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mercoledì 1 giugno 2016

Versieri: NON CHIEDERCI LA PAROLA di Eugenio Montale


- di Saso Bellantone

“Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l'uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l'ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
Per ridere in società
ha messo la sua testa il domatore
nella gola del leone
io
ho infilato due dita solamente
nel gargarozzo dell'Alta Società
ed essa non ha avuto il tempo
di mordermi
anzi semplicemente
urlando ha vomitato
un po' della dorata bile
a cui è tanto affezionata.
Per riuscire in questo giuoco
utile e divertente
lavarsi le dita
accuratamente
in una pinta di buon sangue
a ognuno la sua platea.”

Quante persone vorrebbero capirci. Quante, tra queste, direttamente o indirettamente, palesano la loro intenzione di voler penetrare, e svelare così, il segreto che racchiudiamo e siamo nella nostra stessa presenza. Come se ciò sia un obbligo, sia dovuto, perché è così che funziona.
Ognuno è sicuro di sé, di ciò che è e di ciò che gli altri sono (o crede di sapere), e, nel voler sapere tutto e di tutti, non si accorge che l'identità è qualcosa di relativo, è un fatto cangiante a seconda della prospettiva assunta, sia quest'ultima un punto di vista umano, animale, naturale, microbiologico, astrale e quant'altro. Per questo motivo, non cambierebbe nulla nel manifestare ad altri il mistero che siamo. Perché non siamo tutte le prospettive possibili ma soltanto una prospettiva che non può vedere se stessa. Potremmo, al massimo, chiarire quello che non siamo e quello che non vogliamo essere, ma anche qui non avremmo certezza perché continueremmo ad essere solo e soltanto un punto di vista cieco a se stesso.
Per essere accettati si fa di tutto, tutto quello che la società desidera, ma alcuni di noi, pur tentando la sfida dell'accettazione, addentrandosi a passo lento nel mondo degli altri, non saranno mai ammessi, anzi, gli altri, la società stessa farebbe di tutto per travolgerci con la sicurezza che costituisce la sua fortuna e la sua inattaccabile durata e autorità. E così si andrà avanti.
Occorre concepire, perciò, questa sfida del consenso mai concesso non come qualcosa di serio a causa del quale ammalarsi, ma come un gioco, un divertimento utile per comprendere meglio se stessi e la società, consapevoli che la nostra presenza non è un bene per tutti, forse neanche per noi stessi, ma soltanto per alcuni, se si è fortunati, o per nessuno.
Nella poesia Non chiederci la parola, Eugenio Montale pone diverse questioni: dell'identità e della diversità individuale in relazione all'alterità e alla somiglianza monocromatica collettiva; della certezza per mezzo della testimonianza; dell'essere in relazione all'apparire. Per sciogliere tali nodi, il poeta chiama in causa quell'elemento, quella dimensione, quell'estensione di ognuno con la quale ciascuno si manifesta, si esprime, dichiara la propria presenza e interviene nella relazione con l'altro, proponendo se stesso e il proprio pensiero: il linguaggio.
Ma la parola può essere spesso fuorviante. Non soltanto perché si può comunicare il falso consapevolmente, per diffidenza, autodifesa o disinteresse nei confronti dell'altro, ma perché lo si può fare anche involontariamente. Anziché far emergere nella trasparenza della relazione la verità che si è, la parola può far affiorare nell'opacità del rapporto con l'altro l'ambiguità che non si è e si è. Che non si è, in quanto quello che traspare non coincide autenticamente con noi; che si è, in quanto ciò che palesandosi non converge genuinamente con noi, diventa la porta d'accesso capace di mostrare ciò che siamo davvero. E allora, come è possibile gestire questo meccanismo ambivalente? Quanto siamo coscienti di esso? Che cosa esponiamo di noi stessi? La verità o la finzione?
Ecco perché Montale afferma che è preferibile “non chiederci la parola” che possa determinare con esattezza la nostra identità amorfa, sconosciuta anche a noi stessi, e che possa stabilirlo con lettere infuocate da far risplendere come un fiore perduto su un prato di polvere. Molti vivono nella sicurezza di conoscere la propria identità, e quella altrui, inconsapevoli che il riflesso di essa, la sua parvenza, la sua illusione, si diffonde intorno a loro e si fissa nella mente degli altri esattamente come il sole appiccica l'ombra su un muro mal ridotto. Non esiste codice capace di svelare definitivamente la nostra identità. Soltanto sillabe storte, contorte e ricurve come rami secchi, che non sono l'albero nella sua interezza bensì una parte di esso in un periodo della sua esistenza.
È possibile dire di sé soltanto ciò che non si è e non si vuole essere, adesso. Ma non sappiamo di noi stessi nell'attimo successivo della nostra vita.
Molti per essere piacevolmente accettati dalla società nella quale vivono, si comportano come il domatore, che mette la testa nelle fauci del leone. Alcuni, però, non hanno avuto il tempo di mettere due dita nella gola della società affermata e riconosciuta, quella virtuale, mediatica, del Grande Fratello e del Truman Show, che quest'ultima, anziché azzannarli, li ha travolti e scacciati vomitandogli addosso la bile dorata di cui, unica proprietaria, va fiera.
Inutile affannarsi. Non esiste ricette alcuna per uscirne vittoriosi. La relazione con altri, in cui si manifesta la propria identità o l'insieme delle maschere che la interrano, va intesa come un gioco divertente e impossibile: occorre lavarsi con cura le dita dei tentativi fatti, consapevoli che in quegli stessi tentativi, forse, si è fatto del male a qualcuno, oltre che a se stessi.
Ognuno di noi è inconsciamente attore anche con se stesso, oltre che con gli altri, e ognuno di noi ha il suo pubblico: persino quello che ignaramente è dentro di noi.

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