- di Saso Bellantone
Al tempo di Platone (Atene 428/27 a. C – Atene 348/47 a. C) non esistevano ancora né la filosofia né i filosofi bensì i sofisti, dei “sapienti di professione” che, appunto, si facevano pagare per insegnare quel che sapevano. Accanto a questi vi era un’altra figura, Socrate, un sapiente diverso dai sofisti, che non ha lasciato alcuno scritto e le cui notizie biografiche sono ricavabili, in particolar modo, dalle opere di Platone. Socrate è centrale nel pensiero di Platone e occorre tenerlo a mente per capire che cosa intende Platone con il termine filosofia.
Indicato dalla pizia come il più sapiente tra gli uomini, Socrate passa la vita nel tentativo di dimostrare la verità, e cioè che l’oracolo di Delfi è sbagliato. Tuttavia, si rende conto dell’inverso perché capisce, diversamente dai politici, dai sofisti e da tutti gli altri con cui dialoga, che è l’unico a esser consapevole di non sapere. Scopritore dell’anima umana, da lui denominata daimon e fatta coincidere con la coscienza pensante dell’individuo (l’io), Socrate vive per strada conversando con vari interlocutori, specie di giovane età. Il suo intento, mediante numerose e continue domande (Che cos’è questo? Che cos’è quello?), è di tirar fuori da loro (maieutica) dei pensieri personali, capaci di invogliarli a conoscere se stessi e a farli diventare critici e dei migliori cittadini della pòlis. Tutto questo spinge altri a confondere Socrate con un sofista e ad accusarlo di istigare i giovani contro le leggi e le tradizioni della città, dunque contro l’ordine pubblico. Processato e condannato a morte, Socrate accetta la condanna e si uccide bevendo la cicuta, pur sapendo di essere innocente. La condanna a morte del maestro, agli occhi di Platone è la testimonianza dell’inconciliabilità tra chi ricerca instancabilmente la verità (il sapiente) e chi governa (il legislatore). Platone si pone il compito di risolvere tale contrasto, per impedire che ad altri accada qualcosa di simile, ponendosi il problema della conoscenza. Dal momento che inizia ad affrontare tale questione a partire da un avvenimento politico e il suo punto d'arrivo è impedire il ripetersi dello stesso, allora la sua teoria della conoscenza rappresenterà anche una teoria della giustizia.
Platone pensa che tra il sapere e la politica intercorre uno stretto legame, derivante dalla conoscenza della virtù (non delle singole virtù). Questo vincolo però si frantuma a causa dei criteri per distinguere la virtù dalle opinioni e dalle strumentalizzazioni personali, diversi per il sapiente e per il sofista (legislatore). Innanzitutto Platone considera la conoscenza della virtù coincidente con quella della verità, la quale è il sommo bene. In questo quadro, chiarisce in quale maniera il sapiente e il sofista giungono alla conoscenza della verità. Mentre il sapiente, partendo dal presupposto di non possederla e ricercandone i principi, riesce a conoscere la verità, il sofista, invece, lasciandosi guidare dall’opinione, che considera l’unico parametro valido per la conoscenza, la ignora. Dal momento che la verità, che collima con la virtù, è il sommo bene, allora il sapiente, conoscendo la verità, riesce a vivere secondo giustizia, mentre il sofista, ignorandola, vive ingiustamente. La ricerca instancabile della verità non è dunque una pratica inutile bensì l’occasione di affrontare problemi reali e universali, radicati nella storia, nella quotidianità, nello Stato.
In quale maniera, però, è possibile conoscere la verità? Platone pensa che la realtà nella sua interezza sia costituita da due mondi contrapposti: quello sensibile, dimora delle cose, caduco, soggetto al mutamento (mondo apparente); quello sovrasensibile, sede delle idee, eterno e imperituro (mondo vero o Iperuranio). L’effettivo oggetto della conoscenza è, secondo Platone, il mondo delle idee, che l’essere umano può conoscere soltanto in modo intuitivo e parziale. Rifacendosi all’orfismo e al pitagorismo, che credono nella trasmigrazione delle anime da un corpo all’altro, Platone pensa che l’anima umana, che è immortale, dopo la morte corporea e prima di incarnarsi in un altro corpo, riesce a vedere il mondo delle idee perché si è staccata dalle sue sembianze sensibili. Una volta trasmigrata in un nuovo corpo, però, lo dimentica e tende a considerare vero esclusivamente il mondo delle cose. La conoscenza, in questo senso, al di qua del mondo delle idee, non sarebbe altro che una reminescenza, un ricordare (anàmnesis) quel che l’anima ha visto prima di reincarnarsi in nuovo corpo. Nel mondo sensibile, riflesso del mondo delle idee, la conoscenza di quest’ultimo è sempre parziale perché quella integrale è concessa soltanto all’anima, nel momento in cui è separata dal corpo, e agli dèi, i quali, essendo sempre affrancati da un’esistenza corporea, lo osservano perennemente. Se gli esseri umani, però, tendono a dimenticare il mondo delle idee perché sono condannati a un’esistenza corporea, può dirsi lo stesso anche per il sapiente, prigioniero anch’egli del proprio corpo?
Diversamente dagli altri esseri umani, il sapiente è caratterizzato da un atteggiamento nei confronti della verità, paragonabile al desiderio che intercorre tra due amanti, denominato da Platone filosofia, “amore del sapere”. Costretto a vivere nell’ignoranza, causata dall’esistenza corporea che fa dimenticare la verità, il sapiente vive la distanza dal mondo delle idee nel modo della filosofia, cioè ricercando instancabilmente il sapere, la verità, nella stessa maniera di un amante che è affascinato dalla bellezza della sua amata. Il sapiente vive questa lontananza come un “filosofo”, un amante del sapere, insoddisfatto e irrequieto perché è perennemente in cerca della bellezza della verità, sommo bene, della quale permane nella sua anima (psyche) un vago ricordo. Malgrado la parzialità della sua conoscenza del verità, al sapiente, con un atteggiamento da filosofo, spetta il compito, mediante il dare e ricevere discorso, di farla ricordare agli altri, alle loro anime. Questo incarico, però, non è facile. Dal momento che la conoscenza della verità spetta alle anime, la parola, che è un fatto appartenente al mondo sensibile, non riesce a comunicare la verità totalmente e può soltanto farla intuire. A tal fine, secondo Platone, può impiegare il mito e la forma dialogica i quali, per la sua funzione allegorica e per il dare e ricevere discorso rispettivamente, riescono a esprimere la bellezza della verità e di colmare, seppur in parte, il contrasto tra mondo vero e mondo apparente.
Il mondo delle idee, trascendente rispetto al mondo delle cose, è secondo Platone la dimora del vero, del bello, del bene, in una parola dell’Essere. È il fondamento di tutto ciò che è, il modello sulla base del quale il Demiurgo – una sorta di semi-dio introdotto dall’ultimo Platone – plasma il mondo delle cose. Il mondo delle idee è il fondamento anche lo Stato, il governo del quale, secondo Platone, spetta ai sapienti. Questi ultimi infatti possono organizzare la pòlis secondo giustizia perché, rispetto a tutti gli altri cittadini, conoscono maggiormente la verità, che è, anche, il sommo bene dell’essere umano, del cittadino e dello Stato.
Ordinare la pòlis secondo giustizia vuol dire, agli occhi di Platone, assegnare a ogni cittadino, in modo gerarchico, la mansione che gli spetta all’interno dello Stato sulla base del grado di conoscenza della verità, del sommo bene, che ognuno rispettivamente possiede. Dal momento che i sapienti sono più vicini alla verità, a loro spetta il compito di governare e legiferare, mentre a tutti gli altri spettano altre funzioni, via via al di sotto dei sapienti, sulla base della loro lontananza dalla verità. Per esempio, compete ai guerrieri la difesa della città e ai commercianti la produzione dei beni materiali.
In uno Stato ordinato in questa maniera, non può mai accadere che un giusto, un sapiente al pari di Socrate – cioè conoscitore del mondo delle idee, della verità, del sommo bene – sia condannato a morte. Per una ragione soltanto: perché lo ordina, lo organizza, in una parola, lo domina. Quindi, il problema iniziale, quello cioè del contrasto tra il sapere e la politica, nel pensiero di Platone è ampiamente risolto (teoricamente).
Al tempo di Platone (Atene 428/27 a. C – Atene 348/47 a. C) non esistevano ancora né la filosofia né i filosofi bensì i sofisti, dei “sapienti di professione” che, appunto, si facevano pagare per insegnare quel che sapevano. Accanto a questi vi era un’altra figura, Socrate, un sapiente diverso dai sofisti, che non ha lasciato alcuno scritto e le cui notizie biografiche sono ricavabili, in particolar modo, dalle opere di Platone. Socrate è centrale nel pensiero di Platone e occorre tenerlo a mente per capire che cosa intende Platone con il termine filosofia.
Indicato dalla pizia come il più sapiente tra gli uomini, Socrate passa la vita nel tentativo di dimostrare la verità, e cioè che l’oracolo di Delfi è sbagliato. Tuttavia, si rende conto dell’inverso perché capisce, diversamente dai politici, dai sofisti e da tutti gli altri con cui dialoga, che è l’unico a esser consapevole di non sapere. Scopritore dell’anima umana, da lui denominata daimon e fatta coincidere con la coscienza pensante dell’individuo (l’io), Socrate vive per strada conversando con vari interlocutori, specie di giovane età. Il suo intento, mediante numerose e continue domande (Che cos’è questo? Che cos’è quello?), è di tirar fuori da loro (maieutica) dei pensieri personali, capaci di invogliarli a conoscere se stessi e a farli diventare critici e dei migliori cittadini della pòlis. Tutto questo spinge altri a confondere Socrate con un sofista e ad accusarlo di istigare i giovani contro le leggi e le tradizioni della città, dunque contro l’ordine pubblico. Processato e condannato a morte, Socrate accetta la condanna e si uccide bevendo la cicuta, pur sapendo di essere innocente. La condanna a morte del maestro, agli occhi di Platone è la testimonianza dell’inconciliabilità tra chi ricerca instancabilmente la verità (il sapiente) e chi governa (il legislatore). Platone si pone il compito di risolvere tale contrasto, per impedire che ad altri accada qualcosa di simile, ponendosi il problema della conoscenza. Dal momento che inizia ad affrontare tale questione a partire da un avvenimento politico e il suo punto d'arrivo è impedire il ripetersi dello stesso, allora la sua teoria della conoscenza rappresenterà anche una teoria della giustizia.
Platone pensa che tra il sapere e la politica intercorre uno stretto legame, derivante dalla conoscenza della virtù (non delle singole virtù). Questo vincolo però si frantuma a causa dei criteri per distinguere la virtù dalle opinioni e dalle strumentalizzazioni personali, diversi per il sapiente e per il sofista (legislatore). Innanzitutto Platone considera la conoscenza della virtù coincidente con quella della verità, la quale è il sommo bene. In questo quadro, chiarisce in quale maniera il sapiente e il sofista giungono alla conoscenza della verità. Mentre il sapiente, partendo dal presupposto di non possederla e ricercandone i principi, riesce a conoscere la verità, il sofista, invece, lasciandosi guidare dall’opinione, che considera l’unico parametro valido per la conoscenza, la ignora. Dal momento che la verità, che collima con la virtù, è il sommo bene, allora il sapiente, conoscendo la verità, riesce a vivere secondo giustizia, mentre il sofista, ignorandola, vive ingiustamente. La ricerca instancabile della verità non è dunque una pratica inutile bensì l’occasione di affrontare problemi reali e universali, radicati nella storia, nella quotidianità, nello Stato.
In quale maniera, però, è possibile conoscere la verità? Platone pensa che la realtà nella sua interezza sia costituita da due mondi contrapposti: quello sensibile, dimora delle cose, caduco, soggetto al mutamento (mondo apparente); quello sovrasensibile, sede delle idee, eterno e imperituro (mondo vero o Iperuranio). L’effettivo oggetto della conoscenza è, secondo Platone, il mondo delle idee, che l’essere umano può conoscere soltanto in modo intuitivo e parziale. Rifacendosi all’orfismo e al pitagorismo, che credono nella trasmigrazione delle anime da un corpo all’altro, Platone pensa che l’anima umana, che è immortale, dopo la morte corporea e prima di incarnarsi in un altro corpo, riesce a vedere il mondo delle idee perché si è staccata dalle sue sembianze sensibili. Una volta trasmigrata in un nuovo corpo, però, lo dimentica e tende a considerare vero esclusivamente il mondo delle cose. La conoscenza, in questo senso, al di qua del mondo delle idee, non sarebbe altro che una reminescenza, un ricordare (anàmnesis) quel che l’anima ha visto prima di reincarnarsi in nuovo corpo. Nel mondo sensibile, riflesso del mondo delle idee, la conoscenza di quest’ultimo è sempre parziale perché quella integrale è concessa soltanto all’anima, nel momento in cui è separata dal corpo, e agli dèi, i quali, essendo sempre affrancati da un’esistenza corporea, lo osservano perennemente. Se gli esseri umani, però, tendono a dimenticare il mondo delle idee perché sono condannati a un’esistenza corporea, può dirsi lo stesso anche per il sapiente, prigioniero anch’egli del proprio corpo?
Diversamente dagli altri esseri umani, il sapiente è caratterizzato da un atteggiamento nei confronti della verità, paragonabile al desiderio che intercorre tra due amanti, denominato da Platone filosofia, “amore del sapere”. Costretto a vivere nell’ignoranza, causata dall’esistenza corporea che fa dimenticare la verità, il sapiente vive la distanza dal mondo delle idee nel modo della filosofia, cioè ricercando instancabilmente il sapere, la verità, nella stessa maniera di un amante che è affascinato dalla bellezza della sua amata. Il sapiente vive questa lontananza come un “filosofo”, un amante del sapere, insoddisfatto e irrequieto perché è perennemente in cerca della bellezza della verità, sommo bene, della quale permane nella sua anima (psyche) un vago ricordo. Malgrado la parzialità della sua conoscenza del verità, al sapiente, con un atteggiamento da filosofo, spetta il compito, mediante il dare e ricevere discorso, di farla ricordare agli altri, alle loro anime. Questo incarico, però, non è facile. Dal momento che la conoscenza della verità spetta alle anime, la parola, che è un fatto appartenente al mondo sensibile, non riesce a comunicare la verità totalmente e può soltanto farla intuire. A tal fine, secondo Platone, può impiegare il mito e la forma dialogica i quali, per la sua funzione allegorica e per il dare e ricevere discorso rispettivamente, riescono a esprimere la bellezza della verità e di colmare, seppur in parte, il contrasto tra mondo vero e mondo apparente.
Il mondo delle idee, trascendente rispetto al mondo delle cose, è secondo Platone la dimora del vero, del bello, del bene, in una parola dell’Essere. È il fondamento di tutto ciò che è, il modello sulla base del quale il Demiurgo – una sorta di semi-dio introdotto dall’ultimo Platone – plasma il mondo delle cose. Il mondo delle idee è il fondamento anche lo Stato, il governo del quale, secondo Platone, spetta ai sapienti. Questi ultimi infatti possono organizzare la pòlis secondo giustizia perché, rispetto a tutti gli altri cittadini, conoscono maggiormente la verità, che è, anche, il sommo bene dell’essere umano, del cittadino e dello Stato.
Ordinare la pòlis secondo giustizia vuol dire, agli occhi di Platone, assegnare a ogni cittadino, in modo gerarchico, la mansione che gli spetta all’interno dello Stato sulla base del grado di conoscenza della verità, del sommo bene, che ognuno rispettivamente possiede. Dal momento che i sapienti sono più vicini alla verità, a loro spetta il compito di governare e legiferare, mentre a tutti gli altri spettano altre funzioni, via via al di sotto dei sapienti, sulla base della loro lontananza dalla verità. Per esempio, compete ai guerrieri la difesa della città e ai commercianti la produzione dei beni materiali.
In uno Stato ordinato in questa maniera, non può mai accadere che un giusto, un sapiente al pari di Socrate – cioè conoscitore del mondo delle idee, della verità, del sommo bene – sia condannato a morte. Per una ragione soltanto: perché lo ordina, lo organizza, in una parola, lo domina. Quindi, il problema iniziale, quello cioè del contrasto tra il sapere e la politica, nel pensiero di Platone è ampiamente risolto (teoricamente).
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