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martedì 23 aprile 2013

L'ARTE PERIFERICA: intervista a Vincenzo Laurendi



- di Saso Bellantone
Vincenzo Laurendi ha 31 anni e scrive da quando ne ha 17. Nasce nel 1982 a Saronno, in provincia di Varese, ed il ritorno in Calabria costituirà uno dei tre spartiacque della sua esistenza. Infatti, a soli tre anni subisce un incidente stradale che lo segnerà per il resto della vita, causandogli una paresi facciale. Trasferitosi per diversi anni in Toscana, a 16 anni torna in Calabria (secondo spartiacque) e inizia a scrivere: prima una novella satirica sulla scuola e le sue condizioni, poi comincia con le poesie. Le prime disastrose cotte sono il tema principale, mentre con la vita accademica si rende conto di tante altre cose importanti, laureandosi nel 2005 in Lingue e Letterature Straniere all’Università di Messina. Sfondata la quota 2000 con le poesie (in italiano, inglese, francese, spagnolo e vernacolo bagnarese), scrive un bel po’ di novelline di ogni tipo, dal giallo al surreale. Nel 2006 arriva il terzo spartiacque: una cotta importante non ricambiata, anzi, vissuta dalla ragazza con spietatezza ed utilitarismo, che involontariamente gli mostrerà come si sta davvero al mondo. Da ragazzo timido ed indeciso diventa molto più deciso e guardingo, ma senza mai rinunciare ai suoi valori. Nel 2008 si specializza in Lingue e a novembre viene chiamato a insegnare alla scuola elementare “Archimede” a Rozzano, in provincia di Milano. Impara a vivere da solo, senza l’apporto dei genitori, con le sue sole forze, un’esperienza estremamente formativa. Dal 2009 collabora come corrispondente sportivo con il portale d'informazione Costaviolaonline.it. Nel 2010 svolge un'altra esperienza didattica, stavolta in una scuola media, per un mese. Dal 2011 collabora come corrispondente sportivo con la Gazzetta del Sud e dal gennaio 2012 collabora con la web radio Radiobagnaraweb sia come speaker sportivo sia conducendo programmi di musica rock alternativa e rap. Nel giugno 2012 pubblica il romanzo “Ti darò il mio cuore” (Caravilla). Attualmente vive a Bagnara Calabra.

Come ti sei avvicinato alla scrittura?
Non credo di essermi avvicinato io, ma che lei si sia avvicinata a me. Ho letto tanto nel periodo in Toscana, da Verne e Lussu a Tolstoj, ma credo mi abbia influenzato, soprattutto politicamente, il romanzo “1984” di George Orwell. Dopo 19 anni è ancora il mio romanzo preferito e lo rileggo con immenso piacere. Un giorno di scuola, durante un’ora buca, prendo la penna in mano descrivendo la situazione scolastica, ma in maniera molto sarcastica. Avevo appena letto “Pancreas” di Giobbe Covatta, credo di essermi ispirato a lui. Poi, qualche giorno dopo aver terminato questa novellina che mi piace definire quasi come un pamphlet, ho iniziato a scrivere poesie.

Che cos'è la scrittura?
La scrittura è un’amica fedele, è una psicologa che scava dentro te stesso, e spesso ti aiuta a risolvere problemi che sembravano insormontabili o che altre persone non riescono a capire. Dopo la musica, credo sia l’arte più completa in assoluto.

Cosa pensi riguardo al senso, allo scopo e agli usi della scrittura, sia a livello individuale sia sociale, nel mondo contemporaneo?
Che la scrittura debba avere un senso, uno scopo ed un uso ben precisi. È un’arte troppo nobile per essere ridotta solo ad un mero mezzo di guadagno, come fanno alcuni. Sono assolutamente scettico sul fatto che essi abbiano voluto solo intrattenere un lettore o sfogarsi per qualcosa come faccio io, e così la scrittura diventa un male, diventa volgare, improponibile.

I Greci impiegavano il termine “poiein” per significare “creazione”. Poi questa parola, nel corso del tempo, si è trasformata di linguaggio in linguaggio, fino a diventare in italiano per esempio , la parola “poesia”. Quando un poeta comunica se stesso, cioè scrive una poesia, è un creatore di mondi, riproduce il mondo, crea nel senso pieno della parola. Puoi definire le tue storie “poesie”, opere d'arte, creazioni nel senso pieno del termine?
Magari opere d’arte è esagerato, ma “creazioni” mi piace tantissimo come definizione. Le mie prime poesie nascono a tempo di musica, come le “creatures” di Tori Amos, la mia cantante preferita. In esse creo un mondo, magari il mio mondo ideale, o semplicemente la maniglia della porta che mi procuri la libertà di cui spesso mi sento privo.

Perché scrivi? Perché senti l'esigenza di comunicare mediante l'arte della scrittura?
Come ho detto prima, molto spesso mi sento soffocare, mi sento estremamente deluso dal mondo che mi circonda, perché troppe volte è l’opposto di quel che sognavo. Vedo violenza facile, droga, imbrogli, e per una persona pacifica, salutista e leale come me non è qualcosa di accettabile. Mi riparo nel mio piccolo mondo e spero di coinvolgere qualcuno, perché essere in una situazione bellissima ma non avere nessuno con cui condividerla è quasi peggio che non esserci.

Che cosa racconti nei tuoi scritti?
Un po’ di tutto. A volte mi sono cimentato in gialli, horror, thriller, storie d’amore. L’amore è centrale nelle mie creazioni, lo è quasi sempre. Ed indovina perché? Proprio perché ne ho avuto pochissimo, ovvero quello dei miei genitori e di alcuni dei miei familiari, ma sento di avere tanto da dare e nessuno che lo riceva. Nei miei scritti, insomma, vivo come vorrei vivere davvero.

Uno scrittore può sentirsi tale senza i lettori?
Ci sono i tipi da “torre d’avorio”, tanto per citare Sainte-Beuve. Io non lo sono. Sono rattristato da quel che vedo, ma fatto sta che adoro ridere e far ridere. La condivisione è fondamentale, non solo per fare entrare altre persone nel tuo mondo personale, ma anche per confrontarti, scoprire se ci sono errori o cose di questo genere, per migliorarti anche dal punto di vista artistico e personale.

Che cosa significa oggi vivere come uno scrittore e vivere esclusivamente della propria arte? Quali sacrifici comporta accettare questo incarico, questa missione?
Oggi come oggi, senza la “pedatona nel sedere” o l‘appoggio di una grande casa editrice ciò non è possibile. Io sono un piccolo scrittore, e mi sta benissimo rimanere tale. L’unica cosa che vorrei è poter scrivere e pubblicare senza vincolo alcuno, perché sono nato uccel di bosco e così voglio restare.

Cosa ti spinge a restare nel sud?
“Spinge” è una parola molto grossa. Più che altro “costringe”. Il fatto di non avere un lavoro nonostante i titoli è frustrante, doversi ancora appoggiare ai genitori e non avere la possibilità di formare una famiglia mia lo è ancor di più. Ciò non significa che io disprezzi il Sud Italia, ma la sua situazione: mafia, spazzatura, ignoranza, ma soprattutto disoccupazione. Se avessi un buon impiego resterei qui, soprattutto per i miei genitori.

Puoi definirti un sognatore? Qual è il tuo sogno nel cassetto?
Non soltanto mi definisco un sognatore, ma, come ho scritto in uno dei miei piccoli aforismi, “Foglie sparse al vento”, sono “un sognatore di professione”. Per questo polemizzo, protesto, dico le cose senza peli sulla lingua, e magari risulto antipatico, se addirittura non mi attiro l’odio della gente. Ciò non so per quale motivo capiti, se perché non mi capiscono, se perché vengo frainteso, se semplicemente vogliono che tutto rimanga com’è perché preferiscono una routine sicura, seppur orribile, piuttosto che un ignoto che potrebbe riservare tante sorprese. Da piccoli ci insegnano a dire sempre la verità, ma fatto sta che quando la dici la gente non ti apprezza. Sento gente che parla di cambiamenti, di rivoluzioni eccetera, ma se queste parole le uso io vengo stigmatizzato, come se non ne avessi il permesso o se avessero paura che io potrei riuscire in ciò in cui loro non riescono. Migliorare le cose non è un obiettivo solo personale, vorrei fosse una cosa globale. Come detto prima, a che servirebbe senza qualcuno con cui condividerlo?
Riguardo il sogno nel cassetto... è avere un sogno. Certo, affermarmi, realizzarmi in toto, ma non fermarmi mai, continuare senza sosta la ricerca di me stesso, anche quando son convinto di averlo trovato, perché, citando Faletti, “mentre decidi se son buono o son cattivo, fa’ che la morte mi trovi vivo”.

Il tuo ultimo libro s’intitola Ti darò il mio cuore. Di che cosa parla?
Uno dei lettori, poco prima della presentazione a Bagnara mi ha detto che è “un inno all’amore”. No, io non sono il tipo. Il mio romanzo è più che altro una denuncia della sua mancanza, perché l’amore oggi come oggi, quello vero, è difficilissimo trovarlo. Ci si “innamora” per paura di stare soli, o per convenienza. Quando in piazza Marconi vedi tutte quelle giovanissime coppie, quello non è amore, ma ormoni adolescenziali impazziti. Vorrei vederli davanti ad un mutuo da pagare, a dei figli, alle tasse. Si mollerebbero in un secondo. Ma non c’è solo questo: “Ti darò il mio cuore” è pieno di motivi, dalla voglia di rivalsa del Sud alla musica, consolatrice e consigliera, dall’amicizia più pura al troppo potere di alcuni professori universitari che si approfittano degli studenti perché non hanno controlli. Molti di quelli che hanno letto il mio libro, anzi, quasi tutti, mi hanno detto che è “molto scorrevole e semplice”, ma in realtà è molto complesso.

Alcune parole per i giovani.
I giovani d’oggi hanno pochissimi punti di riferimento, la loro unica salvezza è sapere più cose possibili e diffonderle, perché il male del ventunesimo secondo è l’oscurantismo propugnato dall’ignoranza, che ha permesso, per esempio, ai nostri politici di prendersi privilegi che non ha nemmeno uno sceicco del Dubai. I giovani sono il futuro, e non è un modo di dire. C’è un bellissimo pensiero di Crozza – ebbene sì, non Nietzsche, Schopenhauer, Socrate.. ma Crozza – in cui diceva che quando diventi grande, il mondo non è più tuo, ma è un prestito per cui devi lavorare sodo per donarlo ai tuoi figli. Secondo me, quella soglia si è abbassata parecchio, perché oggi come oggi i giovani devono guadagnarselo, il mondo, o rischieranno di non avere nulla. Io, nel mio piccolo – perché ancora mi ritengo un giovane, e “lavoro” da giornalista e da insegnante con tantissimi giovani – sto tentando di fare del mio meglio, perché voglio scongiurare un’immagine che mi viene in mente spesso. Sono sul monte Cucuzzo, ho due bei bimbi sulle mie ginocchia ed ammiro il mondo circostante, vedo immondizia, criminalità, politici corrotti, gente menefreghista e dico loro: “ragazzi, un giorno tutto ciò sarà vostro.. perdonatemi.” E ciò non può succedere, non deve succedere, e non succederà. Basta solo che ci mettiamo tutto di noi stessi. Un legnetto è facile da rompere, ma un fascio di legnetti no. Insomma, giovani, liberatevi della tecnologia, o almeno, non fatevi fare il lavaggio del cervello da lei, liberatevi dall’ignoranza, dai teoremi facili e dalle superstizioni, ed impegnatevi per essere il meglio possibile. Certo, soffrirete, dovrete aver pazienza per vedere dei risultati, ma alla fine.. sapete la soddisfazione?

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