"È facile restare nell'oscura sicurezza
della notte; arduo, invece, è ricercare l'alba tra le ignote briciole di
bagliori fuggenti".
IN QUESTO BLOG NON SI PUBBLICANO COMMENTI ANONIMI.
mercoledì 22 giugno 2016
Elementare ed impervia l'opzione
- di Saso Bellantone
venerdì 10 giugno 2016
L'ARTE PERIFERICA: intervista a Carmelo Morabito, voce dei Southern Gentlemen League
Carmelo Morabito (Scilla, 1986) inizia la sua crescita artistica suonando in diverse band (Travelling Blues Band, the Xero, New Seekers, Bad Radio, the Experienced, The Unkown Pleasures, The Black Seeds) perfezionando la conoscenza dello strumento e cercando di racchiudere nei repertori di queste band tutti i brani lo appassionano.
Partecipando anche “come cantante” ad un seminario di Bred Garsed, le sensazioni provate suonando con un artista di grande fama, lo convincono a prendere il “fatto di fare il musicista nella vita” seriamente.
Nel giorno del suo 18° compleanno, riceve in regalo dai suoi genitori, per la terza volta nella sua vita, una chitarra, la sua prima Fender Stratocaster, per la quale non smette mai di ringraziarli. In seguito viene colpito da una malattia, fortunatamente superata, ma proprio quel periodo fa scattare il lui la voglia ed il bisogno di scrivere testi e di comporre musica. Così, con gli stessi componenti dei The Xero, forma gli Alcoholic Water con i quali pubblica anche un disco, “To Love Again”, con un'etichetta indipendente. Un album di 10 brani inediti che raccontano delle paure, emozioni e ostacoli affrontati durante la fase di cura della malattia. Con loro per diversi anni fa innumerevoli concerti al sud dell'Italia, cambiando molte volte formazione finché al basso arriva Mirko Rizzo e, con lui, il salto di qualità.
Con Mirko sviluppa un'affinità nel comporre nuovi brani mai avuta prima con altri ed in pochissimo tempo i due arrivano a suonare nella capitale e, addirittura, a fare un tour di tre date in Inghilterra, passando per Londra, Brighton e Kingstone.
Al rientro, l'abbandono della band da parte dell'ennesimo batterista fa finire definitivamente nel cassetto dei ricordi gli Alcoholic e, quindi, l’unico progetto di inediti mai avuto prima. Ma mai dire mai. Nella vita, si sa, le cose belle nascono come se le potentissime forze della natura facciano in modo che accadano. Vincenzo Tropepe (carissimo amico) propone loro di formare una band Southern Rock ispirata agli Allman Brothers, Black Crowes e altri e così i due decidono di inserire nel nuovo progetto gli inediti non registrati degli Alcoholic Water, rivisitandoli in chiave Southern Rock.
Con i SGL, definiti da Carmelo grandi persone e grandi musicisti, comincia nel proprio piccolo a realizzare i sogni in cui crede da sempre. Assieme agli SGL, Carmelo è impegnato da due anni in diversi Tour tra Italia, Europa e Stati Uniti. In questi ultimi, precisamente ad Atlanta (Georgia), Carmelo e gli SGL hanno fatto il mixaggio e mastering del loro primo disco: “My world in the Other Hand”.
Come ti sei avvicinato alla musica?
Il primo approccio alla chitarra è stato all’età di 7 anni, grazie a mio padre e a mia madre: mi regalorono una chitarra classica e mi iscrissero ad una scuola privata per lo studio della musica e dello strumento.
A circa 11 anni, presi in mano la mia prima chitarra elettrica, una Yamaha ERG121 ed iniziai a scoprire, tramite l'ascolto di un infinità di dischi, il bellissimo mondo del Blues e del Rock’n Roll, quello vero. Per citare alcuni artisti, BB king, Muddy waters, Elmore James,Willie Dixon, come anche, Led Zeppelin, Jimi Hendrix, Allman Brothers, Pink Floyd, Black Crowes e tanti altri ancora il cui numero è talmente grande che non basterebbe un libro intero per citarli tutti.
Che cos'è la musica?
La musica, come tutte le altre forme di arte, è innanzitutto l'espressione più profonda dell'anima dell'artista. È una magia. Rispecchia nel modo più sincero e diretto la vera personalità del musicista; il suo vero essere. Ma è anche un amore indescrivibile, di quelli che quando ti entrano nel cuore, non ti lasceranno mai più.
Cosa pensi riguardo al senso, allo scopo e agli usi della musica, sia a livello individuale sia sociale, nel mondo contemporaneo?
Se devo dare un senso a questa bellissima forma d'arte, sicuramente mi viene da pensare al bisogno di ogni singolo individuo di chiudersi nella propria dimensione. Là dove nessuno può ostacolare i tuoi pensieri. La musica ti distacca dalla monotonia quotidiana, da qualsiasi forma di delusione e riesce sempre a trasmetterti le sensazioni giuste per trovare la via della felicità. Il senso della musica è il bisogno di ognuno di noi di essere liberi.
Credo anche che la musica abbia l'impressionante potere di essere utilizzata per qualsiasi scopo, anche per diffondere la pace nel mondo.
Sono certo che se si riuscisse a debellare tutto l'odio che l'essere umano ha sviluppato dentro di sé, tutte queste guerre tra popolazioni di religione diversa, di fazioni politiche contrastanti o di differenti interessi sia economici sia territoriali, il nostro pianeta diventerebbe il posto più bello dell’universo intero. E quest'odio, lo si può scacciare anche attraverso questa forma d’arte che sì, è astratta, ma se la si fa percepire nel modo giusto può diventare un'arma potentissima contro qualsiasi forma di male.
I Greci impiegavano il termine “poiein” per significare “creazione”. Poi questa parola, nel corso del tempo, si è trasformata di linguaggio in linguaggio, fino a diventare in italiano per esempio, la parola “poesia”. Quando un poeta comunica se stesso, cioè scrive una poesia, è un creatore di mondi, riproduce il mondo, crea nel senso pieno della parola. Puoi definire la tua musica “poesia”, opera d'arte, creazione nel senso pieno del termine?
Ovviamente sì. La musica e la poesia secondo me camminano di pari passo. Sono come due sorelle esteticamente diverse ma con la stessa madre.
Un poeta, quando scrive ed è ispirato, non fa altro che esternare le proprie emozioni su un foglio di carta attraverso il suo strumento, la penna. Se ci si pensa attentamente, non è diverso da quello che fa un musicista nella stessa situazione. Cambia solo lo strumento.
Perché suoni? Perché senti l'esigenza di comunicare mediante l'arte della musica?
A questa domanda purtroppo, non riesco a dare una risposta che rispecchi a pieno il perché di questa mia esigenza. Posso dire solo che scrivere musica ed esprimermi attraverso la mia chitarra, mi porta in una dimensione mentale e spirituale che mi dà la possibilità di esternare le emozioni più profonde che tengo inconsciamente dentro di me, che altrimenti a voce o in qualsiasi altro modo non riuscirei mai a comunicare.
Che cosa racconti con la tua musica?
Un musicista come qualsiasi altro tipo di artista, che sia pittore, poeta, scultore, eccetera, crea dei metodi personali per riuscire ad arrivare al proprio scopo, cioè finire la propria opera.
Io scrivo sempre qualsiasi cosa mi viene da scrivere, in qualsiasi momento mi sento ispirato. Una volta mi portavo dietro sempre un taccuino ed una penna per poter assolvere a questa mia esigenza nei momenti inaspettati della giornata, per poi mettere insieme le parti che più si adattavano per la conclusione di un testo di una canzone. Adesso, dato che il mondo e la tecnologia vanno avanti, prendo nota con il mio cellulare. Ma va bene così, il risultato è sempre quello alla fine. In un secondo momento, aggiungo tutta la parte riguardante il background musicale del brano e non nascondo il fatto che questo mi viene anche molto facile. Detto questo, concludo dicendo che la mia musica, racconta della mia vita vissuta giorno per giorno.
Un musicista può sentirsi tale senza i gli ascoltatori?
Sì, penso di sì, ma fino ad un certo punto, perché un artista, per dare un senso al proprio lavoro, deve per forza di cose sottoporsi al giudizio ed alla condivisione dei propri lavori ad altre persone. La musica senza gli ascoltatori non avrebbe senso.
Che cosa significa oggi vivere come un musicista e vivere esclusivamente della propria musica? Quali sacrifici comporta accettare questo incarico, questa missione?
Sicuramente di questi tempi la vita di un musicista è molto ardua a livello sia economico sia affettivo. Per un musicista è quasi impossibile avere una vita stabile. La tecnologia ha sconvolto il mercato discografico, quindi, di dischi se ne vendono ben pochi. Siamo costretti a stare sempre fuori casa per fare tour e concerti perché è l'unica forma di sostentamento economico sicura. Ormai viviamo da nomadi e questo comporta i suoi svantaggi.
Devo anche dire, però, che tutto ciò comporta anche molti aspetti positivi, per esempio il vivere in libertà assoluta, il conoscere sempre nuove persone, nuove culture e il vedere giorno dopo giorno dei posti del nostro pianeta nuovi e meravigliosi. Si vive la vita fino in fondo.
Cosa ti spinge a restare nella tua terra natia?
Amo la Calabria incondizionatamente. Quando parto per lunghi periodi ne sento fortemente la mancanza. Provo sentimenti per la mia terra che non sono molto lontani da quelli che sento per mia madre. Qui mi sento protetto, al di là di tutte le difficoltà che si hanno per restare.
Puoi definirti una sognatore? Qual è il tuo sogno nel cassetto?
Sfido qualsiasi persona a trovare un musicista che non sia un sognatore. Sì! Assolutamente lo sono. Cerco sempre di fare di più per trovare sempre la strada giusta per crescere a livello sia artistico sia umano, ma posso dire che ho sempre sognato di vivere la mia vita facendo quello che mi piace fare e per il quale sento di essere nato. Suonare ovunque. Nel mio piccolo, sto per vivere il mio sogno nel cassetto.
Parlaci del tuo ultimo disco, “My world in the other hand”.
È il disco che ha in qualche modo fatto crescere dentro di me la convinzione e la voglia di continuare a percorrere la strada del musicista. È un disco composto da 12 brani, dei quali 11 inediti e 1 cover intitolata “Whippin' post”. Abbiamo fatto la scelta di inserire questa cover nella play-list del disco perché è stata scritta da una band degli anni '70 che, proprio nel 2014, mentre stavamo per registrare il disco negli Stati Uniti, ha deciso di ritirarsi dal mondo discografico per evidenti motivi. Gli “Allman Brothers” sono l’emblema del nostro stile musicale, il Southern Rock! Abbiamo voluto rendere loro omaggio.
Il disco, da come si può capire dal suo titolo, racconta dei nostri stati d’animo vissuti giorno per giorno: i disagi di ogni genere causati da tutto il sistema mondiale; i sentimenti, belli come l'amore verso il prossimo e lo stare bene insieme facendo nuove esperienze, o brutti come di dolori dati da malattia e quant'altro. In breve, rispecchia il nostro modo di vivere e di essere.
Chi desidera seguirti e saperne un po' di più sulla tua musica, dove può rivolgersi?
Noi abbiamo un sito internet, dove si può trovare tutto il nostro materiale come il disco, l'ep, le nostre bio, i contatti, le date concerti e le news:
Abbiamo anche un canale Youtube:
E una pagina Facebook:
Alcune parole per i giovani.
Ricordate, e mi rivolgo specialmente ai più giovani, che il futuro della nostra esistenza dipende da noi! Siamo noi a dover costruire il nostro avvenire. Se desideriamo un mondo migliore di questo, bisogna fare in modo che lo diventi!
Non smettete mai di rincorrere i vostri sogni: fate di tutto per lasciare che si avverino!
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ARTE PERIFERICA,
DISintervista
mercoledì 1 giugno 2016
Versieri: NON CHIEDERCI LA PAROLA di Eugenio Montale
- di Saso Bellantone
“Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l'uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l'ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
Per ridere in società
ha messo la sua testa il domatore
nella gola del leone
io
ho infilato due dita solamente
nel gargarozzo dell'Alta Società
ed essa non ha avuto il tempo
di mordermi
anzi semplicemente
urlando ha vomitato
un po' della dorata bile
a cui è tanto affezionata.
Per riuscire in questo giuoco
utile e divertente
lavarsi le dita
accuratamente
in una pinta di buon sangue
a ognuno la sua platea.”
Quante persone vorrebbero capirci. Quante, tra queste, direttamente o indirettamente, palesano la loro intenzione di voler penetrare, e svelare così, il segreto che racchiudiamo e siamo nella nostra stessa presenza. Come se ciò sia un obbligo, sia dovuto, perché è così che funziona.
Ognuno è sicuro di sé, di ciò che è e di ciò che gli altri sono (o crede di sapere), e, nel voler sapere tutto e di tutti, non si accorge che l'identità è qualcosa di relativo, è un fatto cangiante a seconda della prospettiva assunta, sia quest'ultima un punto di vista umano, animale, naturale, microbiologico, astrale e quant'altro. Per questo motivo, non cambierebbe nulla nel manifestare ad altri il mistero che siamo. Perché non siamo tutte le prospettive possibili ma soltanto una prospettiva che non può vedere se stessa. Potremmo, al massimo, chiarire quello che non siamo e quello che non vogliamo essere, ma anche qui non avremmo certezza perché continueremmo ad essere solo e soltanto un punto di vista cieco a se stesso.
Per essere accettati si fa di tutto, tutto quello che la società desidera, ma alcuni di noi, pur tentando la sfida dell'accettazione, addentrandosi a passo lento nel mondo degli altri, non saranno mai ammessi, anzi, gli altri, la società stessa farebbe di tutto per travolgerci con la sicurezza che costituisce la sua fortuna e la sua inattaccabile durata e autorità. E così si andrà avanti.
Occorre concepire, perciò, questa sfida del consenso mai concesso non come qualcosa di serio a causa del quale ammalarsi, ma come un gioco, un divertimento utile per comprendere meglio se stessi e la società, consapevoli che la nostra presenza non è un bene per tutti, forse neanche per noi stessi, ma soltanto per alcuni, se si è fortunati, o per nessuno.
Nella poesia Non chiederci la parola, Eugenio Montale pone diverse questioni: dell'identità e della diversità individuale in relazione all'alterità e alla somiglianza monocromatica collettiva; della certezza per mezzo della testimonianza; dell'essere in relazione all'apparire. Per sciogliere tali nodi, il poeta chiama in causa quell'elemento, quella dimensione, quell'estensione di ognuno con la quale ciascuno si manifesta, si esprime, dichiara la propria presenza e interviene nella relazione con l'altro, proponendo se stesso e il proprio pensiero: il linguaggio.
Ma la parola può essere spesso fuorviante. Non soltanto perché si può comunicare il falso consapevolmente, per diffidenza, autodifesa o disinteresse nei confronti dell'altro, ma perché lo si può fare anche involontariamente. Anziché far emergere nella trasparenza della relazione la verità che si è, la parola può far affiorare nell'opacità del rapporto con l'altro l'ambiguità che non si è e si è. Che non si è, in quanto quello che traspare non coincide autenticamente con noi; che si è, in quanto ciò che palesandosi non converge genuinamente con noi, diventa la porta d'accesso capace di mostrare ciò che siamo davvero. E allora, come è possibile gestire questo meccanismo ambivalente? Quanto siamo coscienti di esso? Che cosa esponiamo di noi stessi? La verità o la finzione?
Ecco perché Montale afferma che è preferibile “non chiederci la parola” che possa determinare con esattezza la nostra identità amorfa, sconosciuta anche a noi stessi, e che possa stabilirlo con lettere infuocate da far risplendere come un fiore perduto su un prato di polvere. Molti vivono nella sicurezza di conoscere la propria identità, e quella altrui, inconsapevoli che il riflesso di essa, la sua parvenza, la sua illusione, si diffonde intorno a loro e si fissa nella mente degli altri esattamente come il sole appiccica l'ombra su un muro mal ridotto. Non esiste codice capace di svelare definitivamente la nostra identità. Soltanto sillabe storte, contorte e ricurve come rami secchi, che non sono l'albero nella sua interezza bensì una parte di esso in un periodo della sua esistenza.
È possibile dire di sé soltanto ciò che non si è e non si vuole essere, adesso. Ma non sappiamo di noi stessi nell'attimo successivo della nostra vita.
Molti per essere piacevolmente accettati dalla società nella quale vivono, si comportano come il domatore, che mette la testa nelle fauci del leone. Alcuni, però, non hanno avuto il tempo di mettere due dita nella gola della società affermata e riconosciuta, quella virtuale, mediatica, del Grande Fratello e del Truman Show, che quest'ultima, anziché azzannarli, li ha travolti e scacciati vomitandogli addosso la bile dorata di cui, unica proprietaria, va fiera.
Inutile affannarsi. Non esiste ricette alcuna per uscirne vittoriosi. La relazione con altri, in cui si manifesta la propria identità o l'insieme delle maschere che la interrano, va intesa come un gioco divertente e impossibile: occorre lavarsi con cura le dita dei tentativi fatti, consapevoli che in quegli stessi tentativi, forse, si è fatto del male a qualcuno, oltre che a se stessi.
Ognuno di noi è inconsciamente attore anche con se stesso, oltre che con gli altri, e ognuno di noi ha il suo pubblico: persino quello che ignaramente è dentro di noi.
“Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l'uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l'ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
Per ridere in società
ha messo la sua testa il domatore
nella gola del leone
io
ho infilato due dita solamente
nel gargarozzo dell'Alta Società
ed essa non ha avuto il tempo
di mordermi
anzi semplicemente
urlando ha vomitato
un po' della dorata bile
a cui è tanto affezionata.
Per riuscire in questo giuoco
utile e divertente
lavarsi le dita
accuratamente
in una pinta di buon sangue
a ognuno la sua platea.”
Quante persone vorrebbero capirci. Quante, tra queste, direttamente o indirettamente, palesano la loro intenzione di voler penetrare, e svelare così, il segreto che racchiudiamo e siamo nella nostra stessa presenza. Come se ciò sia un obbligo, sia dovuto, perché è così che funziona.
Ognuno è sicuro di sé, di ciò che è e di ciò che gli altri sono (o crede di sapere), e, nel voler sapere tutto e di tutti, non si accorge che l'identità è qualcosa di relativo, è un fatto cangiante a seconda della prospettiva assunta, sia quest'ultima un punto di vista umano, animale, naturale, microbiologico, astrale e quant'altro. Per questo motivo, non cambierebbe nulla nel manifestare ad altri il mistero che siamo. Perché non siamo tutte le prospettive possibili ma soltanto una prospettiva che non può vedere se stessa. Potremmo, al massimo, chiarire quello che non siamo e quello che non vogliamo essere, ma anche qui non avremmo certezza perché continueremmo ad essere solo e soltanto un punto di vista cieco a se stesso.
Per essere accettati si fa di tutto, tutto quello che la società desidera, ma alcuni di noi, pur tentando la sfida dell'accettazione, addentrandosi a passo lento nel mondo degli altri, non saranno mai ammessi, anzi, gli altri, la società stessa farebbe di tutto per travolgerci con la sicurezza che costituisce la sua fortuna e la sua inattaccabile durata e autorità. E così si andrà avanti.
Occorre concepire, perciò, questa sfida del consenso mai concesso non come qualcosa di serio a causa del quale ammalarsi, ma come un gioco, un divertimento utile per comprendere meglio se stessi e la società, consapevoli che la nostra presenza non è un bene per tutti, forse neanche per noi stessi, ma soltanto per alcuni, se si è fortunati, o per nessuno.
Nella poesia Non chiederci la parola, Eugenio Montale pone diverse questioni: dell'identità e della diversità individuale in relazione all'alterità e alla somiglianza monocromatica collettiva; della certezza per mezzo della testimonianza; dell'essere in relazione all'apparire. Per sciogliere tali nodi, il poeta chiama in causa quell'elemento, quella dimensione, quell'estensione di ognuno con la quale ciascuno si manifesta, si esprime, dichiara la propria presenza e interviene nella relazione con l'altro, proponendo se stesso e il proprio pensiero: il linguaggio.
Ma la parola può essere spesso fuorviante. Non soltanto perché si può comunicare il falso consapevolmente, per diffidenza, autodifesa o disinteresse nei confronti dell'altro, ma perché lo si può fare anche involontariamente. Anziché far emergere nella trasparenza della relazione la verità che si è, la parola può far affiorare nell'opacità del rapporto con l'altro l'ambiguità che non si è e si è. Che non si è, in quanto quello che traspare non coincide autenticamente con noi; che si è, in quanto ciò che palesandosi non converge genuinamente con noi, diventa la porta d'accesso capace di mostrare ciò che siamo davvero. E allora, come è possibile gestire questo meccanismo ambivalente? Quanto siamo coscienti di esso? Che cosa esponiamo di noi stessi? La verità o la finzione?
Ecco perché Montale afferma che è preferibile “non chiederci la parola” che possa determinare con esattezza la nostra identità amorfa, sconosciuta anche a noi stessi, e che possa stabilirlo con lettere infuocate da far risplendere come un fiore perduto su un prato di polvere. Molti vivono nella sicurezza di conoscere la propria identità, e quella altrui, inconsapevoli che il riflesso di essa, la sua parvenza, la sua illusione, si diffonde intorno a loro e si fissa nella mente degli altri esattamente come il sole appiccica l'ombra su un muro mal ridotto. Non esiste codice capace di svelare definitivamente la nostra identità. Soltanto sillabe storte, contorte e ricurve come rami secchi, che non sono l'albero nella sua interezza bensì una parte di esso in un periodo della sua esistenza.
È possibile dire di sé soltanto ciò che non si è e non si vuole essere, adesso. Ma non sappiamo di noi stessi nell'attimo successivo della nostra vita.
Molti per essere piacevolmente accettati dalla società nella quale vivono, si comportano come il domatore, che mette la testa nelle fauci del leone. Alcuni, però, non hanno avuto il tempo di mettere due dita nella gola della società affermata e riconosciuta, quella virtuale, mediatica, del Grande Fratello e del Truman Show, che quest'ultima, anziché azzannarli, li ha travolti e scacciati vomitandogli addosso la bile dorata di cui, unica proprietaria, va fiera.
Inutile affannarsi. Non esiste ricette alcuna per uscirne vittoriosi. La relazione con altri, in cui si manifesta la propria identità o l'insieme delle maschere che la interrano, va intesa come un gioco divertente e impossibile: occorre lavarsi con cura le dita dei tentativi fatti, consapevoli che in quegli stessi tentativi, forse, si è fatto del male a qualcuno, oltre che a se stessi.
Ognuno di noi è inconsciamente attore anche con se stesso, oltre che con gli altri, e ognuno di noi ha il suo pubblico: persino quello che ignaramente è dentro di noi.
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