- di Saso Bellantone
Fontana (Villa Angelo Frammartino, Caulonia).
IN QUESTO BLOG NON SI PUBBLICANO COMMENTI ANONIMI.
giovedì 30 agosto 2012
DISsud: Le foto 2
sabato 25 agosto 2012
Ideale, questo sconosciuto...
- di Gianmarco Iaria
Io alzo il pugno. Perché credo nella
forza dell’uomo.
Io alzo il pugno. Perché so che la
realtà è decisa da pochi uomini.
Io alzo il pugno. Perché credo nella
lotta dell’uomo per un mondo migliore.
Io alzo il pugno. Perché credo nella
differenza di distribuzione del reddito, sì, ma credo anche che quella attuale
sia profondamente ingiusta.
Io alzo il pugno. Perché sebbene io
appartenga alla classe piccolo-borghese benestante, io so che la mia posizione
è stata voluta da chi violenta questo mondo, per comodità.
Io alzo il pugno. Perché l’utilitaria,
l’appartamento di proprietà, il salotto arredato, la tv LCD-HD-3D, il computer portatile, l’Ipod, il telefonino touch-screen,
la pay-tv, il digitale terrestre sono le briciole di formaggio che i potenti
lanciano ai topi della classe che produce.
Io alzo il pugno. Perché i salotti
televisivi, i reality show, i talent show, i programmi di inchiesta sugli
omicidi, le fiction, le soap opera, il calcio milionario sono i dormiferi che
chi ha, usa per drogare e stordire l’animo di chi pensa di avere e non ha.
Io alzo il pugno. Perché credo che un
giorno il sentire comune supererà la logica del “mio orticello”.
Io alzo il pugno. Perché credo che un
giorno il bene della fratellanza vincerà sul male dell’interesse personale.
venerdì 24 agosto 2012
AAA: Supereroe cercasi!
-
di Nadia Caruso
In
un mondo in cui politici da strapazzo condividevano la via con poeti adepti a
santità passeggere e culti volubili, vivevano settemiliardi e centotrentamila
persone. Settemiliardi e centotrentamila diversi tipi di esseri umani, settemiliardi
e centotrentamila diversi concentrati di puro egoismo, volti alla sopravvivenza
della propria specie a danno delle altre e, inconsapevolmente, anche della propria
e la storia sarebbe già sufficientemente esilarante così, senza rincarare la
dose, ma purtroppo questo non è che il preludio.
Il
sole splendeva ardente, ricordando agli abitanti del mondo che l’effetto serra
non era solo una delle tante fantasie degli ambientalisti e la vita scorreva
serena tra le campagne ornate qua e là da vistose sculture di “arte moderna”, dette
comunemente discariche abusive.
Si sentiva nel vento profumo di libertà, di
cambiamento, o più probabilmente l’arte moderna si stava diffondendo per il
mondo, inebriandolo di “cultura”.
In
questo scenario tutt’altro che positivo viveva un giovane uomo, Tom Higann,
onesto e, pertanto, quasi invisibile cittadino di Decline City.
Tom
era un tipo semplice e alla mano, come non se ne vedevano più in giro da
parecchio, e questo costituiva una motivazione sufficiente per chi lo conosceva
a definirlo un sempliciotto, anche se in realtà nessuno aveva mai parlato con
lui così a lungo da potergli affibbiare tale etichetta.
Già,
perché Tom era fondamentalmente un tipo solitario dal sorriso timido ed
impacciato, uno di quei ragazzi di cui difficilmente ci si accorge e la cui
presenza raramente fa la differenza. Nessuno si aspettava che egli nascondesse
un segreto o, almeno, non della portata di quello da lui celato.
Dietro
l’identità del giovane sempliciotto Tom occultava i possenti muscoli di Nothing
Man, eroe notturno saltato fuori dal nulla e, difatti, nel nulla rimasto, considerando
che nessuno si era mai accorto di lui neanche per sbaglio.
Tom
non se ne faceva una colpa, il caos mediatico costantemente in atto non
permetteva a gente come lui di essere notata, cosa poteva un ridicolo costume
da supereroe contro il fior fior della moda Decliniana? Eppure ogni notte Tom
spalancava la finestra e scrutava il mondo dietro la sua maschera verde acido
perché questo gli permetteva di sfuggire ai tentacoli appiccicosi di quel mondo
che, indipendentemente dalla sua volontà, pretendeva di cambiarlo.
Anche
quella notte, come molte altre, sfidando il crimine e la forza di gravità, si
gettò giù da una grondaia ed arrivò per strada con le mani piene di nuovi
tagli.
La
luna brillava alta, bellissima, illuminando le strade di quella città che solo
poche ore prima era stata violentata dal fragore dei clacson, ogni giorno più
forti, ogni giorno più violenti solo per coprire definitivamente il brusio di
pensieri che, solitario, tentava di non annegare nella viscosa melma della
globalizzazione. Le vie bagnate della città riflettevano i raggi di luna e Tom,
unica anima solitaria per le strade Decliniane, si sentì un po’ come una star su
un palcoscenico, sotto degli enormi riflettori e pronto per le luci della
ribalta.
Iniziò
a correre, non perché ci fosse un reale motivo per farlo, ma seguendo solo il
proprio istinto. Osservò le strade deserte di quella città alla quale non aveva
mai sentito di appartenere davvero, il volto della notte era straordinariamente
ipnotico per lui che ogni volta, come la prima, si stupiva di ogni minimo
dettaglio come solo un bambino sa fare.
Tom
amava i dettagli, li amava perché erano i reali fautori dell’identità di ogni
cosa. Modificavano l’aspetto della gente, delle cose, ne personalizzavano le
forme rendendole uniche, come poche note possono fare la differenza tra una
nenia stonata e l’inizio di una melodia.
Tom
si fermò. Capì perché sulla sua strada non aveva mai trovato nessuno da
salvare. Nessuno voleva essere salvato. Nessuno aveva la forza di chiedere
aiuto o, meglio, nessuno si rendeva conto di averne realmente bisogno. Opporsi
alle mode, alla globalizzazione e al mondo equivaleva a rimanere tagliato fuori
dalla comunità e, per tanto, era un’idea scartata a priori. Sacrificare se
stessi per il “bene comune” non era poi così male.
Il
cuore di Tom perse un battito, un lampo, un urlo squarciò la notte. Non era la
città, no, e neppure i suoi abitanti, era Tom. Tom che finalmente aveva capito,
Tom che improvvisamente si sentì solo.
Solo come i suoi amati dettagli, che ogni giorno divenivano sempre meno, uniformando sempre di più la gente che seguiva disperatamente dei modelli, quali essi fossero nessuno lo aveva ancora capito. Le differenze tra la gente diminuivano e, con esse, l’occasione di mettersi alla prova e crescere. L’occasione di costruire qualcosa che non fosse già stato premeditato da chi di dovere, l’occasione di staccarsi dal percorso segnato e di seguire il proprio, combattendo per la propria libertà e per l’eccitazione che si prova quando, correndo verso l’ignoto, si ha la certezza di sconfiggere le proprie paure sentendosi davvero un supereroe.
Solo come i suoi amati dettagli, che ogni giorno divenivano sempre meno, uniformando sempre di più la gente che seguiva disperatamente dei modelli, quali essi fossero nessuno lo aveva ancora capito. Le differenze tra la gente diminuivano e, con esse, l’occasione di mettersi alla prova e crescere. L’occasione di costruire qualcosa che non fosse già stato premeditato da chi di dovere, l’occasione di staccarsi dal percorso segnato e di seguire il proprio, combattendo per la propria libertà e per l’eccitazione che si prova quando, correndo verso l’ignoto, si ha la certezza di sconfiggere le proprie paure sentendosi davvero un supereroe.
Una
nuvola coprì la luna e la luce meccanica dei lampioni rivelò al giovane uomo il
vero volto di quella città a cui capì di dover dare una mano. Alzò lo sguardo,
i palazzi erano imponenti. Tutto era spropositatamente alto, esagerato, Tom non
si lasciò intimorire. Chiuse gli occhi e ricominciò a correre.
I
primi raggi di sole iniziarono a spuntare dando vita all’alba di un nuovo
giorno. Tom si ritrovò, per l’ennesima volta, ad osservare il mondo dall’alto
della sua finestra, al quarto piano del St. Luis Psychiatric Hospital. Si
stiracchiò, le braccia indolenzite agognavano qualche altro minuto tra le
coperte ma purtroppo per loro Tom aveva altri progetti. Voltò le spalle alla
finestra e si diresse verso lo specchio al centro della stanza, la sua
superficie liscia rifletteva il volto della città che iniziava a svegliarsi. Nell’angolo
a destra qualcosa catturò l’attenzione di Tom, un edificio, il più alto della
città, aveva qualcosa di strano.
Sulla
facciata principale si distinguevano chiaramente due parole, scritte con uno
sgargiante verde acido, BE YOURSELF.
Nothing
Man sorrise…
giovedì 23 agosto 2012
DISsud - Le foto 1
mercoledì 22 agosto 2012
RADICI: I culti cittadini a Reggio fra paganesimo e cristianità
- di Natale Zappalà (natalezappala.blogspot.it)
Il calendario del reggino brulica
ancora, all'inizio del III millennio dell'era volgare, di feste sacre ispirate
al sovvertimento della quotidianità tramite l'evasione momentanea dalle briglie
della routine.
Le ricorrenze religiose si
contraddistinguono spesso, sulle rive dello Stretto di Scilla in particolare e
nel Mezzogiorno in generale, nell'accostare ai già citati momenti di evasione
dall'ordinaria follia un aspetto, per così dire, “rituale”, costituito di
processioni più o meno lunghe, durante le quali la statua del patrono o della
matrona di turno viene recata in trionfo (occhio ai termini: il trionfo era la
sfilata del generale romano vittorioso, l'imperator, di ritorno
dall'impresa militare) per le vie del borgo o della città.
Molti antropologi o storici delle
religioni hanno opportunamente sottolineato l'innegabile somiglianza che lega
le feste patronali/matronali odierne e le antiche ricorrenze pagane. Si tratta
di similitudini evidenti soprattutto nel caso di Reggio, in merito a cui, le
fonti – gli scritti degli antichi autori, con l'ausilio della documentazione
epigrafica – hanno registrato l'esistenza di celebrazioni in onore ad Apollo,
Artemide, Atena e Dioniso. Non sono tuttavia pervenute informazioni dettagliate
relativamente all'una o all'altra festa, ma certamente in riferimento ai culti
poliadi – in onore alle divinità tutelari della città – si possono desumere
alcuni dati sostanziali.
A Reggio le divinità tutelari,
connesse a livello mitico alla fondazione stessa della polis, erano
Apollo ed Artemide. In occasione di una festa primaverile dedicata ad uno di
questi numi era solito esibirsi un coro di trentacinque giovani proveniente da
Messina, diretti da un maestro ed accompagnati da un flautista. Tale
ricorrenza, risalente quantomeno al V sec. a.C., univa simbolicamente le due
città dello Stretto, i cui destini politici, d'altronde, risultano spesso
intrecciati nel corso della loro storia, basti pensare alla rifondazione della città
peloritana (489/488 a.C.) ad opera del tiranno reggino Anassila.
Al medesimo contesto agonale –
dedicato ad Apollo Archegetes (“fondatore”) sulla scorta della
circostanziata tesi avanzata da Felice Costabile, docente di epigrafia e storia
del diritto romano presso l'Università “Mediterranea” di Reggio Calabria –
vengono ricondotti un rito di purificazione delle donne sposate, consistente
nell'esecuzione di canti corali (“peana”), al termine del quale venivano
raccolti dei ramoscelli d'alloro nella boscaglia intorno al tempio di Apollo
Minore – con buona probabilità identificabile nell'edificio cultuale di età
classica rinvenuto nel 1978 nell'area dell'odierna Rada Giunchi –, che venivano
poi trasportati in Ellade, al santuario di Delfi, sede del celebre Oracolo;
proprio il vaticinio della Pizia, tanto per chiudere il “cerchio rituale” della
memoria antica, aveva indicato a Calcidesi e Messeni provenienti dalla penisola
greca il sito in cui fondare Reggio, nell'ultimo quarto dell'VIII sec. a.C.
Se la lunga durata, sessanta
giorni, di queste presunte Apollinee induce ad ipotizzare una frequenza
pluriennale (magari quattro anni) della ricorrenza, altrettanto solenni
dovevano essere le Artemisie registrate dalla tradizione popolare
cristiana – nonché da molte iscrizioni di età ellenistica e romana – in
riferimento alla venuta di Paolo di Tarso a Reggio, e quindi alla
cristianizzazione della città. Dalle notizie pervenute in proposito si sa che
l'intera cittadinanza in giubilo si recava presso il promontorio Pallantion
– denominazione emblematica, quest'ultima, richiamante delle altre località
sacre ad Artemide, in Grecia e persino a Roma –, la medievale Punta Calamizzi,
vero e proprio simbolo ancestrale della regginità. Sul Pallantion, in
età protostorica, era perito il primo fondatore di Reggio, l'Eolide Giocasto,
morto in seguito al morso di un serpente velenoso ed oggetto di un culto eroico
in epoca classica. Spetterà poi ai Cristiani il compito di convertire in
positivo il ricordo del serpente omicida, edificando in loco la chiesa
di San Giorgio Drakoniaratis, cioè “del serpente”. Ammesso che l'arrivo
di Paolo, tradizionalmente immune, insieme ai suoi discendenti (i cosiddetti
“sanpaolari” del folklore meridionale) al veleno animale, non sia stato
localizzato sul Pallantion, una lingua di terra totalmente pervasa dal
ricordo ossessivo dei rettili, in maniera del tutto casuale.
Ricompattamento del corpo civico,
scansione del tempo e dei cicli stagionali, rottura degli schemi della
quotidianità, temporanea sovversione dell'ordine sociale con ampi spazi di
libertà garantiti alle componenti emarginate come donne, schiavi e meteci
(liberi-non cittadini ivi residenti per ragioni commerciali): questi, in
sintesi, i tratti salienti delle festività pagane di un tempo.
Che cosa è cambiato oggigiorno?
Le processioni cristiane non seguono forse il tracciato viario della città
antica, trasportando la statua del patrono/matrona dalla acropoli al santuario
extra-urbano? Non sono forse i sindaci, massime autorità cittadine al pari di
arconti e pritani del passato, a guidare, con l'ausilio dei sacerdoti, i
cortei? E non sono soprattutto i lavoratori, componenti emarginati della
società del Terzo Millennio dominata da banche, tasse e sprechi, a trarre
giovamento dal giorno di riposo accordatogli?
Poco è cambiato, fra religione,
ritualità e significati pragmatici di entrambe, nel trapasso plurimillenario
che separa Artemide dalla Madonna della Consolazione, ma certamente,
inquadrando i fattori di continuità e rottura che intercorrono fra ieri ed oggi
attraverso una prospettiva storicistica coerente e scientificamente fondata,
ciò che rimane – ed è già molto – sono le nostre radici.
LA LAMIA
- di
Giuseppe Delfino
Tra
i Greci di Calabria sopravvive (almeno fino a qualche anno fa) un
mito risalente addirittura all'antichità e che, attraverso i secoli
e nonostante la cristianizzazione (si sa che molte reminiscenze
pagane si son conservate come “sostrato”: basta vedere le ben
famose fusioni di cristianesimo e credenze indigene in America
Centrale e Meridionale), si è tramandato fino ai giorni nostri. Il
mito in questione è la Lamia: le
“lamie” dell'antichità greca erano figure in parte umane e in
parte animalesche e rapitrici di bambini, fantasmi seduttori che si
trasformavano in bellissime donne per adescare giovani uomini e
nutrirsi del loro sangue e della loro carne. Erano chiamate anche
“empuse”,
ma quest' ultime erano
figlie o ancelle di Ecate (dea delle streghe greca, ma di origine
pre-indoeuropea):
solo in un secondo momento i nomi divennero intercambiabili, e
passarono ad indicare generalmente le streghe e demoni (significato
che si ritrova anche nel Medioevo).
Il
mito racconta che Lamia era una bellissima regina della Libia, che
ebbe da Zeus il dono di levarsi gli occhi dalle orbite e rimetterli a
proprio piacere. Presto Zeus si innamorò di Lamia (è risaputo che
Zeus amava avere rapporti sessuali in continuazione con molte donne),
provocando la rabbia di Era , la moglie-sorella di Zeus, che si
vendicò uccidendo quasi tutti i figli che quest'ultimo ebbe da
Lamia. Era, secondo i Greci, era molto gelosa, e cercò spesso
vendetta contro i figli adulterini del re degli dei (Eracle, figlio
di quest'ultimo e di Alcmena, ne è l'esempio più lampante).
Lamia, lacerata dal dolore, iniziò a sfogarsi divorando i bambini delle altre madri, dei quali succhiava il sangue. Il suo comportamento innaturale fece in modo che la sua bellezza originaria si corrompesse, trasformandola in un essere di orribile aspetto capace, come detto, di mutare forma e apparire attraente per sedurre gli uomini, allo scopo di bere il loro sangue. Per questo motivo la lamia viene considerata una sorta di “vampiro” dell'antichità (assieme alle sopracitate “empuse” e alle “strigi” romane).
Lamia, lacerata dal dolore, iniziò a sfogarsi divorando i bambini delle altre madri, dei quali succhiava il sangue. Il suo comportamento innaturale fece in modo che la sua bellezza originaria si corrompesse, trasformandola in un essere di orribile aspetto capace, come detto, di mutare forma e apparire attraente per sedurre gli uomini, allo scopo di bere il loro sangue. Per questo motivo la lamia viene considerata una sorta di “vampiro” dell'antichità (assieme alle sopracitate “empuse” e alle “strigi” romane).
I
vampiri (o miti simili ad essi) fanno parte del folklore di molti
popoli della Terra, europei e non: possiamo citare, ad esempio, il
“nukekubi” del Giappone o il “mandurugo” dei Tagalog
(Filippine) . La Lamia è, come detto, un mito sopravvissuto presso i
greci calabresi e anche presso quelli della Grecia, ma le leggende
sui vampiri sono soprattutto di origine slava, il più famoso dei
quale è la βρυκολακα,
una
sorta di non-morto che si aggira per le case chiamando per nome le
vittime designate o bussando nelle case: può entrare nelle
abitazioni solo se invitato espressamente da chi vi si trova
all'interno e, quando accade, può ottenere le sue vittime. Nella
lingua greca moderna, il termine βρυκολακα
è
tradotto semplicemente con “vampiro”, estenendo così il suo
campo semantico a tutti i vampiri e affini compreso il più famoso di
tutti, il Conte Dracula (derivato dalla tradizione del romanzo gotico
inglese e ispirato al principe romeno Vlad III di Valacchia vissuto
nel XV secolo).
martedì 21 agosto 2012
lunedì 20 agosto 2012
LA CAPRA PER I GRECI DI CALABRIA
- di Giuseppe
Delfino
Il greco di Calabria possiede un gran numero di termini
inerenti il mondo agro-pastorale perché l'impoverimento della lingua
(ma anche degli abitanti stessi) avvenuto nel corso dei secoli ha
fatto sì che i termini preponderanti nella lingua siano stati quelli
“pragmatici” della vita quotidiana che i Greci di Calabria degli
ultimi secoli si son trovati a fronteggiare. Come sottolinea Gian
Luigi Beccaria, ne “Tra le pieghe delle parole – Lingua, storia,
cultura” (Einaudi, 2007), afferma che:
“Le lingue sono in
realtà tutte ben “formate”, nel senso che sono tutte adeguate
alla cultura che esprimono. Ogni distinzione importante per una
determinata cultura tende ad essere lessicalizzata dalla lingua che
appartiene a quella cultura. La ricchezza lessicale che ha un
montanaro o un eschimese per denominare i vari tipi di neve non
dipende da una maggiore capacità distintiva, ma da una diversa
esperienza ambientale. Le lingue di popolazioni che vivono a stretto
contatto con la natura e che si dedicano ad attività pratiche,
magari non saranno adatte alla speculazione filosofica come il greco
o il tedesco, ma abbondano per contro di parole per designare gli
oggetti e le specie viventi che popolano l'ambiente circostante”.
Un esempio importante è la “capra”. I pastori grecofoni
designano con diversi vocaboli ciò che in italiano è reso con una
parola sola; in greco di Calabria è presente il termine generale
“èga” che deriva dal greco antico αίγα, (cfr. “Egospotami”,
cioè il “Fiume della capra”, dove si svolse la battaglia
decisiva tra Spartani ed Ateniesi nel 404 a.C., nel corso della
Guerra del Peloponneso) ma anche altri più specifici : il prof.
Filippo Violi nel suo Vocabolario Grecanico – Italiano –
Grecanico (Apodiafazzi, Bova, 2007) registra molti significati,
specialmente in riferimento al colore del manto, tra cui:
“bàmpa”
(capra con la testa bianca);
“lagopò” (capra dal manto color
lepre);
“livanì” (capra dal manto color
incenso);
“sargopì” (capra dal manto nero e il muso bianco);
“barbarisca” (capra con la testa bianca);
“ortocera”
(capra con le corna dritte; parola composta da “ortò”, “dritto/
in piedi” (cfr. “ortodossia”), e “cèrato”,
“corno”);
“asamo” (capra senza marchio);
“gastra/
egùddha” (capra di due anni).
Questo perché in una società
agro-pastorale certe distinzioni sono fondamentali; la capra è un
elemento essenziale della pastorizia in Aspromonte, e perciò in
questo caso sono necessarie diverse sfumature semantiche. In altre
aree del mondo dove essa o non è diffusa o non lo è molto, certe
distinzioni non hanno bisogno d'essere. La sottofamiglia dei Caprini
è diffusa in Europa, Asia ed Africa: in lingue come il quechua, la
lingua degli Incas diffusa in Sud America, perciò, il termine
“capra” non esiste.
sabato 18 agosto 2012
Ridere, ridere, ridere ancora...
-
di Gianmarco Iaria
Alla
voce "Sarcasmo", nel mio buon vecchio Zingarelli del 2000 risponde il
significato di: "Ironia amara e pungente mossa da animosità verso qualcosa
o da personale amarezza [...]". Per quanto mi riguarda, il Sarcasmo è
un'arma di sopravvivenza; vedere la realtà, capirla, carpirne l'essenza deve
portare direttamente ad esso. Tutte le situazioni, in ogni tempo ed in ogni
luogo, che possono dirsi -umane, sono per definizione e per natura imperfette;
è possibile dunque riscontrare in ogni cosa aspetti positivi e aspetti negativi
(radice primaria, questa, del relativismo). L'imperfezione apre la via, a
chiunque abbia mente sveglia ed aperta, a cogliere la pluralità di elementi e
sfumature dell'esistenza terrena, materiale. Porta a vedere la proporzione fra
bene e male, fra Yin e Yang, che compone l'esperienza umana ed i suoi frutti;
la stessa percezione, che a noi pare completa, è anch'essa imperfetta e
limitata perché soggettiva. Individuale. Quindi, soggetta a possibili
integrazioni, correzioni, cancellature o aggiunte. L'istinto spesso coglie la
reale essenza della materialità, ma la mente fatica di più a dare una forma e
un nome alla molteplicità di oggetti percepiti; e fra questi, ve ne sono di
positivi e negativi.
Tuttavia,
se la tensione al miglioramento ed alla perfezione necessita una costante
analisi della realtà ed annovera come caratteristica principale il
riconoscimento della negatività, ridere, o meglio, sorridere in modo
disincantato di fronte ad essa fa in modo di evitare la palude dell'immobilismo,
l'oblio dell'incapacità di migliorarsi dovuta dalla stessa consapevolezza della
negatività. Rendersi giullari, ridere di fronte alla mediocrità del male è il
primo passo verso l'infinita lotta all'infinita imperfezione. Verso il
riconoscimento di quanto sempre migliore ci sia.
Dopotutto,
una risata ci seppellirà!
venerdì 10 agosto 2012
Impensabile
- di Saso Bellantone
"La realtà è quell'ente eternamente soggetto a innumerabili interpretazioni, che riesce sempre a dimostrarsi semplicemente impensabile".
martedì 7 agosto 2012
I giardinieri del pensiero
"L'ignoranza cresce sempre rapidamente come l'edera; per questo motivo, nascono sempre giardinieri che la potano pazientemente".
domenica 5 agosto 2012
Fatalità
"Così come il cemento non può vincere la natura, allo stesso modo la morte non può trionfare sulla vita".
sabato 4 agosto 2012
Versieri: NOTTE di Hermann Hesse
-
di Saso Bellantone
Ho spento il lume; la finestra aperta
ora la notte nel suo flutto bagna,
mi abbraccia mite come una sorella
e come una compagna.
Eguale nostalgia ci ammala e sogni
che sembrano presagi: con alterna
voce parliamo degli antichi giorni
nella casa paterna.
È
notte. Nulla è più chiaro, anzi più buio della notte. Non è più giorno, non c’è
più luce, niente ha chiarezza fuorché il fatto che sia notte e che, in essa,
sia buio. Buio del tempo, del lavoro o dell’ozio. Buio del calcolo, dei bisogni
e delle aspirazioni. Buio delle relazioni: sociali, affettive, economiche,
intellettuali, di apparenza o di convenienza. Buio delle difficoltà: imprenditoriali,
operaie, casalinghe, statali, fiscali, genitoriali, morali, fisiche e
fisiologiche. Buio delle sensazioni, delle emozioni e anche delle parole.
Quando è notte, la lotta per la sopravvivenza trova la sua fermata. Il tutto
trattiene il fiato ed ecco che, come abbandonandosi a uno stato di sospensione
mai voluto e sempre desiderato, accade il resto. Preciso, necessario, quasi
come inevitabile.
Spegnendo
la fioca luce della abat-jour della propria camera, è come disattivare la
propria mente, scintilla del corpo. Guardando oltre la finestra, è come
scrutare al di là di se stessi. Scorgere le maree del buio che, docili, cominciano
a bagnare la finestra per entrare dentro la nostra camera, è come avvistare il
flutto di un enigma che inumidisce i nostri occhi immateriali e la nostra
stessa carne, e ci travolge con l’affetto del nostro stesso sangue e l’amore
della persona amata.
È
qui, in questo momento senza tempo e in questo luogo senza spazio, che si
sperimenta quel che sfugge quando è ancora giorno e tutto è chiaro: il
pensiero. Qui, si brama ardentemente il passato, qui si vive il futuro come
fosse una profezia. Qui, una volta ciascuno, si discute con la notte e con l’enigma
a proposito del senso dell’esistenza, dell’origine del tutto e anche di noi
stessi.
Nella
poesia Notte, Hermann Hesse dice a
ognuno di noi, metaforicamente, quanto è importante la notte con il suo buio e
il niente con i suoi segreti. Noi fuggiamo entrambi e li impegniamo,
impegnandoci, facendo nulla oppure riempiendoli nella stessa maniera nella
quale viviamo il giorno e il tutto. Secondo Hesse questa, la continuità, non è
la soluzione migliore. l’essere umano ha bisogno della discontinuità, della
frattura, del bisogno di intendere la notte in quanto notte e il niente in
quanto niente. L’essere umano necessita del pensiero, dell’inatteso, dell’impossibile
perché, forse, soltanto ciò avviene è davvero giorno, è davvero il tutto e,
forse, si è davvero se stessi.
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