- di Saso
Bellantone
Non vi
sarà mai cosa che non sia
una nube.
Lo son le cattedrali
di vasta
pietra e bibliche vetrate
che il
tempo spianerà. Lo è l'Odissea,
che cambia
come il mare. Se la riapri
sempre
cambia qualcosa. Anche il riflesso
del tuo
viso è già un altro nello specchio
ed il
giorno è un dubbioso labirinto.
Siamo chi
se ne va. La numerosa
nuvola che
si disfa all'occidente
è nostra
effigie. Incessamente
la rosa si
tramuta in altra rosa.
Sei
nuvola, sei mare, sei l'oblio.
Sei anche
tutto quello che hai smarrito.
“Chi
sono?”. Quante volte ci si pone tale interrogativo... Quante volte
se ne esce sconfitti, privi, di una risposta capace di dare senso e
definizione al nostro essere e all'esistenza intera... Sempre. Come
una campana di vetro precipitata improvvisamente dal cielo, questa
domanda ci disorienta, ci isola, lasciandoci in balia di un rompicapo
che sembra quasi una condanna. La domanda è crudele, spietata,
soffocante, mortale. Vorremmo spezzare la parete trasparente che ci
ingabbia con essa e fuggire via, sparire. Vorremmo correre lontano da
essa, seminarla e tornare alla piatta quotidianità, coscienti di
consumarci in maniera tragicamente dolce e dolcemente fatale. Ma
anche se ci siamo riusciti, ecco la calotta di cristallo piombare
nuovamente su di noi, infliggendoci la pena peggiore: la domanda
sulla nostra identità.
Pur fuggendo in capo al mondo o, potendolo fare, in altre dimensioni,
la domanda ci perseguita come predatore bracca la propria preda. Non
c'è scampo: continuando la fuga, la si ritrova ancora al proprio
fianco come un'ombra. La propria.
Quando però la follia è ormai di casa, quando ci si accorge che non
c'è tempo e modo alcuno per scansare l'interrogativo che ci
tormenta, ecco che si trova la forza di arrestarsi, il coraggio di
isolarsi e la determinazione di affrontare faccia a faccia
l'implacabile nemico che continua a pedinarci. E allora la semplicità
della soluzione, della risposta, sfiora l'inimmaginabile: “Sono
tempo”.
Nella poesia Nubi (I), Jorge Luis Borges sottolinea come
l'essenza di ognuno, e dell'esistente intero, sia principalmente il
tempo, la scadenza, il conto alla rovescia, la mortalità. Si è
transitori, passeggeri, provvisori, instabili. Tutto è fragile,
insicuro, effimero come una nube: le cattedrali, l'Odissea, il
riflesso del viso della persona amata, il giorno, una rosa. Tutto
cambia, muta e si tramuta. Siamo tempo, e siamo anche assenza, tempo
cioè delle persone e degli enti spariti, trapassati, deceduti, o
smarriti. Sia avendone memoria, sia obliandola. Siamo temporalità,
divenire, fluire, diversificazione continua, andare e... non tornare
più. Mai più. Come la nuvola che si disfa all'occidente, come
l'onda del mare che s'infrange sulla battigia o sulla scogliera, come
la dimenticanza stessa, siamo privi d'identità. Non somigliamo mai a
quel che siamo stati un attimo prima né somiglieremo a quel che
saremo nell'attimo a venire. Siamo la trasformazione stessa, la
trasfigurazione continua fino alla morte.
Consapevoli dell'atroce indole che ci accomuna all'intero esistente,
non rimane che decidere, finché ci è concesso, in che modo passare
il tempo restante che si è, nella continua metamorfosi cui si è
soggetti che conduce alla fine. Alcuni ripudiano tale destino,
scagliandosi contro un ente supremo e creatore; altri lo accettano
giustificandolo speranzosi all'interno di una cornice ultraterrena o
di un circuito uguale o simile al samsara. Altri ancora, cominciano a
pensare che se c'è bellezza in tutto ciò che muta e svanisce – in
una cattedrale, nell'Odissea, nel viso della persona amata, nel
giorno, in una rosa, in una nuvola, nel mare, nell'oblio,
nell'assenza di una persona cara o in tutte le cose che abbiamo
smarrito – dev'esserci una bellezza anche in loro. E allora tutto
cambia.
Per quanto sia triste, c'è bellezza nella trasformazione continua,
nella mortalità.