- di Saso Bellantone
Al tempo di Aristotele (Stagira
384/3 a.C – Calcide 322 a.C.) la filosofia è già una disciplina insegnata
nell’Accademia, la scuola fondata da Platone che Aristotele frequenta al
partire dal 367. Mentre in età giovanile Platone scrive opere poetiche e si
avvicina alla filosofia per mezzo di Socrate, Aristotele scrive sin da giovane
delle opere filosofiche, giunte a noi in forma frammentaria. Dai pochi frammenti
pervenutici, è possibile tuttavia trarre alcune informazioni sul pensiero
aristotelico di questo periodo, nelle quali s’intravedono già i presupposti
della riflessione matura del filosofo stagirita. Per esempio, nel Grillo, Aristotele critica la retorica considerandola
un mezzo per agire sugli affetti e, durante un corso tenuto in Accademia su
questo argomento, per via del successo dello scritto, Aristotele sostiene che
la retorica deve essere fondata sulla dialettica. Nel trattato Sulle idee Aristotele dichiara la sua
difficoltà a comprendere il rapporto tra idee e cose, criticando la teoria
della mixis eudossiana e la teoria
platonica della separazione. Del trattato Sul
Bene è rimasto qualche frammento ed è impossibile comprendere in quale
maniera Aristotele ha affrontato tale argomento. Alcuni pensano sia sviscerato
in maniera simile a quella contenuta nella Metafisica,
dove Aristotele critica Platone e i Pitagorici per non aver chiarito il
significato di partecipazione e di imitazione delle idee, ragion per cui
Platone ha introdotto due principi, l’essenza, l’Uno, identificato con il Bene
(principio formale), e la Diade, cioè il grande il piccolo (principio
materiale), ma sono soltanto supposizioni. Nell’Eudemo o Sull’anima,
dedicato al compagno omonimo morto in guerra, Aristotele sostiene la tesi
dell’immortalità dell’anima razionale. Alcuni riconoscono in ciò un’adesione al
platonismo, altri invece la negano, giustificando la tesi dell’opera in
relazione alla morte dell’amico. Nel Protreptico o Esortazione
alla filosofia (conosciuto per le diverse citazioni contenute nell’omonimo
scritto di Giamblico), Aristotele sostiene la divisione dell’essere umano in
anima e corpo e afferma che la filosofia è il bene più grande, in quanto,
diversamente dalle altre scienze che hanno come scopo qualcosa di diverso da
sé, essa tende a se stessa. Nel De
philosophia, diviso in tre libri, Aristotele definisce la filosofia
conoscenza dei principi della realtà (libro primo); critica la teoria platonica
delle idee e delle idee numeri (libro secondo); espone la propria teologia,
considerando Dio necessario e immutabile, puro pensiero (libro terzo). Insomma,
sin dalle opere giovanili è possibile desumere due certezze: la filosofia è
ormai una realtà – tant’è che nel Protreptico
Aristotele afferma il celebre aforisma “chi pensa sia necessario filosofare,
deve filosofare e chi pensa che non si debba filosofare, deve filosofare per
dimostrare che non si deve filosofare; dunque si deve filosofare in ogni caso o
andarsene di qui, dando l'addio alla vita, poiché tutte le altre cose sembrano
essere solo chiacchiere e vaniloquio” –; ad Aristotele non va a genio la teoria
delle idee (dualismo) e, quindi, la definizione platonica della filosofia. Non
a caso, la tradizione ha nominato Platone “il filosofo della trascendenza” e
Aristotele “il filosofo dell’immanenza”. Con Aristotele, infatti, appare una differente
interpretazione del termine filosofia.
Aristotele vuole individuare un
principio eterno e immutabile per spiegare il divenire. Diversamente da
Platone, che scorge tale principio nel mondo delle idee, Aristotele pensa che gli
enti mutino secondo schemi e regole fisse connaturati. La filosofia deve
innanzitutto declinarsi nel senso di una scienza
delle cause prime, allo scopo di indagare e scoprire le cause secondo le
quali un ente perviene a determinate forme e non ad altre. Le cause mediante le
quali un ente passa da una forma a un’altra, secondo Aristotele, sono quattro: formale (qualità dell’ente); materiale (materia di cui l’ente è
costituito); efficiente (l’agente che
attiva il mutamento); finale (scopo
per cui un ente esiste). Configurandosi alla maniera di una scienza delle
cause, la filosofia consente non soltanto di indagare le cause del mutamento
degli enti ma anche di affrontare in maniera organica e razionale il problema posto
da Parmenide: quello dell’Essere e delle sue possibili determinazioni. Dicendo
che l’Essere è e non può non essere, secondo
Aristotele, Parmenide non ha chiarito che
cosa appunto è l’Essere. Lasciandolo senza determinazioni, si corre il
pericolo di confonderlo con il non-essere. Per questo motivo, Aristotele si
pone il compito di determinare l’Essere parmenideo e, a tal fine, concepisce la
filosofia non soltanto come una scienza delle cause prime ma anche come una scienza dei principi primi, scienza dell’Essere in quanto tale (ontologia).
Nel definire la propria filosofia
prima, l’ontologia, Aristotele introduce due concetti-chiave: quello di sostanza e di ente. Lo scopo dell’ontologia è di indagare sia l’una sia l’altro.
La sostanza può essere sia prima sia seconda: la prima, consiste in ciò che è
in sé e per sé, in ciò che per essere non ha bisogno di esistere; la seconda,
consta di una serie di sostantivi generici che specificano meglio la sostanza
prima, consentendo di rispondere alla domanda “che cos’è”. Prescindendo
tuttavia dall’aspetto materiale, ogni ente esprime secondo Aristotele l’essenza, vale a dire la sostanza prima,
l’essere. Mentre con il termine Essere Aristotele intende ciò che è in
sé e per sé, uno e immutabile, con il termine ente giudica tutto ciò che è, che esiste ed è soggetto alla
molteplicità e al divenire. Con il concetto di ente, Aristotele tenta di
conciliare l’Essere parmenideo con il divenire eracliteo. L’ente è, secondo
Aristotele, un sinolo indivisibile di
materia e forma. Ogni ente è governato da una entelechia, da una ragione interna che ne regola il mutamento
secondo leggi e schemi fissi, le quali consentono di attuare le possibilità che
ogni ente ha in seno. Oltre a quello di sostanza, Aristotele introduce altri
nove concetti o categorie, mediante i
quali è possibile classificare gli enti – quantità,
qualità, dove, quando, relazione, agire, subire, avere, giacere – e che
tuttavia hanno senso soltanto se riferiti al concetto di sostanza. Secondo
Aristotele si può avere una conoscenza valida e universale soltanto
dell’Essere, di ciò che è stabile e immutabile mentre gli enti, che divengono e
sono soggetti al mutamenti, non sono conoscibili. Per farlo, occorre sempre
riferirsi all’Essere.
Pur essendo generato dalle
quattro cause, se si risale a ritroso il movimento si giunge a un punto che lo
alimenta: Dio (l’ontologia si risolve nella teologia). Dio è il motore immobile
e la meta ultima del movimento del tutto, perché è causa incausata, atto puro. Mentre negli enti l’essenza è qualcosa
di potenziale, nel motore immobile è esclusivamente tradotta in atto. Tutti gli
enti, secondo Aristotele, sono attratti dalla forza d’attrazione di questo motore
immobile, da questa sostanza pura, pura necessità senza possibilità, nella
quale tutto è assolutamente compiuto, senza divenire alcuno né difetti
materiali. La conoscenza, secondo Aristotele, mira in un’ultima istanza a questo
motore primo.
Aristotele pensa vi siano diversi
gradi della conoscenza ma, ai suoi occhi, tutto parte dall’esperienza
sensibile. L’essere umano non possiede idee innate ma soltanto alcune capacità:
quella di cogliere l’essenza in atto negli enti, andando oltre il loro apparire
specifico; quella di organizzare le conoscenze. Come avviene dunque la
conoscenza secondo Aristotele?
La conoscenza aristotelica è di
tipo induttivo, cioè astrae l’universale dal particolare. Il punto di partenza,
dunque, è la sensazione delle cose particolari. L’intelletto è potenzialmente
capace di astrarre l’essenza in atto, l’universale dall’ente particolare ma per
farlo necessita di una qualche realtà, di un lato di sé già in atto nello
scorgere l’essenza (forma). Questo versante attivo dell’intelletto è
l’intuizione intellettuale (nous), la capacità da parte della mente umana di
pensare se stessa (consapevolezza) e di decidere autonomamente (libertà). Questa
forma di conoscenza, di tipo contemplativo, conduce a una corrispondenza tra
realtà e intelletto.
Aristotele non si ferma alla
conoscenza noetica riguardante cioè la verità degli enti, ma si occupa di altre
questioni come la biologia, l’astronomia, la logica, la dialettica, il linguaggio
(che per il momento non ci interessano), l’etica. Coerentemente con la sua
ontologia, Aristotele pensa che la condotta migliore per poter vivere
un’esistenza felice è quella di realizzare la propria essenza. L’essere umano
può realizzare se stesso mediante tre forme di vita: edonistica (cura del corpo), politica
(rapporto sociale con gli altri) e teoretica
(conoscenza contemplativa della verità), quest’ultima, naturalmente, è al di
sopra delle altre. Questi stili di vita devono integrarsi tra loro, perché
l’anima umana è contraddistinta da tre volti che devono essere appagati: anima vegetativa, comune alle piante e
agli animali (attiene ai processi nutritivi e riproduttivi); anima animale, comune agli animali (riguarda
le passioni e i desideri); anima
razionale, esclusiva dell’essere umano (esercizio dell’intelletto). Mentre
lo scopo dell’anima vegetativa è nella ricerca del piacere e della salute, quello
dell’anima animale di dominare le passioni mediante l’esercizio della ragione e
la ricerca del giusto mezzo, dalla quale scaturiscono le virtù etiche
(coraggio, temperanza, liberalità, magnificenza, magnanimità, mansuetudine). Ma
dal momento che l’essere umano è un animale sociale, deve guidare in modo
equilibrato i rapporti con gli altri, sulla base del riconoscimento degli onori
e del prestigio scaturenti dall’esercizio delle cariche pubbliche, e mediante l’uso
della virtù della giustizia che riassume tutte le altre virtù. All’anima
razionale toccano secondo Aristotele le virtù dianoetiche, suddivise in
calcolative e scientifiche. Lo scopo dell’anima razionale è la creazione di
strumenti in vista di qualcos’altro (tèchne); l’uso della saggezza per guidare
le virtù etiche e l’azione politica (phrònesis) e far sì che qualsiasi forma di
Stato, la monarchia, l’aristocrazia o la democrazia, non degeneri in tirannia,
oligarchia, oclocrazia; la conoscenza disinteressata della verità (sophìa). Al
raggiungimento di quest’ultima collaborano la scienza (epistème), la capacità
di compiere dimostrazioni, e l’intelligenza (nous) che fornisce i principi
primi da cui scaturiscono quelle dimostrazioni.
La conoscenza, secondo
Aristotele, è uno “stile di vita” slegato da ogni finalità pratica cui tutti
gli uomini tendono ma realizzata soltanto i filosofi (come Platone) perché non
ha nessuna finalità pratica. I filosofi dunque generano un sapere inutile ma
proprio per questo motivo tale sapere è secondo Aristotele assolutamente
libero. La felicità (eudamonìa) consiste secondo Aristotele nella
contemplazione della verità, elemento cardine che distingue l’essere umano
dagli animali e lo rende simile a Dio, atto puro, pensiero di pensiero, pura
riflessione autosufficiente che ricerca esclusivamente se stesso.