- di Saso Bellantone
Perché scrivere? Perché vomitare la propria anima? Con queste domande si apre Fiore avvelenato di Giuseppe Bagnato, edito per la casa editrice Il Filo, con le stesse identiche domande che riecheggiano in ognuno di noi – nelle profondità del proprio intimo baratro in cui buio e luce si danno eternamente battaglia anche per stabilire soltanto l’effettiva forma della punta di uno spillo – ogni volta che ci sentiamo posseduti da quell’antico e incontrollabile demone che ci strappa, nostro malgrado, da tutto il resto sbattendoci violentemente là, di fronte alla bianca finestra del nostro stesso abisso che attende qualche goccia del nostro nero inchiostro, che scorre tra vene e particelle elettriche, per sporcarsi di un qualsiasi punto di vista e così comprendere la propria esistenza, sentirsi viva. Sono le stesse domande che continuamente lacerano l’infinito puzzle della nostra esistenza nello stesso momento in cui, ogni volta, ci accingiamo a porre l’ultimo pezzo della schermata senza dimensioni del nostro cammino, della nostra storia, del nostro passato, per comprendere il nostro presente qui e ora e volgere sereni lo sguardo all’avvenire. Ma proprio nell’attimo in cui, curiosamente, diamo una fulminea sbirciata alla titanica immagine che si sta componendo, proprio in quell’istante siamo travolti dal gigantesco e tempestoso colosso che contemporaneamente si erge davanti e dietro di noi, e rischiamo di soffocare sotto le macerie di dolore, di rabbia, di errori, di morte che pressano sulla più piccola parte della nostra consapevolezza di essere ancora qui, come contenenti la gravità dell’intero universo.
Tuttavia, è esattamente in quel batter d’occhio che comprendiamo il “perché?”; è in quella scheggia d’eternità che afferriamo il silenzioso motivo, l’oscura chiave di violino per cui sentiamo di dover vomitare la nostra anima, di dover scrivere: perché diveniamo realmente coscienti di esserci ancora. In quel momento, l’incommensurabile peso che poco prima ci schiacciava, diventa ora la linfa vitale, l’inchiostro stesso che macchia qua e là la candida finestra della nostra intima voragine, rigenerando ancora una volta l’interminabile gioco tra le nostre mani e i pezzi del puzzle senza dimensioni della nostra vicenda proiettata nell’inesauribile cuore pulsante dell’universo. Ed ecco che il riflesso di quel gioco si materializza sui fogli bianchi – silenziosi compagni dell’uomo nel suo viaggio nel tempo, carichi dei frutti dello spirito – sigillandosi tra le righe di lettere, spazi, punti e virgole che, come note del pentagramma dell’anima, trasformano in musica la smisurata quantità di grigie macerie che abbiamo adesso dentro e al di sotto di noi.
Tra narrazione e poesia, biografia e fantasia, Fiore avvelenato racconta parte della lucente e incolore vicenda dell’autore, parte delle emozioni che, di scena in scena, lo hanno caratterizzato nel suo ‘teatro delle opportunità’. Ci troviamo di fronte alla dolce e indimenticabile giovinezza per ricordare quanto sia bello vivere anziché morire dietro le bugie delle ragioni dei coetanei o dietro la falsa libertà acquistata a caro prezzo tra strada e farmacia; per capire di nuovo che al cuor non si comanda, che il vero amore non è quello che si vende sui marciapiedi, che le regole con le quali ci orientiamo sono sempre frutto dell’invenzione e spesso, anziché farci del bene, si ritorcono contro di noi, perfino quei principi che c’imponiamo ogni giorno finiscono per diventare le sbarre che delimitano, bloccandola dentro, la nostra ragionevolezza; per aver presente che le risposte alle nostre domande più insormontabili si celano in ognuno di noi e che il più delle volte siamo noi stessi ad auto-ostacolarci, rischiando continuamente di varcare la soglia oltre la quale potremmo tramutarci in un mostro così diverso da quanto siamo effettivamente nella parte più intima, segreta e innocente del nostro animo.
Giuseppe Bagnato vuol farci ricordare che ‘non c’è un perché’ attraverso il quale riuscire a comprendere, là dove li stiamo ancora facendo, i primi passi della propria vita; ‘non c’è un perché’ col quale capire il motivo per cui viviamo la nostra giovinezza in un preciso modo – con quelle scelte, quelle emozioni, quelle sensazioni, quelle paure, quei timori, quelle debolezze, quegli sbagli – anziché in un altro; ‘non c’è un perché’ mediante il quale scoprire la ragione dell’essere così e non altrimenti. Nonostante agli occhi di tutti sembriamo dei folli e nonostante le burle di un burattinaio spesso troppo giocoso, comprendiamo di essere vissuti in quell’esatto modo piuttosto che in un altro solo quando ci rendiamo conto che l’unica sostanza di cui tutti siamo drogati e della quale non possiamo fare a meno, è l’amore.
Di atto in atto, Giuseppe Bagnato urla a squarcia gola e ci sussurra questa consapevolezza, ossia quanto il desiderio dell’altro domini nella nostra esistenza e quanto la fiducia in chi si ama, le delusioni, la nostra testardaggine di essere completamente uguali a quelle stesse persone che amiamo, finiscano per incidere nella storia e nelle nostre scelte e a renderci facile preda della solitudine e degli errori che non è più possibile dimenticare; quanto l’accadere caotico della nostra giovinezza giunga inevitabilmente a procedere fiancheggiato dall’ombra della dama nera, che ci attende ad ogni angolo della via; quanto la propria voglia di lottare sia nulla, superato il limite concesso a ciascuno di noi, senza quell’amore, quell’amicizia, quel desiderio degli altri che abbiamo finito per dimenticare perché a volte ci ha giocato brutti tiri e ci ha spinto a chiuderci dietro le sbarre della nostra cupa gabbia, e che ora appare come l’unico varco verso se stessi e verso l’unica scelta consapevole che abbiamo in dote, di fronte alla domanda: “dobbiamo essere attori o spettatori nel ‘palcoscenico’ della nostra vita?”.
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