- di Saso Bellantone*
Si vive ingabbiati in casa propria, senza lavoro alcuno né speranza di trovarlo. Oppure si lavora quotidianamente, chiusi tra le pareti del proprio ufficio, quelle dell'abitacolo del proprio mezzo di trasporto o quelle invisibili e trasparenti che separano il cantiere dal resto del paesaggio. Non si ha tempo, incatenati dall'isolamento della nullafacenza o da quello di un attivismo lavorativo che sembra non avere fine, né per se stessi né per le mansioni quotidiane che fanno stare bene e fanno provare la sensazione di trovarsi a casa. Non si ha tempo nemmeno per pagare le infinite tasse di questo Stato decomposto, che va avanti come uno zombie, una marionetta sempre scarica o un vampiro, che succhia tutto il sangue dei suoi cittadini per distribuirlo a quei pochi che di sangue non ne hanno proprio bisogno, essendone già sazi per l'eternità. Né si ha più il tempo per saldare quelle bollette dal momento che lo Stato, fantoccio per burattinai ben più spietati del celeberrimo Mangiafuoco, ha già preso tutto: casa, futuro e dignità.
Eppure, in questo isolamento incorruttibile e delirante, gracile soltanto alla signora nera che attende un passo falso nostro, del nostro corpo o di qualche altro disperato al pari di noi, si sente l'esigenza di infrangere a testate le barriere che ci tengono segregati al mondo e di spezzare a morsi i chiodi che ci tengono saldati alla nostra croce, per prendersi il tempo e uscire: fuori di casa, dall'ufficio, dall'abitacolo, dal cantiere, dalla nostra afflizione, fuori di noi e incontrare altri, coi quali stare finalmente in compagnia, patire insieme e riflettere a due (o più) sull'amara condanna di vivere questo momento storico.
Non sempre, tuttavia, gli incontri sono quanto sperato. Anzi, spesso dopo il “buongiorno” e il “buonasera”, non c'è compagnia né patimento comune né riflessione alcuna. C'è la strada e il vuoto, lo stesso che è nei nostri occhi e in quello di chi ci passa al fianco.
Altre volte, dopo i saluti di routine, la conversazione si installa su stupidaggini e dicerie che svuotano maggiormente il senso di inconsistenza che ci accompagna, e qui si conclude. Oppure si persiste in tali argomentazioni per mostrare ad altri passanti che si sta conversando con qualcuno, che va tutto bene quando è vero tutto il contrario.
Non facciamo domande all'altro, perché temiamo che l'altro le faccia a noi. Non rivolgiamo all'altro domanda alcuna perché l'altro non vuole rispondere, non vuole parlare di sé né raccontarsi. Vuole soltanto mostrare, esattamente come noi, che sta conversando con qualcuno e che va tutto bene, nonostante tutto.
Non ci si fida più dell'altro, anzi si ha paura. Si teme che l'altro non ci comprenda, che capisca male o che lo faccia volontariamente per crearci disastri e metterci in ridicolo. Al massimo, si conversa con l'altro per mostrare ad altri ancora di essere capaci di conversare con Tizio su temi e questioni estranee a tanti altri Caio che ci notano. E viceversa, naturalmente. Dopodiché, si prosegue con la stessa formula finché giunge l'ora di ritirarsi nella propria cella di isolamento.
Teatrino. Vuoto estetismo. Apparenza.
È una vita impostata sul mero apparire, privo di contenuti e anche di sostanza.
A ciascuno non frega niente di qualcun altro in particolare né di tutti gli altri. Al limite, interessa soltanto il piacere di incontrare se stessi e non quello di incontrare l'altro per i motivi che hanno spinto a forzare le sbarre e a strapparsi i chiodi dal corpo. Oppure si ride. Si ride assieme di quello che ci sta attorno e delle disgrazie altrui, mascherando che quegli stessi avvenimenti toccano anche noi e che quelle sono anche le nostre sciagure.
È una vita solitaria quella della nuova era. Ognuno edifica il proprio “altro” mondo dentro il mondo, con e senza tecnologia, e nessuno riesce neanche soltanto a sfiorare quello altrui. Ognuno costruisce le sbarre della propria gabbia e i chiodi della propria croce, per il piacere di lamentarsene e per quello di rinchiudersi ancora dentro di esse e di infilzarli nuovamente dentro la propria carne.
Amiamo l'isolamento della nullafacenza o dell'iperattivismo lavorativo col quale si torna punto e a capo. Amiamo questo Stato parassita che ruba il nostro passato, il nostro presente e il nostro futuro. Amiamo patire, piangerci addosso, patire, piangerci addosso e così all'infinito. E amiamo essere soli, per incontrare nella nostra solitudine qualcosa, o qualcuno, che non siamo nemmeno noi.
Si vive ingabbiati in casa propria, senza lavoro alcuno né speranza di trovarlo. Oppure si lavora quotidianamente, chiusi tra le pareti del proprio ufficio, quelle dell'abitacolo del proprio mezzo di trasporto o quelle invisibili e trasparenti che separano il cantiere dal resto del paesaggio. Non si ha tempo, incatenati dall'isolamento della nullafacenza o da quello di un attivismo lavorativo che sembra non avere fine, né per se stessi né per le mansioni quotidiane che fanno stare bene e fanno provare la sensazione di trovarsi a casa. Non si ha tempo nemmeno per pagare le infinite tasse di questo Stato decomposto, che va avanti come uno zombie, una marionetta sempre scarica o un vampiro, che succhia tutto il sangue dei suoi cittadini per distribuirlo a quei pochi che di sangue non ne hanno proprio bisogno, essendone già sazi per l'eternità. Né si ha più il tempo per saldare quelle bollette dal momento che lo Stato, fantoccio per burattinai ben più spietati del celeberrimo Mangiafuoco, ha già preso tutto: casa, futuro e dignità.
Eppure, in questo isolamento incorruttibile e delirante, gracile soltanto alla signora nera che attende un passo falso nostro, del nostro corpo o di qualche altro disperato al pari di noi, si sente l'esigenza di infrangere a testate le barriere che ci tengono segregati al mondo e di spezzare a morsi i chiodi che ci tengono saldati alla nostra croce, per prendersi il tempo e uscire: fuori di casa, dall'ufficio, dall'abitacolo, dal cantiere, dalla nostra afflizione, fuori di noi e incontrare altri, coi quali stare finalmente in compagnia, patire insieme e riflettere a due (o più) sull'amara condanna di vivere questo momento storico.
Non sempre, tuttavia, gli incontri sono quanto sperato. Anzi, spesso dopo il “buongiorno” e il “buonasera”, non c'è compagnia né patimento comune né riflessione alcuna. C'è la strada e il vuoto, lo stesso che è nei nostri occhi e in quello di chi ci passa al fianco.
Altre volte, dopo i saluti di routine, la conversazione si installa su stupidaggini e dicerie che svuotano maggiormente il senso di inconsistenza che ci accompagna, e qui si conclude. Oppure si persiste in tali argomentazioni per mostrare ad altri passanti che si sta conversando con qualcuno, che va tutto bene quando è vero tutto il contrario.
Non facciamo domande all'altro, perché temiamo che l'altro le faccia a noi. Non rivolgiamo all'altro domanda alcuna perché l'altro non vuole rispondere, non vuole parlare di sé né raccontarsi. Vuole soltanto mostrare, esattamente come noi, che sta conversando con qualcuno e che va tutto bene, nonostante tutto.
Non ci si fida più dell'altro, anzi si ha paura. Si teme che l'altro non ci comprenda, che capisca male o che lo faccia volontariamente per crearci disastri e metterci in ridicolo. Al massimo, si conversa con l'altro per mostrare ad altri ancora di essere capaci di conversare con Tizio su temi e questioni estranee a tanti altri Caio che ci notano. E viceversa, naturalmente. Dopodiché, si prosegue con la stessa formula finché giunge l'ora di ritirarsi nella propria cella di isolamento.
Teatrino. Vuoto estetismo. Apparenza.
È una vita impostata sul mero apparire, privo di contenuti e anche di sostanza.
A ciascuno non frega niente di qualcun altro in particolare né di tutti gli altri. Al limite, interessa soltanto il piacere di incontrare se stessi e non quello di incontrare l'altro per i motivi che hanno spinto a forzare le sbarre e a strapparsi i chiodi dal corpo. Oppure si ride. Si ride assieme di quello che ci sta attorno e delle disgrazie altrui, mascherando che quegli stessi avvenimenti toccano anche noi e che quelle sono anche le nostre sciagure.
È una vita solitaria quella della nuova era. Ognuno edifica il proprio “altro” mondo dentro il mondo, con e senza tecnologia, e nessuno riesce neanche soltanto a sfiorare quello altrui. Ognuno costruisce le sbarre della propria gabbia e i chiodi della propria croce, per il piacere di lamentarsene e per quello di rinchiudersi ancora dentro di esse e di infilzarli nuovamente dentro la propria carne.
Amiamo l'isolamento della nullafacenza o dell'iperattivismo lavorativo col quale si torna punto e a capo. Amiamo questo Stato parassita che ruba il nostro passato, il nostro presente e il nostro futuro. Amiamo patire, piangerci addosso, patire, piangerci addosso e così all'infinito. E amiamo essere soli, per incontrare nella nostra solitudine qualcosa, o qualcuno, che non siamo nemmeno noi.
* fotografia di Linda Fassari
Bello e vero
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