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giovedì 24 giugno 2010

IL PROBLEMA DI ALADINO di Ernst Jünger







- di Saso Bellantone
Quando si scopre di aver contratto una malattia e si riesce a definirne la causa, tutto acquista un senso e ci si fa una ragione di essa, anche del dolore e della sofferenza provati: «ma è proprio quando sotto non c’è niente che il problema diventa più inquietante» (p. 10). Ne Il problema di Aladino Jünger impiega la figura di Aladino come una metafora per definire il problema dei problemi dell’uomo contemporaneo: il potere.
La questione del potere è strettamente legata a quella del nichilismo. Ponendosi il problema del nichilismo si affronta a un tempo il problema del potere. L’uno richiama l’altro e viceversa. Il nichilismo stabilisce in modo definitivo l’assenza di valori, di verità, di scopi nell’esistenza. In una parola, di Dio. Quando si assume questa prospettiva d’interpretazione dell’ente in generale, quel che resta è il potere. Se Dio è morto, come spiegare il potere? Qual è la sua origine? Qual è il suo scopo? Perché l’uomo è affetto da questa malattia e non riesce a liberarsene?
Jünger non indaga questo dilemma con la gabbia concettuale della filosofia bensì con le creatrici e sconfinate lande della letteratura. Questo enigma, secondo Jünger, non è un’illusione dei filosofi ma una realtà che coinvolge l’uomo concreto, una patologia che condanna l’uomo a vivere un’esistenza spettrale, nella quale in ogni attimo desidera ottenere maggiore potere dell’attimo precedente. Nel tempo della morte di Dio, l’uomo è affetto da questa malattia: sfrutta ogni occasione, anche quelle apparentemente nefaste, per soddisfare il proprio bisogno di potere. Questa necessità non conosce confini né meta ultima e trasforma l’esistenza umana in un eterno ritorno dell’uguale, in un meccanismo di accumulazione continua di un di più di vita, utile per ottenere maggiore potere, che procede in modo automatico e illimitato.
All’ombra del nichilismo, pur ottenendo e desiderando maggiore potere, ci si ritrova paradossalmente sempre più vuoti, mancanti di qualcosa, insoddisfatti, disperati, soli, insensati. C’è infatti un’altra malattia di cui l’uomo è affetto, antica quanto quella del potere: la malattia della verità. L’uomo ha bisogno di risposte, di certezze, di scopi, di valori e di verità universali. Nel tempo della morte di Dio, però, l’uomo non può più soddisfare questo bisogno, così come faceva un tempo: il nichilismo sbarra la strada a ogni risposta. In questo modo, la stessa vita diviene problematica, diventa una tortura terrificante nella quale la ragione rasenta la follia. Da un lato, si è corrotti dalla malattia del potere, nella quale ci si sente continuamente in crisi d’astinenza; dall’altro lato, ci si sente avvolti nel nulla e si finisce per dubitare dell’esistenza in generale. L’uomo non può vivere in questo modo, deve decidere il da farsi «ma non dev’essere alla maniera di Aladino […]. In gioco è la scelta tra potere interiore e esteriore, spirituale e reale, in una parola: la salvezza» (pp. 116-117).
Friedrich Baroh, il protagonista de Il problema di Aladino, tenta di risolvere questo problema mediante un’indagine retrospettiva della propria vita. Analizza se stesso, la propria storia, quella della propria famiglia, della società cui appartiene, del mondo. Non tralascia niente: descrive a se stesso le proprie caratteristiche fisiche, estetiche, religiose, sociali, etiche, razionali, oniriche, consuetudinarie, emozionali, accademiche e via dicendo; si racconta la propria carriera militare, gli incontri, l’amore con Bertha, gli studi, la carriera lavorativa nell’agenzia di pompe funebri Pietas, che poi diventa la grande società Terrestra.
Friedrich riesce a definire la propria patologia – il potere – ma a causa del nichilismo che domina il cosmo non è in grado di guarire, di curarsi da solo. Il potere è lo stesso problema di Aladino: mentre questi lo usa per vivere una vita felice, l’uomo contemporaneo non è capace di imitare Aladino. È schiavo del potere, lo utilizza per ottenere altro potere e così procede all’infinito, fino alla propria rovina. E qui entra in scena il mistico senza sacro, una dimensione dello spirito, priva di Dio.
All’apice del turbamento fisico e mentale, provocato dalla malattia del potere, Friedrich trova sulla propria scrivania una lettera illogicamente indirizzata alla sua persona. È di Phares, uno sconosciuto che risiede all’Albergo dell’Aquila, vicino alla grande necropoli della Terra, in Anatolia, capace di contenere i morti di tutte le popolazioni terrestri, di proprietà di Friedrich. Come entrato in un’altra dimensione, in un mondo parallelo dove né il potere né il nichilismo costituiscono un problema, Friedrich lascia in sospeso il lavoro e si reca all’indirizzo del mittente: «era un mattino di primavera, e senza motivo ero lieto – placato» (p. 126).






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