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giovedì 15 luglio 2010

LA MALATTIA DELLA SAPIENZA VOL. 1

- di Saso Bellantone
Per natura, l’essere umano è un animale sociale, comunicativo ma soprattutto incazzoso. Ciò è ravvisabile in particolar modo nelle conversazioni che svolge con i propri simili nelle quali, ogni volta – indifferentemente dall’argomento trattato, sia il calcio, il gossip, la politica, la fede, l’alimentazione o il carico a bastoni con la briscola a coppe – sembra vi sia in ballo la verità assoluta del mondo.
Quando si dialoga con altri a proposito di qualcosa, ognuno tende a mostrarsi iper-sapiente, vale a dire unico possessore della sapienza assoluta, svelata da un dio o da un demone, dunque unica voce della verità. Questa inclinazione spinge ognuno a esibirsi in monologhi interminabili per prevalere sull’altro. In questo modo, anziché generare uno scambio di idee, capace di produrre in entrambi non solo un ampliamento degli orizzonti ma anche reciproco rispetto e stima, spesso si finisce nel mandare l’altro a quel paese, nel prenderlo a botte e nell’odiarlo per il resto della vita. Finite le zuffe, ci si accorge – forse – che nel discutere a suon di mazzate con altri a proposito di questo e quello, non ci si interessa dell’argomento considerato ma soltanto di imporre le proprie opinioni, pardon, verità.
L’inclinazione a ritenersi dei super-sapienti può essere causata da shock infantili, traumi, complessi psicologici, difetti fisici e disturbi mentali; dall’indole naturale ed ereditaria; dalle abitudini, dall’educazione, dalla formazione scolastica, dalle amicizie e dai contesti sociali nei quali e coi quali si cresce, si lavora, si vive; a volte, e questo è paradossale, dalla ingenuità, dall’ignoranza e dall’ottusità. Quale che sia la sua provenienza, tale attitudine provoca una degenerazione della personalità, del raziocinio, del buon senso e istiga all’aggressività, all’arroganza, alla perfidia. Qualora si è posseduti dal demone della sapienza assoluta – e di indemoniati ce n’è abbastanza nella nostra società, basta guardarsi allo specchio – tutte le nostre conversazioni sono destinate a fallire e le nostre opinioni, da meri e gratuiti ragionamenti disputati intellettualmente con altri, si trasformano in verità assolute dimostrate e imposte con la forza fisica, con la voce più alta e con la mossa di karate vincente.
Se tutti si abbandonano a questa possessione, è evidente che la nostra società subirà presto una metamorfosi: o diverrà il regno dei solitari incazzati; o giungerà alla propria fine, a causa di una guerra di tutti contro tutti. Per queste ragioni, sembra necessario riflettere su tale possessione diabolica, definibile con l’espressione “malattia della sapienza”.
Non tutti sono in condizioni di comprendere di esserne infettati. Per i fortunati, invece, questo potrebbe segnare l’inizio di una guarigione non solo mentale ma anche fisica e spirituale. Le seguenti considerazioni, sia chiaro, costituiscono una proposta terapeutica, perfezionabile con i contributi di chi fosse interessato.
La malattia della sapienza è antica quanto l’uomo, è un morbo cronico del genere umano, che infetta l’uomo nella sua soggettività, per mezzo dei suoi istinti ancestrali. Darwin sostiene che l’essere umano è una scimmia evoluta, un essere istintivo che grazie all’assunzione della postura eretta e alla libertà delle mani ha iniziato a creare manufatti, a porsi degli scopi, a pensare. Già Aristotele, prima del teorico dell’evoluzionismo, definisce l’uomo un animale razionale, ossia un essere abitato da due forze contrastanti: l’impulsività (lato ferino); il ragionamento (lato pensante). Nel corso della propria evoluzione, l’uomo è soggetto allo scontro tra queste due potenze che lo caratterizzano: il lato pulsionale tende a sopraffare quello razionale, e viceversa. Per questo motivo, ritenere che essere dotati del pensiero sia un argomento utile per dimostrare che non si è più animali, è una sciocchezza. Il pensiero è influenzato dagli istinti selvaggi che abitano il corpo umano: essere progrediti, vuol dire dimostrare nei fatti di essere capaci di frenare queste inclinazioni. Ma il più delle volte non è così. Gli animali tendono a imporre il proprio dominio sugli altri, dunque a diventare capo-branco, con la contesa e la forza fisica. In quanto animali, gli uomini fanno lo stesso anche nel terreno del pensiero e, qualora non ci riescono, ricorrono alla forza fisica.
Se quest’analisi ha qualcosa di sensato, si comprende che la malattia della sapienza non è altro che la trasformazione delle antiche contese basate sulla forza fisica, in controversie basate su opinioni, idee e convincimenti. In questa metamorfosi, resta uguale lo scopo: diventare il capo-branco, dominare gli altri. A ben vedere, chi è ammalato di sapienza, di fatto, soffre di un’altra malattia congenita all’essere umano, nella sua radice animale: il dominio. Perché nelle conversazioni l’uomo è incline a mostrarsi super-sapiente? Perché usa la forza fisica, quando non riesce a esibirsi all’altro in questo modo? L’unica risposta a queste domande è: per il dominio. La malattia della sapienza, nel suo volto oscuro, celato, rimosso, è una malattia del dominio.
In termini politici, il dominio si indica con la parola “potere”; in termini filosofici, con la parola “sapere”; in termini teologici, con la parola “dio”. Dire che nelle conversazioni, per indole, ognuno è incline a instaurare il proprio dominio su altri – e lo fa prima mediante la ragione, poi con l’uso della forza fisica – significa che ognuno vuole mostrarsi potente, sapiente, dio. Dominare gli altri nel terreno della ragione significa imporre la propria visione del mondo, la propria personale interpretazione dell’accadere, svolta sia con l’ausilio delle fonti sia senza di esse. Se in piccolo ciò vuol dire dominio di un individuo o di un gruppo di persone, amplificando questo procedimento su scala planetaria ciò significa dominio assoluto.
L’immagine del mondo dipende da ciò, dalla capacità soggettiva di imporre agli altri la propria interpretazione generale della vita, vale a dire di dominarli con l’uso della ragione (e insieme con le discipline, le dimensioni, le arti, le tecniche, i saperi da essa partorite). Quando la ragione (e i suoi mezzi) non riesce da sola a ottenere questo obiettivo, si passa all’uso della forza: le guerre, le proteste, le insurrezioni, i disordini vari, gli omicidi devono essere intesi in questo senso.
Se è vero che la malattia della sapienza è una malattia del dominio, ossia governo del branco grande o piccolo che sia, allora che altro è dominare il branco se non appagare senza impedimento alcuno tutti i propri impulsi naturali? Che altro è tale appagamento incontrastato dei propri istinti se non la libertà assoluta? Che altro è tale libertà se non il dispiegamento illimitato della propria volontà? Chi s’impone all’altro – al di là del tema discusso – mira consapevolmente oppure no all’ottenimento di questa libertà assoluta, ossia di una condizione privilegiata nella quale si è svincolati da ogni impedimento e, per questo motivo, si è capaci di concretizzare in modo smisurato la propria volontà.
C’è da chiedersi se tutto ciò sia possibile non tanto in uno stato di diritto quale il nostro, bensì in un gruppo di persone che decidono di vivere insieme, vale a dire di fare comunità. L’uomo è dunque condannato alla malattia del dominio? Se dietro ogni conversazione si cela questo scopo, allora l’unico modo per guarire da questa piaga corrosiva della volontà è astenersi dalle discussioni per tutta la vita? O forse è necessario incominciare a chiedersi se esiste uno scopo alternativo al dominio, da ricercare nei dialoghi con altri? Questo implica una metamorfosi onnilaterale dell’essere umano: questa trasfigurazione comincia con l’auto-dignosticarsi la malattia della sapienza, forma razionale del flagello che logora il nostro lato animale: il dominio.

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