- di Saso Bellantone
L’incontro tra il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama e il Dalai Lama si terrà il 18 febbraio alla Casa Bianca. Già nei giorni scorsi la Cina si era opposta fortemente all’incontro, intimando Obama che in questo modo avrebbe “messo a rischio” i rapporti tra Washington e Pechino, relazioni già in crisi per via della libertà di accesso a internet e della vendita di armi a Taiwan da parte del governo americano. Sembra assurdo, eppure minacciando gli Stati Uniti d’interrompere i rapporti diplomatici, la Cina si mostra disposta a intraprendere un cammino di decisioni convertibili, da un momento all’altro, in un conflitto armato. Che ne sarà del resto del pianeta, se i due titani del XXI° secolo dovessero scontrarsi militarmente? Perché tanto attrito per un solo uomo?
Il Dalai Lama incarna la storia remota e recente del popolo e della terra tibetani. In questo senso, incontrare la massima autorità del Buddismo tibetano significa far scorrere indietro le pagine del grande libro della storia delle civiltà umane e ricordare ciò che il silenzio del mondo e che le continue intimidazioni cinesi vogliono cancellare: l’invasione del Tibet ad opera della Repubblica Popolare Cinese, avvenuta nel 1949-1950.
Situato sull’omonimo altopiano, il Tibet ha una storia travagliata. Mongoli, cinesi e popolazioni limitrofe si contesero questa regione per molti anni, ma nessuno impedì ai monaci di praticare la propria religione, introdotta agli inizi del VII secolo: il Buddismo. Tra il 1670 e il 1750 il Tibet fu incorporato alla Cina e divenne uno dei principali teatri di battaglia tra Occidente e Oriente, rappresentati dall’Impero Britannico e quello Cinese. Dopo anni di conflitto, nel 1904 il Regno Unito riuscì a invadere il Tibet e a costringere il Dalai Lama a rifugiare in Mongolia: era la prima volta dal lontano 1391 – anno di nascita del primo Dalai Lama, Gedun Khapa – che la massima autorità religiosa lasciava quella regione; ma accadde un’altra volta e, questa, fu l’ultima. Con il crollo dell’Impero Cinese, nel 1912, assieme a Xinjiang e Mongolia, il Tibet dichiarò la propria indipendenza dalla Cina e il Dalai Lama tornò a Lhasa, capitale tibetana, ma morì nel 1933. Nel 1940 Tenzin Gyatzo fu nominato XIV Dalai Lama e raccontò che, in una visione profetica, un Dalai Lama del passato gli disse: “quando l’uccello di ferro volerà, verrà l’uomo e la distruzione”.
Così accadde. Il 1° ottobre del 1949 Mao Zedong proclamò a Pechino la nascita della Repubblica Popolare Cinese. L’anno dopo conquistò nuovamente il Tibet: all’inizio, le autorità cinesi non interferirono con il governo tibetano; in seguito, per via delle violenze, dei maltrattamenti e delle uccisioni ingiustificate dei propri fratelli ad opera dei militari cinesi, i monaci si ribellarono e il Dalai Lama fu costretto a fuggire e a rifugiare in India e nello Sri Lanka. Nel 1964 la Cina nominò formalmente il Tibet una “provincia autonoma della Cina”, per calmare le acque a livello internazionale. Da allora, il Dalai Lama è ancora in esilio; i monaci subiscono una repressione dietro l’altra – come ad esempio quelle trasmesse recentemente dall’emittenti televisive di tutto il mondo – e la comunità internazionale si mostra disinteressata nei confronti della questione tibetana. Tre anni fa, l’Ue afferma di dare appunto 3 anni di scadenza alla Cina per rivedere la propria posizione al riguardo, passati i quali, oggi, non si fa ancora niente.
Naturalmente, la questione tibetana è delicata e un possibile conflitto tra Stati Uniti e Cina è da evitare. C’è da chiedersi, però: perché il Dalai Lama non può discutere di questa situazione con personaggi politici del calibro di Obama? Di che cosa ha paura la Cina ? Di perdere il Tibet? E in quale maniera se n’è impossessato? Ma è solo una questione politica? Non è stata la Cina a distruggere tutti i templi buddisti nel periodo della rivoluzione culturale? Non ha forse dichiarato che il prossimo Dalai Lama sarà eletto dal Panchen Lama (secondo capo spirituale buddista) di Pechino?
È chiaro a tutti che la Cina , usando le proprie forze militari, vuole ampliare il proprio territorio per trasformarsi negli “Stati Uniti Cinesi”. Dopo il Tibet, toccherà alla Mongolia, poi a Taiwan, al Butan, al Bangladesh, all’India, al Nepal e via via fino al Medio Oriente. La questione tibetana è importante ed è lo strumento col quale la Cina misura l’Occidente: se quest’ultimo non farà nulla, la Cina interpreterà questo menefreghismo nel senso di un’autorizzazione ufficiale a espandersi con l’uso della violenza. Ammesso che il Tibet resti nelle mani della Cina, c’è da chiedersi: perché usare tutta questa ferocia nei confronti dei monaci tibetani? Perché imporre che l’elezione del prossimo Dalai Lama sia svolta dal Panchen Lama pechinese, che nulla ha a che vedere con il buddismo tibetano?
L’incontro tra Obama e il Dalai Lama è un esempio che molti altri presidenti, religiosi e politici dovrebbero seguire. Questo non vuol dire, naturalmente, che in questi anni nessun altro nel mondo ha incontrato il Dalai Lama: ad esempio, a livello internazionale spiccano i nomi di Sarkozy, della Merkel, di Bush; in Italia, il premio nobel per la pace Tenzin Gyatso è stato ricevuto recentemente dal cardinale Tettamanzi, da Fini, dai sindaci Alemanno e Cacciari – che gli hanno conferito, rispettivamente, la cittadinanza onoraria a Roma e a Venezia, mentre la Cina ha commentato: “Offeso il nostro popolo”. Molti, però, si sono rifiutati di farlo, tra cui le massime cariche dello Stato Italiano e Vaticano.
Si spera che, dopo il 18 febbraio, altri leader politici trovino il coraggio d’incontrare il Dalai Lama e di opporsi con la forza della pace, della diplomazia e del dialogo – che, molto probabilmente, devono imparare dal Dalai Lama e da chi ha avuto il fegato d’incontrarlo – al genocidio etnico, culturale e religioso che la Cina opera da parecchi anni contro i tibetani.