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lunedì 1 settembre 2014

Bucks


- di Saso Bellantone
Agosto. 31. È un pomeriggio afoso e 4 amici partono in macchina in direzione della spiaggia di Amantea e del mare. Il mare... bello e misterioso come la vita, una metafora perfetta. Quando si è piccoli e arriva l'estate non si fa altro che passare intere giornate al mare, poi, via via che si cresce, alcuni continuano a frequentarlo assiduamente, intendendolo quasi come qualcosa di sacro; altri se ne stancano o non trovano il tempo né la vicinanza per fare qualche bagno; altri ancora hanno la fortuna di fare anche un bagno soltanto... nel mare. Lo stesso mare nel quale, alla foce del Gange, milioni di orientali, provenienti da tutti i continenti, s'immergono e riemergono, fisicamente e spiritualmente, una volta all'anno, per purificarsi della contingenza, morire nella vecchia vita e rinascere nella nuova. Così accade, a volte, anche agli occidentali. A quegli occidentali che, disinnamorati, senza tempo o troppo lontani dalle coste, si ritrovano improvvisamente in spiaggia, sotto il sole cocente estivo. È un evento, il mare. Immergendosi e riemergendo dalle sue acque avviene qualcosa che va al di là del caldo, del sudore e della moda. Qualcosa, che dal corporale passa all'intellettuale (o allo spirituale, per chi preferisce) e permane in esso. Lo impregna, lava via le ombre delle idee ormai inutili e lascia il segno di un sale che non può essere mondato. Un sale che si deposita nella pelle del pensiero senza toccarla allo stesso modo in cui le acque del mare a cui quel sale appartiene bagnano senza sfiorarla. Eppure, dà un sapore nuovo, diverso, a un pomeriggio che, forse, durerà più a lungo del previsto, per tanti pomeriggi, oltre i confini di Cronos. Un sale di nome Bucks.
Sono appena uscito dal mare. Primo tuffo, primo bagno 2014. Mi distendo sull'asciugamani e lascio che il sole mi liberi delle gocce d'acqua marina che attraversano il mio corpo. Giro del tabacco e ad ogni girata un passo avvicina qualcuno.
Li sento, quei passi. Così come, nel momento stesso in cui sono pronto a chiudere la sigaretta, sento la sua voce e il tonfo del suo corpo che si siede sulla ghiaia innanzi a me.
Lo vedo. È un ragazzo, la sua pelle è nera, senza bisogno alcuno di abbronzature e tintarelle. Mi saluta e mi chiede “quella” sigaretta. Lo saluto, la chiudo per lui, gliela porgo e me ne chiede un'altra. Mi appresto a girarla e chiacchieriamo.
Si chiama Bucks. Viene dal Gambia. È qui da tre settimane e lavora da tre settimane, giunto a bordo di un barcone assieme a tanti altri connanzionali, amici e disperati. Vende bracciali e collane. Si dà da fare per raccogliere i soldi e spostarsi in un altro Paese più promettente dell'Italia, in cui ricominciare la propria vita. Crede in Dio e ha fame.
Gli do la sigaretta e qualcosa per mangiare. Non voglio collane né bracciali. Non li uso, quindi è meglio li venda ad altri.
Mi ringrazia lungamente, in inglese. Lo ringrazio brevemente, dicendo “God is with you”. Ci salutiamo. Prosegue il suo cammino, per vendere qualcos'altro e incontrare qualche altro amico con cui scambiare due parole e trovare, se solo fosse possibile farlo, il senso del suo girovagare.
Lo osservo, osservo me stesso e mi chiedo: perché un ragazzo è costretto a fuggire via dalla propria terra natia? Perché cerca un paese più promettente dell'Italia?
Agosto. 31. Il pomeriggio afoso è ormai passato e, mentre la fresca sera entra dai finestrini della macchina, 4 amici rientrano a casa. Non sono più 4. Sono 5.
La musica e i tramonti all'orizzonte parlano chiaramente. Non ci saranno altri tuffi né altri bagni per quest'estate 2014 appena cominciata. Non voglio altro sale marino sul mio corpo. Il mio pensiero è già denso di sale. Quel sale che mi accompagnerà per tanti altri pomeriggi ancora: Bucks.

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