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mercoledì 8 gennaio 2014

Apilus*


- di Saso Bellantone
1944. Bagnara. C'è uno strano suono nell'aria. Non è quello dell'esplosione delle bombe, eppure le pareti della Vecchia Galleria Ferroviaria e i cuori sembrano scuotersi lo stesso. Vibrano, si lasciano attraversare da quel suono dolce, melodico, continuo... È da tempo che non si sente un tale silenzio e anziché lasciarsi condurre fra le tenere braccia di Morfeo, la gente, incredula, si sveglia.
È al limite delle forze. Stanca, sporca, affamata di cibo, di aria fresca e pulita, e di pace. Uomini, donne, bambini, anziani, tutti gli abitanti del paese, riversatisi all'interno del vecchio tunnel, nella speranza di scampare ai bombardamenti, si ridestano come incantati da quella risonanza e cominciano a uscire fuori. Fuori da quella gabbia dove per tanto tempo ci si è auto-rinchiusi per sopravvivere alla follia delle grandi Nazioni. Fuori da un incubo apparentemente senza fine.
Là, dove il silenzio sembra insolitamente troneggiare e avere origine, la gente comincia a raccogliersi. Si guarda incredulamente attorno e poi, iniziando ad abbracciarsi, a stringersi le mani, si scambia un'occhiata meravigliata l'una con l'altra, per avere la conferma che il silenzio è vero e non un'illusione della coscienza. Spunta qualche lacrima, qualche sorriso. Ma nessuno, nemmeno i più piccoli, osano proferire parola, per non spezzare le maglie di quel silenzio incomprensibile. I ricordi di giorni e giorni passati all'addiaccio, sono ancora troppo vivi. Morti, feriti, ammalati, quante persone sono scomparse sotto i loro occhi dentro quel benedetto e maledetto tunnel. Dove nel gelo invernale, per riscaldarsi, è bastato il respiro di un altro, mentre nell'afa estiva, lo stesso respiro poteva anche ucciderti, specie mischiandosi con il puzzo della latrina nelle profondità della galleria, dove i meno coraggiosi andavano a orinare e defecare.
Quei ricordi sono ancora intensi ma più intensi, adesso, sembrano i raggi del sole che spuntano da dietro il monte Cucuzzo, illuminando il paese distrutto e fumante. Non un colpo di cannone né di mitragliatrice sembra riecheggiare nelle vie. Non una nave all'orizzonte né volo di aereo tedesco sembra solcare il cielo. È troppo bello per essere vero, però nessuno ha il coraggio di pronunciare le parole proibite. Si attende, immobili e all'ascolto, nella speranza di non sentire mai rumore alcuno che spezzi il silenzio, confermando che l'incubo non è ancora finito e la guerra ancora dilaga.
Ma alcuni non stanno nella pelle. Anziché restare a guardare, scendono in paese, o, meglio, in quel che ne resta, per fare un sopralluogo e capire come stanno davvero le cose. Vanno in squadre, adulti e bambini come sempre, questi ultimi più adatti per i lavori che richiedono maggiore agilità e più difficili da convincere a rimanere al sicuro nella galleria.
La gente davanti alla galleria li osserva taciturna perdersi lentamente nel curvone all'orizzonte, come antichi spettri svaniti alle prime luci di un sole che sembra diverso, quest'oggi. Sembra un sole nuovo, più caldo, più pacato. Un sole auspicante nuova chiarezza, nuovi giorni, nuovo tempo libero da incubi e presagi nefasti.

Giunte all'altezza del macello, passando attraverso la montagna perché il ponte non esiste più, le brigate partite in ispezione dal tunnel dei rifugiati si dividono: una va a monte, direzione Porelli. Un'altra a valle. Per cautela, si procede di viuzza in viuzza e di casa in casa, nascondendosi dietro ogni rudere e rottame. Giunta al rione Milano, la squadra si divide e si comincia a esplorare le vecchie case. Tra le macerie, Peppino, un ragazzino di 16 anni, scorge casa sua e non trattiene la tentazione di addentrarvisi.
È tutto come l'aveva lasciato. Il tavolo con il cassetto dove la mamma stipava quel che restava, se si era fortunati, del pranzo o della cena, le sedie, il baule contenente pochi abiti e alcune lenzuola, la credenza, continuamente vuota, il lettone nel quale dormiva assieme alle sorelle maggiori, prima che si scatenasse la guerra. Stupendi ricordi gli tornano alla mente, vissuti felicemente assieme alla sua famiglia malgrado la povertà e la fame, scacciati subitaneamente via dal ricordo del sopraggiungere della guerra.
Stava tornando a casa quando erano esplose le prime bombe, facendo crollare su stessi interi palazzi, come fatti di burro. La gente urlava, piangeva, scappava in ogni direzione, mentre pezzi di calcinacci volavano in lungo e in largo. Aveva avuto paura e si era riparato in preda al panico dietro un'automobile. Poi però gli erano venute alla mente la mamma e le sue sorelle, sole, terrorizzate in casa propria, in balia delle esplosioni. “Ora sei tu l'uomo di casa” – gli aveva detto il padre, prima di partire per combattere – “Pensa tu a loro”. “Te lo prometto papà!” – aveva risposto fieramente il ragazzino. “Io tornerò presto.” – aveva proseguito il padre, carezzandogli il mento. Invece non era più tornato. Così Peppino si era fatto coraggio, aveva raggiunto casa e mantenuto la promessa, scortando la sua famiglia, da bravo ometto, là dove tutti si rifugiavano: nella galleria ferroviaria.
I ricordi sono interrotti da uno strano rumore lontano, continuo, metallico che si avvicina sempre più assordante, chiassoso, tonante, fino a far tremare le vecchie mura di casa. Istintivamente Peppino si getta sotto il tavolo tappandosi le orecchie, sperando che non si tratti degli invasori. Teme di essere scoperto e di essere deportato, come gli adulti raccontavano, nelle regioni dell'alta Europa. Poi, quando le mura cominciano a scricchiolare, lasciando cadere calcinacci sul pavimento, ecco che l'insopportabile frastuono finisce e torna il silenzio. Lo stesso silenzio dentro il quale si erano svegliati stamane.
Ma non è proprio il silenzio. Strane voci si diffondono nell'aria. Voci sorridenti, sì, ma incomprensibili, a parte quella di Ciccio il pescatore, il capo squadra. Sembra rivolgersi a quelle voci indecifrabili.
Incuriosito, Peppino esce fuori dall'abitazione e giunto in piena piazza Milano scorge l'impensabile. L'amico parla con due uomini in divisa ed elmetto che fuoriescono dalla parte superiore di uno strano mezzo corazzato, su cui è impressa una bandiera a stelle e strisce. I due continuano a lanciare con delicatezza degli oggetti a Ciccio, dicendo parole mai sentite e gesticolando, ma i tre non si capiscono. I soldati ridono, masticano, scherzano tra di loro, continuando a rivolgersi all'amico con parole e gesti, l'amico li guarda inebetito senza rispondere, provocando nuovamente il riso dei due.
Scorgendo il ragazzino avvicinarsi indeciso verso di loro, i due cominciano a chiamarlo, facendo segno di avvicinarsi senza paura: “Hi boy! Come on! Come here! Lest go...”. Mentre il ragazzino si avvicina, uno dei due sparisce all'interno del mezzo corazzato per poi tornare alla vista con una manciata di oggetti tra la braccia, che inizia a lanciare verso di lui.
Peppino comincia ad afferrarli istintivamente ma non riuscendo a prenderli tutti perde l'equilibrio e cade per terra, mentre i due soldati continuano a lanciargli gli oggetti addosso. Peppino li osserva. Scatolette, gomme da masticare, caramelle, dollari e quant'altro. È interamente sommerso da alimenti e leccornie. Sorride. Apre un pacchetto giallo e, scartatone il contenuto, lo annusa. Sembra cannella. Infila in bocca due o tre lingue del prodotto e comincia a sgranocchiare. Sono gomme. Gomme da masticare. Le più buone che abbia mai assaggiato.
“Do you like?! Ah ah ah ah ah!” – ridono i due, con quegli occhioni più luccicanti del sole appena nato.
Peppino fa cenno di sì con la testa, ricambiando il sorriso e mettendo in bocca altre gomme da masticare.
“Now, give us an apilus! Understand?! Apilus! Apilus! ” – dicono i due, guardando ora Peppino ora Ciccio, che continua a osservare incredulo gli uomini in uniforme. “Oh my god! Apilus boy, apilus! Understand?! Apilus! Apilus!”
“Ma chi lingua parranu chìsti, Cicciu! Chi dinnu?!” – Peppino chiede all'amico.
“Ma chi ssacciu, Peppinu! Sunnu 'Mericani! Avi na ura chi dinnu apilus apilus e fannu i sta manera ch'i mani ma jeu propriu non capisciu chi stannu ricendu!” – gli risponde Ciccio, unendo le mani allo stesso modo dei soldati, e mostrandole al ragazzino.
Apilus!” – ripete Peppino, osservando gli uomini in uniforme che, continuando a ripetere la stessa parola, fanno finta di portare una mano in bocca e di azzannare – “Vo' virìri ca chìsti vonnu i puma?!” – si rialza di scatto il ragazzino, imitando il gesto dei soldati, i quali, vedendolo iniziano a urlare festosi “Yes boy! Apilus!”.
Infilatisi nelle tasche altri pacchetti di gomme da masticare, Peppino fa segno ai soldati di restare dove sono e si precipita in fretta e furia dentro casa sua, dalla quale esce rapidamente con uno dei lenzuoli contenuti nel vecchio baule. Poi corre in direzione montagna e va nei terrazzamenti dell'amico Mimmo, perdendosi tra i vigneti e gli alberi da frutto, finché non giunge dinanzi ad alcuni meli. Arrampicatosi sull'albero, Peppino inizia a strappare le mele e a gettarle sul lenzuolo aperto proprio sotto di lui, riempiendolo in un batti baleno. Sceso poi dall'albero e richiuso alla bene in meglio il lenzuolo, Peppino torna nuovamente dai soldati, mostrando loro il contenuto del telo ed gridando loro gioiosamente: “Apilus! Apple! Mela!”.
“Yes boy! Apple! Apple! Great boy!” – rispondono gli uomini in uniforme, ricoprendolo nuovamente di scatolette, alimenti e qualsiasi altra cosa in loro possesso.


Riempito il telo di tutto quel ben di Dio, Peppino corre il più velocemente possibile assieme a Ciccio e agli altri compagni di spedizione in direzione della galleria ferroviaria, dove li attendono la mamma, le sue sorelle e gli altri rifugiati. Non vede l'ora di dare loro tutti quegli alimenti ma soprattutto di pronunciare quelle parole che, dalla mattina, nessuno osava recitare per paura che il messaggio annunciato dal silenzio svanisse. Adesso può farlo, può pronunciarle davanti agli altri e poi assieme agli altri. Sì, il silenzio mattutino era veritiero. Quel silenzio spezzato da una parola sconosciuta, indicante qualcosa di così semplice come può essere una mela, era portatore della notizia che tutti sentivano già nei loro cuori. “La guerra è finita”. Non è un sogno, ma la verità. L'incubo nelle cui nere maglie tutti erano rimasti ingabbiati, ha iniziato a diventare soltanto un brutto ricordo.

* Dedicato a Nonno Peppe.

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