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martedì 29 marzo 2011

STORIA DELL'ABBIGLIAMENTO: necessità, simbolo, ideologia

- di Saso Bellantone
Riflettere sull'abbigliamento può apparire assurdo, ma non è così. Assieme alla cosmetica e alla bigiotteria, l'abbigliamento è un'usanza comune tra i popoli, con la quale si esprimono significati e si realizzano scopi differenti. Ogni popolo, naturalmente, è ricorso a questa pratica in tempi diversi e impiegando materiali, colori, forme, cuciture, decorazioni differenti. Malgrado ciò, vi sono delle somiglianze tra i popoli che consentono di svolgere una sintetica storia dell'abbigliamento – sia chiaro, in linee generali – per comprendere oggigiorno quali significati si esprimono e quali scopi si realizzano con questa pratica. Raccontare la storia dell'abbigliamento per grandi linee, questo è ciò che ci si propone, vuol dire chiarire come l'abbigliamento si trasforma nell'uniforme; come quest'ultima, da materia, diviene pensiero; come cioè da necessità e simbolo, diviene un'ideologia.
Quando gli esseri umani erano ancora in una condizione tribale, l'abbigliamento era una necessità. Usavano coprire le proprie nudità con funi, foglie, corteccia, pelli, impasti di terra e resina e quant'altro per ragioni igieniche, di salute, per frenare gli istinti sessuali e, certamente, per pudore. Mentre le prime due ragioni avevano un'utilità individuale, la sopravvivenza, la terza, invece, aveva un'utilità anche collettiva. Frenare gli istinti sessuali significava darsi una chance per organizzarsi pacificamente con gli altri in una tribù, un clan o una comunità e, nel contempo, per sopravvivere assieme al gruppo. Il pudore era un fattore psicologico, apparso via via che si diventava più consapevoli del legame tra la nudità e la sessualità. Naturalmente, vi sono state civiltà che non hanno superato mai questa condizione tribale perché sono state sterminate da altre, così come oggigiorno vi sono civiltà che vivono ancora allo stato tribale. Ma altre sono andate avanti, passando a un'altra condizione: quella civile.
Col progredire dell'ingegno e delle invenzioni e l'evolversi della storia politica tra i popoli, questa pratica è divenuta una vera e propria arte sempre più raffinata, con la quale, nel corso del tempo, sono stati prodotti capi di vestiario di diversa forma, colore, cucitura, materiale, accuratezza, decorazione. Quando diviene un'arte, l'abbigliamento diviene un simbolo per esprimere diversi significati e per realizzare diversi scopi. Per esempio per esaltare la bellezza della persona e generare negli altri il desiderio sessuale o, per chi è più romantico, il desiderio amoroso. Ma soprattutto per evidenziare alcune differenze interne alle comunità di: genere, tra uomini e donne; classe, tra signori (nobili) e schiavi; professione, tra soldati, artigiani, operai ecc.; rango/importanza, specie negli ambiti politico, religioso, guerriero-militare; identità/appartenenza, tra un popolo e l'altro. Quanto più nel corso del tempo l'arte dell'abbigliamento si è perfezionata, tanto più tali differenze sono state sottolineate. Ma con il crollo degli Stati-nazione, l'avvento del lavoro macchinale e salariato e il sorgere dei totalitarismi, l'abbigliamento conosce una rivoluzione: l'uniforme.
Mentre in passato l'uniforme era usata da una parte del popolo per contrassegnare per esempio una classe (i governanti o i sacerdoti) oppure la professione e l'appartenenza (i soldati), con l'avvento dei totalitarismi è un intero popolo a indossare l'uniforme e a esprimere altri significati e a realizzare altri scopi. L'uso massificato dell'uniforme comporta da un lato l'abbattimento di tutte le precedenti differenze; dall'altro lato, l'esaltazione del senso di appartenenza alla razza, al popolo, alla Nazione. Chi indossa l'uniforme non è nobile né schiavo, né sacerdote, né governante, né artigiano, né uomo né donna, bensì un lavoratore-soldato che incarna e rappresenta l'ideologia, la visione del mondo cui la stessa uniforme rinvia e nella quale il lavoratore-soldato si riconosce. Se l'uniforme diventa il simbolo di un modo di pensare che mira a ottenere il proprio spazio vitale su scala planetaria, dal canto suo l'essere umano diviene il mezzo per concretizzarlo. Nell'uniforme egli cancella se stesso, la propria identità e la propria unicità per diventare uno strumento numerabile, ripetibile, sostituibile, programmabile, usabile e sacrificabile per realizzare onnilateralmente l'ideologia che l'uniforme stessa presenta e rappresenta. Insomma, vestendo l'uniforme, l'essere umano diviene niente mentre l'ideologia diviene tutto. Dal momento che ogni ideologia mira alla conquista del proprio spazio vitale oltre ogni confine, è evidente che lo scopo ultimo di ogni ideologia è il dominio non soltanto terrestre bensì universale, cioè del mondo conosciuto e non. L'uniforme è il simbolo del dominio dell'ideologia che è in atto, usando l'essere umano al pari di una forza naturale.
Con il crollo dei totalitarismi e la progressiva fortuna dell'idea di un mercato globale, l'uniforme non è più usata come simbolo di una ideologia, di un totalitarismo bensì come simbolo di una forza armata, di un club, di un'azienda ecc. ed è privata però del sentimento per la nazione, che è un surplus facoltativo. Al posto dell'uniforme, che è usata da pochi, le masse usano indossare un abbigliamento più dissoluto, libero da concetti e preconcetti, nel quale ognuno infonde i propri personali significati e con il quale realizza i propri personali scopi. Sorgono così marchi, grandi firme, aziende, multinazionali che producono capi di vestiario di qualsiasi genere e per qualsiasi gusto e tasca, cioè sia per le masse sia per le élites. Su questa scia, si fa strada l'idea che non è più l'abito a fare il monaco, ossia a stabilire una differenza (professione esclusa) di classe, genere, rango e appartenenza, bensì il prezzo “speso” per acquistarlo, dunque il denaro che si ha. In altre parole, trova fortuna l'idea che quanto più si spende per l'abbigliamento tanto più si è nobili, potenti, popolari, ricchi, e viceversa quanto meno si spende tanto più si è schiavi, impotenti, sconosciuti, poveri. In breve, è il denaro che stabilisce l'uso, lo scopo, il senso di qualsiasi cosa, abbigliamento compreso. L'abbigliamento in generale, con il crollo dell'uniforme, perde il proprio carattere simbolico.
Questa perdita dev'essere inquadrata all'interno del fenomeno della globalizzazione, che altro non è se non un tecno-totalitarismo economico-lavorativo. Collocandola in questo scenario, tale perdita segna la scomparsa definitiva della possibilità di esprimere significati e di realizzare scopi per mezzo dell'abbigliamento. Parafrasando un celebre detto nietzscheano, “l'abbigliamento è morto”. Malgrado questa perdita, l'uniforme subisce una metamorfosi. Non va cercata tra le forze armate, i club o le aziende della nostra società. Oggigiorno l'uniforme non è un abito, eppure la si indossa come tale. Non copre il corpo, eppure nasconde. Non può essere toccata, eppure la si percepisce. Non si vede, eppure la si riconosce. Non ha colore, sapore, profumo, densità, eppure la si avverte. Non c'è, eppure provoca conseguenze. Perdendo il proprio potere simbolico e divenendo altro, l'uniforme, se è intesa alla maniera di un prodotto dell'abbigliamento, è insensata. Se si manifestasse in questo modo, potrebbe essere intravista e mettere in pericolo ciò che è.. L'uniforme è infatti sopravvissuta al suo volto materiale trasferendosi di luogo, dal visibile all'invisibile, dal corporeo all'incorporeo. Questo spostamento ha comportato sì la perdita del suo carattere simbolico ma l'ha rafforzata, perfezionata, migliorata. L'uniforme si è spiritualizzata, divenendo quel che prima presentava e rappresentava. L'uniforme è divenuta un modo di pensare, una fede per certi versi. Quale? Il capitalismo.

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