO DI MONTPELLIER (Laruffa 2005); SCILLA (Città del Sole 2006); REGHION La Fondazione (Leonida 2010); 2010 ARTEMIDE (Leonida 2010); LA PROFEZIA DEL LUPO BIANCO (Arduino Sacco 20011). Maggiori informazioni sulla lunghissima biografia di Oreste, in tal sede sintetizzata, sono consultabili presso il sito: www.kessel.it .

Come ti sei avvicinato alla scrittura?
Per chi scrive, è una domanda che equivale a chiedere a una persona normale “che cos’è l’universo?”. È molto complicato rispondere e non credo ci siano risposte, per il semplice fatto che alla scrittura, come mezzo di comunicazione, difficilmente ci si avvicina. Chi scrive in modo sincero, e non lo fa per scopi puramente commerciali, lo fa col cuore, con la mente e con l’anima. Di conseguenza non può essere qualcosa alla quale tu ti avvicini ma qualcosa che nasce con te. Non mi sono mai avvicinato alla scrittura. Se io dovessi fare retromarcia con i pensieri e i ricordi, non troverei un momento preciso in cui sollevo la penna e comincio a scrivere. In pratica l’ho sempre fatto, ovviamente, dal momento in cui l’insegnante alle scuole elementari mi ha insegnato a scrivere. Da lì è nato un rapporto diverso con la mia fantasia, che fino a quel momento era sempre stata al livello del sogno. Sono nato con la mente piena di sogni, di trame. Anche da piccolo, viaggiando con la macchina con i miei genitori, mi sedevo sul sedile posteriore e cadevo nel silenzio più assoluto. Loro credevano che io dormissi, in realtà mi appoggiavo con la fronte al vetro della macchina e cominciavo a sognare vere e proprie proiezioni di film. Immaginavo personaggi, ragazzi ai quali accadevano cose strane e già scrivevo con la mente. Non sapevo però esistesse un metodo per fare quei sogni che avevo nella mente e tramite una forma di comunicazione esibirli ad altri. Quindi, semplicemente, io chiudevo gli occhi e sognavo. Quando poi sono entrato alle scuole elementari e mi hanno insegnato a scrivere, c’è stato uno stravolgimento della mia psiche. Perché ho capito che tutto quello che avevo dentro la testa doveva essere trasferito nei libri. E quindi dovevo cominciare a scrivere e l’ho fatto praticamente subito. Ricordo dei viaggi in treno, in un periodo in cui stavo male, in cui scrivevo un po’ dappertutto: sui biglietti, sui block notes che mi regalavano e che ancora conservo. Ho dei romanzi interi scritti su delle cartacce o sui quaderni delle scuole elementari, dove già immaginavo un ragazzo che gironzolava con una bicicletta, quasi magica, che gli permetteva di affrontare delle avventure un po’ particolari. Da allora non ho più smesso. Quindi non mi sono avvicinato alla scrittura ma è lei che si è avvicinata a me alle scuole elementari, dandomi la possibilità di avere un mezzo per trasferire dalla mente alla carta quei fatti che sognavo.

Che cos'è la scrittura?
Credo che la scrittura sia un’invenzione dell’uomo. È un mezzo, come il computer, di comunicazione, che andando avanti si è evoluto. Oggi su youtube si fanno dei video di filmini, vere e proprie scene di teatro, concerti fatti in casa nella camera. Anche la scrittura è la forma più usata. La scrittura è un’invenzione dell’uomo ma ciò che lo scrittore o un regista o un musicista fa non è altro che portare in una forma di comunicazione il materiale ancestrale della propria mente, i sogni. Non è l’affacciarsi alla scrittura, tornando alla domanda precedente, ma semplicemente avere un mezzo per trasferire i sogni in musica, film, scrittura e via dicendo.

Cosa pensi riguardo al senso, allo scopo e agli usi della scrittura, sia a livello individuale sia sociale, nel mondo contemporaneo?
La risposta a questa domanda dovrebbe essere un convegno, e in effetti ne vengono fatti. L’editoria non consente a chi scrive davvero – e lo fa perché ha qualcosa dentro, nella mente –di trasferire quei sogni di cui parlavamo prima e di poterli donare ad altri. Di conseguenza abbiamo la più alta percentuale di persone che hanno delle qualità eccezionali e conservano dei sogni eccezionali, che dovrebbero essere donati all’umanità quasi come un parco archeologico, e non hanno la possibilità di farlo. Perché oggi ciò che importa soprattutto agli editori – perché poi alla fine sono loro che devono consentirci di pubblicare, quindi di trasferire i sogni agli altri – sono i prodotti da vendere non i libri. Abbiamo un mondo editoriale che risente molto della crisi italiana. In passato forse non era così. Io ho letto anche la società di Leonida-Repaci, degli scrittori del passato, ed era molto diverso. Non avevano la stessa tecnologia che abbiamo oggi, che gli consentisse un metodo espressivo totale. Oggi invece basta avere un sito internet come il mio, e puoi scrivere quello che vuoi, lo metti là e nessuno ti dice niente. In passato non c’era questa possibilità. C’era un modo di vedere gli scrittori diversamente da oggi. Oggi mandi un manoscritto a qualsiasi editore e questi lo mette in uno scatolone, non apre neanche il plico, e questo è molto grave. Perché questo è il metodo più geniale per distruggere i sogni e per togliere all’umanità la possibilità di sognare. Questo è un cancro, un tumore di questo settore dell’arte. Perché gli editori sono un filtro economico. Di conseguenza, va bene Dan Brown e non un altro scrittore che magari ha scritto un romanzo molto più importante, non ha le stesse capacità che può avere Dan Brown, che può conoscere determinati editori, e non viene pubblicato. Oggi abbiamo l’illusione di entrare in una libreria e di trovarci all’interno dei libri sinceri ispirati a sogni sinceri. E invece non è così. Me ne sono accorto dal primo libro che ho pubblicato. Gli editori oggi, specialmente i piccoli editori, arrancano nell’economia, guadagnano pochissimo, non hanno finanziamenti, di conseguenza sono prima un filtro per tutti gli scrittori. Nel senso che tu devi conoscere e se non hai conoscenza non pubblichi. Questo è il primo filtro e già in questo livello il 90 % degli scrittori muore. Alcuni addirittura smettono di scrivere. Come se l’editoria, la pubblicazione fosse lo scopo principale della scrittura. Ovviamente non è così. Io scrivo perché mi diverto. Ho decine di libri pronti, ne ho pubblicati tre o quattro. E ancora ne sto scrivendo perché mi diverto e soprattutto perché se non lo faccio sto male fisicamente: di giorno, di notte, non mangio, ho l’umore alla rovescia. Quindi devo scrivere per forza, perché i personaggi che ho dentro devono uscire. La pubblicazione è la seconda parte e passa per diversi filtri. Il primo è quello cui abbiamo accennato. Se non conosci, non pubblichi. Allora ti rivolgi alla piccola editoria dove è più facile conoscere: quest’ultima è un nuovo filtro economico. Ti chiedono cosa hai scritto, “Ah! San Rocco di Montpellier!” e ti dicono “ Non può avere molta vendita. A chi vuoi che gliene importi di San Rocco?!”. Perché viene paragonato ad altre opere che vendono. Questo è assurdo, perché nell’arte non ci possono essere paragoni. Ogni artista ha delle caratteriste proprie, che non sono uguali a quelle di altri. Quando porti il manoscritto ai grandi editori, se non conosci non pubblichi. Quando lo porti ai piccoli editori, hai di fronte una tagliola: quella dell’economia. Quando porto “La profezia del lupo bianco”, mi dicono: “Innanzitutto tu non sei conosciuto” e non ti pubblicano. “Chi è Oreste Kessel Pace? Nessuno. Perché dovrebbero comprare i tuoi libri e non quelli di Dan Brown?”. Chi entra in libreria compra Dan Brown, non compra te. Ma com’è che tu ti puoi fare conoscere? Pubblicando con i grandi editori, i quali però non ti pubblicano perché non sei conosciuto. E come ti fai conoscere senza essere conosciuto? Non si può. A meno che non hai delle conoscenze che ti permettono di avere un punto in favore quando spedisci il manoscritto. Nei piccoli editori è molto diverso invece, perché ti si dice di non avere soldi, di aver pubblicato altre opere e di aver speso tanti soldi e di aver venduto pochissimo. Allora il piccolo editore ti dice: “Se mi assicuri che il tuo libro vende almeno duecento copie allora possiamo farlo, però me lo devi assicurare”. Quando ti dice questo, parte una concatenazione di eventi che tu devi andare a programmare, perché il piccolo editore non è appoggiato dalle librerie. Allora ti chiede di organizzare le presentazioni, di fare un giro delle librerie e di cercare di piazzare qualche libro, di farti la rassegna stampa, la rassegna televisiva, di fare la pubblicità, di fare le pagine internet, su Facebook, su Twitter. Insomma devi fare tutto quello che dovrebbe fare lui e che lui non ha tempo di fare perché tu non sei nessuno e lui non lo fa. Il contratto è un’altra cosa. Ne ho passate, ho avuto guai, succedono insomma cose incredibili quando si va a firmare un contratto editoriale, dove se non stai attento è più quello che perdi rispetto a quello che guadagni. Il guadagno con i piccoli editori ti assicuro che non ce n’è. Non c’è stato per San Rocco, né per Scilla, né per Palmi anno 2100. Reghion e Artemide sono state peggio. Questo è l’altro filtro del quale però non si può fare a meno ed è una barriera che separa la folla dei tuoi lettori che possono amare San Rocco e possono comprare il libro; che possono avventurarsi nella Profezia del lupo bianco perché parla di Palmi, di misteri religiosi, di sette, di mafia, di avvenimenti particolari, di spedizioni in Aspromonte. Quindi è un romanzo tutto d’avventura, che uno può leggere e divertirsi. E allora c’è la barriera che separa i tuoi lettori – la folla di persone che vorrebbero e potrebbero comprare e divertirsi a leggere un libro – e i tuoi sogni. Quindi tu continui a scrivere a spada tratta però poi non hai il risultato perché non puoi comunicare. E non c’è purtroppo una via di mezzo. Ci sono i grandi editori che sono quel che sono e ci sono i piccoli editori la cui maggior parte tira a campare e lavora in modo sincero, anche perché crede in te. Nel mio caso, pubblicano le mie opere per questa ragione non perché sia un santo. Perché credono che quel prodotto – loro lo chiamano “prodotto” non libro come lo chiamo io –possa avere una certa vendita e quindi loro si interessano solo delle fatture, non vedono altro. E questo è un grosso filtro. Di case editrici come Einaudi, Mondadori eccetera dovrebbero essercene almeno un migliaio e non una quindicina. Quando ti colleghi su internet e fai una ricerca per editori, te ne risultano migliaia ma alla fine restringendo il campo sono sì e no una dozzina quelli a cui ti puoi rivolgere. Non dovrebbero essere una dozzina. Perché ciò significa che quindici editori ricevono una media di cinquecento manoscritti al giorno. Non possono neanche leggerli e non se lo possono permettere di avere gli uffici di lettura come c’erano un tempo. In passato, l’Einaudi ad esempio aveva degli uffici dove c’erano dei ragazzi, esperti in varie materie umanistiche, il cui unico compito era quello di prendere i manoscritti, leggerli, valutarli e da lì dare i risultati. Adesso non fanno neanche questo. Perché neanche i grossi editori si possono permettere di pagare la lettura dei manoscritti. Di conseguenza, i manoscritti arrivano, si cestinano direttamente nei cassonetti e si depositano. Dal deposito poi si buttano al macero direttamente. E questi sono i grandi editori. I piccoli editori no. A volte puoi avere un ottimo editore, come Laruffa o Città del Sole. Arcidiaco è un mio amico. Per Scilla ha fatto un ottimo lavoro, ne ha venduti parecchi. Addirittura, ha allegato il libro a diversi giornali di tipo turistico, quindi i turisti compravano i giornali perché c’era in allegato Scilla. E a Scilla è stato molto venduto. Questi piccoli editori fanno un ottimo lavoro, con sincerità, devo ammetterlo, però devono avere un riscontro economico altrimenti morirebbero con te. Allora tu li devi aiutare, ovviamente, per come puoi e quanto puoi, ad averlo questo riscontro economico, altrimenti se per il primo libro buttano giù qualche euro, per il secondo libro non possono permettersi di pubblicarlo. E questo è agghiacciante. Il libro è una creatura, un figlio. Immagina tante donne che partoriscono e che poi buttano via i loro figli perché non hanno i soldi per mantenerli. Li ammazzano, li accoltellano uno per uno perché su cinquanta bambini che nascono soltanto uno può uscire dall’ospedale, perché i genitori possono permettersi di comprare i pannolini, il latte, i biscotti eccetera e mantenere soltanto quest’unico figlio. Gli altri quarantanove vengono uccisi. Uccidere un sogno significa uccidere una creatura. Perché nei sogni ci sono le creature. Non importa che i romanzi siano di fantasy o parlino di problemi sociali, di mafia e quant’altro. Indipendentemente dal tipo di romanzo, dentro vi sono dei personaggi che nascono e muoiono con i romanzi. Immaginate se Andrea Camilleri non avesse pubblicato Montalbano e fosse andato al macero: oggi nessuno potrebbe godere di quella meravigliosa lettura, unica nel suo genere. Ce ne sono moltissimi come Camilleri e Montalbano.

I Greci impiegavano il termine “poiein” per significare “creazione”. Poi questa parola, nel corso del tempo, si è trasformata di linguaggio in linguaggio, fino a diventare in italiano per esempio, la parola “poesia”. Quando un poeta comunica se stesso, cioè scrive una poesia, è un creatore di mondi, riproduce il mondo, crea nel senso pieno della parola. Puoi definire i tuoi scritti delle opere d'arte, delle creazioni nel senso pieno del termine?
Definisco in questa maniera sia le opere pubblicate sia quelle inedite sia i piccoli racconti, anche quelli di una pagina – e ne ho tantissimi anche di trenta quaranta pagine, tutti diversi in se stessi perché all’interno mi rifaccio a quello che dicevo prima. Tu scrivi con la mente perché la scrittura è comunque creativa, poi scrivi con il cuore perché lo fai in modo sincero, e poi scrivi con l’anima perché trasferisci tutto te stesso in quel che hai scritto. Per quanto puoi utilizzare un io narrativo che sia moderno e tende un po’ a sparire, comunque c’è, non può sparire, può capire che si accentua ma c’è sempre. L’io narrativo non è altro che la tua anima, che viene fuori e trasferisci nel libro, e lì rimane per sempre. È una cosa intima tra te e la tua scrittura. E poi tu sai, ed è quello che io provo quando esce un libro, anche quando lo pubblico su un giornale, in cinque copie, quando esce tu sai che dentro c’è un po’ di te. E quindi quasi un po’ ti vergogni, provi un po’ d’imbarazzo. Perché hai trasferito un po’ di te nei tuoi personaggi: in alcuni di più in altri di meno. Le opere sono creature, per me sono quasi come dei figli, tutti quanti.

Perché scrivi? Perché senti l’esigenza di comunicare mediante l’arte della scrittura?
Non c’è un’esigenza di comunicare agli altri ma di scrivere. È un’esigenza fondamentale dal punto di vista fisico, come ti dicevo prima. Ho letto diversi fatti sulla scrittura, di diversi autori anche come Stephen King, che a loro volta hanno letto moltissimi saggi sulla scrittura creativa, che scrivono gli scrittori stessi, tra i quali sembra ci sia un fattore comune: se chi scrive lo fa col cuore, la mente e l’anima per lui è uno sforzo. È uno sforzo tenere a mente tutti quei sogni che ti vengono proiettati durante il giorno, e ti assicuro che avviene continuamente e nei momenti più assurdi. Io lavoro nell’azienda degli autobus e certe volte ho dei fulmini, nel vero senso della parola, che mi bruciano, mentre per esempio parlo di una determinata cosa con il mio presidente o facendo altro. È una cosa continua. Se io non trasferisco immediatamente o nel più breve tempo possibile queste immagini, che alla fine sono romanzi, allora si innesca un meccanismo fisico che non credo ci sia medico capace di rimediarvi. Perché stai davvero male fisicamente. La notte ti riempi d’incubi, non dormi, perché i personaggi vogliono uscire con tutta la loro storia. Se tu non lo fai, il tuo cervello diventa come il cofano di un’automobile nel quale vai a mettere tanta roba e poi cerchi di chiudere il cofano e non si chiude, le sospensioni si rompono, la macchina va giù e si rompe e la puoi buttare via. Per la mente accade lo stesso. Puoi tenere a mente il primo romanzo, il secondo, il terzo, il quarto, il quinto poi però quando te ne vengono a mente due tre al giorno, rischi di impazzire. O non dormi la notte o sei costretto a prenderti qualcosa per il mal di testa, a liberarti in qualche modo per cercare di farli stare zitti. Credo sia qualcosa di ancora più mistico rispetto a una liberazione. Credo che ci sia qualcosa tra la folla di cui ti parlavo prima – spero i lettori non mi prendano per un pazzo – e noi umili scrittori, che alla fine non siamo altro che dei servi di tutto questo meccanismo, e in primis credo che ci sia qualcun altro: i Greci la chiamavano la Musa dell’ispirazione. Io credo che ci sia effettivamente qualcosa che in qualche modo ti proietta nella mente queste storie. Credo che le dia a ognuno di noi. Qualsiasi persona prendi per la strada è capace di avere dei sogni e di scriverli. Il fatto è che la maggior parte delle persone non se ne accorge perché è talmente impegnata a vivere il quotidiano – prendere i figli a scuola, fare la spesa, scappare al lavoro eccetera. Insomma i problemi quotidiani sono talmente tanti che le persone si distraggono dai sogni e non si rendono conto di averli. Se noi riusciamo a sensibilizzare le persone sui sogni, stai tranquillo che noi, 7 miliardi di persone al mondo, avremmo 7 miliardi di scrittori. Allora perché alcuni se ne accorgono e altri no? Lì parte la funzione della sensibilità. Cioè se tu sei un pochino più sensibile o timido rispetto a un altro che è molto più sveglio. Quest’ultimo che torna a casa e subito si mette sulla bicicletta poi scappa, corre dalla ragazza, gioca al pallone: questo ragazzo non ha tempo per chiedesi chi è, che diavolo sta facendo nella sua vita e dove va a parare. Se già non può accorgersi di questo figurati se può accorgersi dei sogni. Non se ne può rendere conto. Ancor meno può rendersi conto che esistono i libri o l’arte e che può andare alla fabbrica dei sogni dove ci sono dei sogni già pronti da prendere. Invece un ragazzo sensibile, timido, che ritorna a casa e magari ci pensa tre o quattro volte prima di uscire dalla porta di casa perché si vergogna di andare in cerca di una ragazza, perché non riesce ad avere un approccio con un gruppo di ragazzi che stanno organizzando di andare a giocare al pallone, non riesce ad andare in bici perché si vergogna di andare all’incrocio:questo ragazzo sensibile non potendo uscire verso fuori esce verso dentro. E allora si accorge dei sogni e allena la mente ad averli, a migliorarli e addirittura la stimola ad averne di più, diventando un artista. Credo che la sensibilità di questi ultimi sia direttamente proporzionale al loro grado d’arte. Non importa se vieni pubblicato né se le tue sculture vanno alla mostra di Venezia. Importa che tu li fai, il resto non conta. Alla casa della cultura di Palmi, ho consegnato dei manoscritti perché voglio che rimangano, non m’importa se non vengono pubblicati ma che possano arrivare a qualcun altro. Se ce li avrà la società nel 3000 d. C. che avrà voglia di sognare, allora cominceremo a pubblicare tutto e a sognare. Anche Stephen King era un timido di prima categoria, non riusciva a legare con nessuno. Gli shock emotivi rappresentano una forma di benzina che va a riempire il serbatoio di chi è ipersensibile. Stephen King stesso ha scritto un romanzo che si chiama Shining, che parla di un ragazzo che è talmente sensibile da accorgersi addirittura delle altre dimensioni. E questo non credo che sia impossibile. Io ci credo. Quando a un ragazzo sensibile, che già si è reso conto di sognare, di poter scrivere e delle sua sensibilità artistica, gli accadono delle situazioni un po’ particolari, allora la sua professionalità artistica raggiunge i massimi livelli. Uno scrittore che già scrive, al quale vengono ammazzati i genitori innanzi agli occhi, puoi immaginare che opere andrà a scrivere.

Che cosa racconti nei tuoi scritti?
Ci sono persone che sono addirittura impressionate dalla parola “scrittore”. Ci sono molte persone che scrivono e non vogliono essere chiamate scrittori, pur scrivendo per tutta la vita. Secondo me è sbagliato. Credono che identificarsi come scrittori sia una forma di presunzione. Io credo tutto il contrario, e cioè che identificarsi come uno scrittore è una forma di umiltà. Perché tu in quel momento stai rivelando la tua sensibilità. Alcuni addirittura la paragonano alla pubblicazione – “Quanti libri hai pubblicato?”. “Io cinque”. “Io dieci”. “Tu cinque? Allora non sei uno scrittore”. “Tu dieci? Allora lo sei” – o addirittura a un fattore economico: “Hai pubblicato dieci libri?”. “Sì”. “Quanto hai guadagnato?”. “300.000 euro”. “Allora sei uno scrittore”. “E tu quanti ne hai pubblicati?”. “50”. “E quanto hai guadagnato?”. “Niente, anzi c’ho speso anche dei soldi”. “Tu non sei uno scrittore”. I fattori economico ed editoriale non c’entrano nulla. È un fattore di umiltà. Essere scrittore non è una cosa positiva, è una tragedia. Io alcune volte non dormo, non riesco a lavorare. Ci sono periodi in cui ho avuto la febbre a 42 e sono riuscito a venirne fuori soltanto perché ho scritto un libro, perché ho fatto sfogare la mente. Quindi non c’è niente di bello. Sarebbe molto più bello che io non fossi stato timido e mi sia goduto la vita, che sia andato a giocare al pallone, che abbia vissuto l’adolescenza andando con le ragazze. Molti dicono “Io a quattordici anni ho fatto tutto”, invece gli scrittori arrivano a trenta e non hanno concluso niente. Chi scrive, passa il tempo in questa maniera e non va a giocare al pallone. È ancora più drammatico incontrare delle persone che non hanno mai letto un libro, consapevole del fatto che più leggi più sai scrivere. Se non leggi scrivi male, in modo illeggibile, poco comunicativo. Perché innanzitutto non impari l’arte, la forma di comunicazione, la tecnica, l’io narrativo, sei comunicativo soltanto per te stesso, che scrivi e ti sfoghi. Ma chi ti leggerà non capirà un tubo, perché non hai le basi. Quindi è molto importante leggere. Conosco molte persone che hanno la casa vuota. La sera la passano a guardare le partite, non hanno mai letto un libro, si accingono a scrivere a quarant’anni, si definiscono scrittori e il libro che scrivono è praticamente illeggibile, poco comunicativo e senza fantasia. Magari con storie assurde che nemmeno interessano e infatti non vendono nulla. E questi vanno addirittura a pagare l’editore, la cosa più agghiacciante, per farti pubblicare un libro del quale negli ambienti culturali si parlerà male. Questa è una cosa diversa dallo scrivere il tuo primo libro a dodici anni o diciotto anni, come è accaduto ai grandi scrittori. I loro primi libri non hanno la stessa potenza culturale e la stessa tecnica degli ultimi libri, perché ancora sono all’inizio devono imparare tanto. Palmi 2100 per me è quasi un giornaletto rispetto ai libri di adesso. È un percorso. È diverso scrivere a dodici anni e farlo a quaranta dicendo che sei uno scrittore ma il tuo libro è uguale a quello che scriveresti a dodici anni. Quello non è uno scrittore. Perché lo scrittore è una persona umile, che parla più dei libri degli altri che dei suoi, perché ha letto tanto. Il suo amore principale è quello di leggere e la sua passione principale è quella di andare in libreria e vagare, planare tra le scaffalature e farsi affascinare dai libri, dalle copertine, dal profumo. A volte mi capita di vedere persone che aprono il libro e respirano. Queste persone respirano l’anima del libro, sono molto sensibili, hanno capito che cos’è un libro e sanno scrivere sicuramente molto bene. Quelli sono degli scrittori. A proposito di quell’energia di cui ti dicevo prima, della Musa. Io credo che esista qualcosa al tuo fianco che ha capito la tua sensibilità, che sa che non vuoi andare a giocare al pallone e che preferisci stare seduto a leggere e a scrivere. Quest’energia ti utilizza per dare al mondo qualcosa di diverso. Se tu ci nasci con questa entità, ci fai quasi amicizia. E allora parte un altro presupposto. Perché mi chiamo Oreste Kessel Pace? Oreste Kessel Pace è quella parte vera, sincera di me, che scrive. Oreste Pace è semplicemente un numero all’anagrafe che nella vita quotidiana fa quello che la società gli impone. Alle otto vado a lavorare, poi torno a casa, vado alla posta, pago la bolletta eccetera. Kessel è un nome che ho trovato in uno dei primi libri che ho letto. Se non sbaglio, Il richiamo della foresta. Allora mi era stato richiesto di pubblicare brevi racconti nei giornali delle scuole, in radio e in altri posti. Il problema è che questi racconti parlavano di piaghe sociali, in modo un po’ severo. Erano piuttosto reali e io non volevo farmi riconoscere perché ciò significava che quando mi trovavo con i coetanei della scuola mi avrebbero riconosciuto tutti. “Ah tu sei quello che scrive dei ragazzi che si buttano dalle finestre, che si drogano eccetera”, insomma mi avrebbero etichettato anche a scuola. Io questo non lo volevo e allora già da piccolissimo ho preso questo libro, ho aperto una pagina a caso con l’idea di prendere il primo nome e aggiungerlo, ed è uscito Kessel. E allora tutta questa marea di racconti che ho scritto, erano firmati come Kessel. Il problema è che poi mi hanno scoperto tramite la radio, dove alcuni racconti venivano letti, ho le registrazioni, e ho cambiato totalmente metodo di scrittura. Non ho più scritto di quei temi e in quel modo e, discutendone con un’amica, ho deciso di inserirlo tra il nome e il cognome. Poi ho deciso di non toglierlo più, perché quel Kessel è diventato lo pseudonimo reale, cioè la mia vera identità. Oreste Pace è un’identità puramente sociale. Chi si è innamorato di mia moglie è Oreste Kessel Pace. Ti dico tutto questo perché quell’entità è nata con me fin da neonato, subito. Appena ho cominciato a pensare, ho iniziato subito a sognare. Adesso, a furia di avere confidenza con questa identità, di dialogarci, sono arrivato a una specie di maturità grazie alla quale scrivo solo quello che lei mi dice, con la possibilità di scrivere ogni tanto quello che io penso che sia utile scrivere. Da questo nasce tutto quello che scrivo. Kessel mi dà tutta l’energia, l’ispirazione per tirare fuori un racconto, un romanzo o quant’altro. Le dita sulla tastiera devono trascrivere ciò che Kessel dice, che alla fine sono sempre io, però decide lei. È una sincronia tra Kessel e Oreste Pace. Qualche scienziato potrebbe dire che gli scrittori ambientano le cose nella propria pelle perché è naturale ed io credo che sia così. Perché un bimbo nasce biondo e con gli occhi azzurri? Chi l’ha deciso? È semplicemente un gioco chimico, dei cromosomi? Può essere. Ma chi è che comanda i cromosomi e gli dice di spostarsi in quel modo? Chi è che comanda il DNA? Gli atomi? Perché a un certo punto gli atomi non si fermano e il mondo si disintegra? C’è qualcuno che comanda gli atomi. Io ne sono pienamente convinto. Se noi facciamo retromarcia insieme alla scienza, seguendo le molecole e gli atomi, scopriamo che è tutto scientificamente provabile fino a un certo punto, ma se vai ancora indietro arrivi a un punto nel quale ti fermi e dici: “No, e gli atomi? Allora chi è che li comanda? E l’universo? Chi comanda infine questi pianeti? E se l’universo è sconfinato ci sarà un termine? O gira tutto intorno allo stesso punto, come dicono alcuni?” C’è qualcosa di gigantesco che mi spinge a scrivere la Profezia del Lupo Bianco. Può sembrare assurdo ma l’unico modo per capire è quello di vivere certe cose. Mando questo messaggio ai lettori: “Vai in spiaggia, cammina finché la spiaggia non finisce, arrampicati sugli scogli, scegli uno scoglio qualsiasi dal quale non si vede la spiaggia che tu hai appena attraversato. Quando ti ritrovi su questo scoglio seduto a osservare il mare, sei solo. Tu e il mare. Chiediti in quel momento: chi sono? Dove sto andando? Cosa ho sulla testa oltre il cielo? Cosa ho sotto i piedi oltre quello scoglio? Ma ancora prima fatti una domanda molto importante, una domanda che tutti dovrebbero farsi ogni giorno per vivere meglio: cosa ho nelle vene? Mi sto consumando. La mia vita sta andando avanti ma prima o poi finirà. Cosa ho fatto? E di che cosa sono fatto? Se hai orecchio, qualcosa ti risponde: il mare, lo scoglio, la natura. Devi solo ascoltare. Avverti tutto”. Questa è quella piccola energia nascosta che puoi avvertire e che ti risponde, che dà non solo a me ma a tutti quelli che fanno determinate cose con mente, cuore e anima, gli dà i suggerimenti che li aiuta a tirar fuori dei “prodotti”, come li chiamano gli editori, che sicuramente sono fatti con sincerità: i libri, come preferisco chiamarli io. E tu lo capisci, quando vai in libreria e compri un libro scritto soltanto per scopi economici, e poi compri un libro di un grande autore che scrive, come ti dicevo prima, guidato da quella entità. Lo capisci subito. Uno è freddo, senz’anima, non ti comunica niente, dopo una settimana che lo leggi hai persino dimenticato il nome dei personaggi. L’altro no. Se leggi per esempio Il ritratto di Dorian Gray ti rimane per sempre. Come mai? Perché se leggi Il Richiamo della Foresta o la Divina Commedia ti rimangono per sempre e poi se leggi Il codice da Vinci non è così? Perché dimentichi tutto? Allora c’è un’entità che dice a Dan Brown di scrivere in un modo e dice a Jack London o a Dante Alighieri di scrivere in un altro. Naturalmente io non sono Virgilio né Dante né Dan Brown, ma questo è quello che credo.

Nessun commento:

Posta un commento