- di Saso Bellantone
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“6.54 Le mie proposizioni illustrano così: colui che le comprende, alla fine le riconosce insensate, se è salito per mezzo di esse, su esse, oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettare la scala dopo esservi salito). Egli deve superare queste proposizioni. Allora vede rettamente il mondo.”
L. Wittgenstein
- di Saso Bellantone
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Ormai è tutto abituale, monotono, insignificante. La Terra gira intorno al proprio asse e attorno al Sole, quest'ultimo sorge e tramonta ogni giorno, l'onda si riversa sulla battigia e defluisce. Sempre, di continuo, senza sosta. Tutto prosegue, nostro malgrado, muovendosi ciclicamente nelle medesime traiettorie, ancora ancora e poi ancora senza mai sbagliare il tiro, senza incertezze né ripensamenti. La strada è soltanto una, non importa se la si chiama “questa” o “quella”, è già segnata, chiara, trasparente. Non conosce punti di vista, gradazioni o sfumature. Procede sicura in avanti, verso il passo successivo, e ricomincia nuovamente là dove innumerevoli volte è già cominciata ed è già passata. La periodicità è uno dei tratti caratteristici della vita, una costante, un fato al quale neanche gli antichi dèi possono sfuggire. Figuriamoci gli esseri umani...
Si vive ogni giorno esattamente come quello prima e quello dopo. È tutto piatto, monocorde, monocolore. Si ripete qualunque pratica sempre nel medesimo modo: gesti, espressioni, intenzioni, parole, silenzi, percezioni, sensazioni, comportamenti, movimenti e stasi. Da un'alba all'altra e così via verso tutte le altre, si praticano incalcolabili azioni rituali che danno il ritmo, l'accento, la misura con la quale dare una logica al tutto, un senso, un significato ultimo alla vita in generale, alla propria e, dunque, a se stessi.
La ripetizione, tuttavia, svuota, espropria, spoglia di qualsiasi sapore, fragranza o chiave di violino si riesca a focalizzare nel giro precedente della ruota temporale che si ha disposizione. È una forza annichilente che cancella, rimuove, consuma senza lasciare traccia alcuna di quanto vi era prima. Proprio come fa il Nulla nel celebre film “La storia infinita”, tratto dal romanzo di Michael Ende (1979): conduce al niente, al punto zero, alla tabula rasa e lo fa di nuovo e poi ancora una volta e poi ancora ancora ancora...
È in questo modo che si diviene meccanici, automatici, involontari. Proprio come piccoli ingranaggi di un inestimabile orologio appeso a una parete che neanche esiste, del quale né uomini né dèi sanno leggere le lancette, ci si muove, uno scatto alla volta, convinti di non essere altro che quel “tic”, quel “tac” e quell'istante che intercorre tra di essi. Non si ha un volto né pensieri né emozioni. Ci si sente spersonalizzati, disumanizzati, eternamente stretti in uno stato di interdizione sprovvisto di vie d'uscita e porte d'emergenza. Proprio come nel trovarsi dentro una stanza senza porte né finestre, ci si chiede in quale modo ci si è finiti dentro, ci si domanda il perché e per quanto tempo ancora si è condannati a restare rinchiusi là dentro. Fino al momento in cui si viene privati anche dello stesso domandare ed il proprio segnale non è altro che piatto.
Ma proprio come nel film citato sopra e in tantissime altre belle storie, non è fatalmente così.
Ci sono incontri e accadimenti il cui fragore è come quello di un tuono in pieno giorno. Fanno un tale frastuono la cui energia finisce col penetrare dentro la carne e le ossa e oltre di esse e si stabilisce dentro, come seme dentro la terra. Quel granello germoglia pian piano, anche se non se ne è consapevoli. Cresce, cresce e diventa una pianta imponente, coi suoi colori, le sue foglie, i suoi fiori, i suoi frutti, i suoi rami, il suo tronco, le sue radici, le sue venature, l'insieme delle sue variegate forme, tutta la sua struttura. Un albero che dà naturalmente, in maniera incondizionata, involontaria, gratuita; che riempie tutto lo spazio che deve, nella terra e verso il cielo; che prende l'anidride carbonica che si espira, il veleno, e dona ossigeno.
Non ci si rende subito conto dell'azione risanatrice e ricostituente di esso. Lo si capisce quando i suoi frutti cadono dai rami e rotolano via alla ricerca casuale di altra terra, esattamente come quando dal ventre materno nasce un'altra vita. È la vita stessa che vuole vivere, che cerca altra vita e che, in tale ricerca, insegue se stessa. E quando lo si comprende, si è felici...
È proprio come nelle storie.
Quando si è felici, è, anche, il momento di dirsi addio.
Il viaggio è finito, la strada ha condotto alla sua meta, la battaglia si è conclusa e se ne è usciti, per fortuna, vincitori: non più arrugginiti ingranaggi senza volto né origine né destinazione ma pezzi unici con una inconfondibile aura appartenente ad un mondo invisibile, che vuole diffondersi, propagarsi, irradiarsi là dove non è ancora arrivata e vuole approdare; là dove c'è un ciclico buio che attende di essere rischiarato; là dove c'è altra terra che attende il seme.
Andate allora, cari amici, e siate il granello delle piante a cui siete destinati, proprio come quello che ci ha fatalmente accomunato. Lasciate che la vostra aura risplenda nei sentieri segreti del fato e, come ne “La storia infinita”, insegnate a chi vi tocca incontrare che non era Atreju a dover sconfiggere il Nulla ma era Bastian a dover decidere se credere, oppure no, nei sogni.
Addio...
Io non so gli altri come vivono gli avvenimenti. Io so che li vivo, intensamente. Anzi, intensa-mente. Nell'oscuro scenario del post-moderno, immersi nella tabula rasa di volti, orizzonti e stelle fisse che è il qui ed ora, a me gli eventi e gli incontri parlano chiaramente, come fiore che nasce in mezzo al deserto. Ed è subito l'aurora.
Ho frequentato per mesi il TFA sostegno e sembrava di stare a Chongqing, in Cina, là dove c'è l'incrocio di strade più complicato del mondo. Cinque piani e quindici sopraelevate che moltiplicati per due (andata e ritorno), danno metaforicamente il numero dei colleghi frequentanti il mio corso di specializzazione. Gente proveniente da ogni regione d'Italia, ognuna con la propria storia, le proprie motivazioni, il proprio sguardo rivolto al domani. Tutti impegnati a seguire le lezioni dall'alba al tramonto, ogni giorno, e poi ogni fine settimana, per fare esami, in una irrefrenabile corsa contro il tempo, gli impegni e le varie scadenze personali, accademiche, lavorative e familiari.
È stato un viaggio sfiancante, lontano da sé e dai propri cari, in direzione della tanto auspicata meta qual è il titolo di specializzazione. Un itinerario fatto sempre dalle medesime tappe, tuttavia, sempre diverse, perché condiviso con un gruppo speciale, a bordo del pullman 5, con solo nove posti. Cambiava solo l'autista: il docente di turno, che ogni volta ci ha condotto in un nuovo territorio del mondo della conoscenza. Ma quei nove posti erano predestinati, come i numeri sulla scala di Fibonacci.
Con tali compagni, il crocevia si è trasformato in un sentiero nel bosco e la meta in una radura, in una consapevolezza altra: tutto è scritto con inchiostro simpatico sulle pagine invisibili dell'ignoto, e si può leggerle soltanto senza vedere.
Come viva musica di un vecchio vinile, ricorderò tali indimenticabili compagni sempre a bordo di quel pullman, unico e raro, ma stavolta verso nuove destinazioni: il Gruppo 5 TFA.
Buon proseguimento amici, allacciate le cinture...
- di Saso Bellantone
Un cane, un Folle, un nichilista e un antiutiliritarista.
Sembra già un accostamento folle ma in realtà tale avvicinamento è più dell'apparenza. È, Follia. Follia con la F maiuscola, di quella buona, Erasmo docet.
Crediamo ormai sia sempre un male, una colpa, un peccato a causa del quale vediamo sbarrata la porta per il paradiso, il valhalla o qualsiasi altra speranza le civiltà umane o singoli individui abbiano prodotto nel corso del tempo, con ragionamenti austeri o stupefatti. Eppure, al di là della latitudine e della longitudine, delle mode e delle abitudini, del dna e della cultura, della provenienza e delle chance, del potere e della sua povertà, del destino e del caso, la Follia può “anche” essere un bene, un pregio, una virtù. Dipende da quale lato e con quali occhi si guarda.
La società nella quale viviamo, a nostro piacere o meno, ci abitua, e ci impone, fin da piccoli, a impiegare soltanto una sguardo, un paio di occhiali, una sola prospettiva e per questo motivo non siamo mai necessariamente pronti, preparati – o predisposti, per quei pochi s/fortunati – a cambiare veduta, lenti o angolazione. Leggiamo gli eventi della vita, la nostra e, naturalmente, quella di chiunque altro passi al nostro fianco – sia quest'ultimo fisico, virtuale, ideale, patologico o mediatico – così come ci è stato insegnato a casa, nelle chiese, a lavoro o in qualsiasi altro luogo della società, sia un pub, la parrucchiera o un supermercato. Interpretiamo gli accadimenti nella maniera in cui siamo stati educati, allevati, cresciuti, ispirati e civilizzati, e lo facciamo per essere inconsapevolmente numerati, cifrati, micro-chippati e dunque essere pre-visti, calcolati, pronosticati, preventivati e catalogati, per essere tradotti, infine, in parti di equazioni inimmaginabili che ingrossano i conti di pochissimi; quei visibili/invisibili, in abito ying e yang, talmente divini da pagare altri per tirare i fili delle nostre scelte e del nostro eterno dannato presente, mentre bevono assieme a noi un drink o si riscaldano con noi al fuoco di una brace provvisoria e periferica.
In questo panorama, non siamo capaci di mettere assieme un cane, un Folle, un nichilista e un antiutiliritarista. Tantomeno di dichiararci, o ritrovarci, Folli. A meno che, non sperimentiamo, realmente, la loro intrinseca connessione.
1) Feo è stato il mio cane. Non c'è altro da dire – la sua storia, la nostra storia, i suoi bisogni, i miei bisogni. Era mio ed io ero suo. Probabilmente, io ero il suo cane.
2) Nel tempo della morte di Dio nietzscheana, la perdita è una delle parole chiave che caratterizzano la nostra esistenza e l'esistenza in generale.
3) La nozione di dépence batailliana è quel punto di vista che consente di mettere a fuoco l'impensabile e tale nozione è sempre un giudizio sintetico a posteriori.
Partiamo dal punto 2.
La morte di Dio nietzscheana, enunciata nel celebre aforisma 125 de La gaia Scienza, tra le tante cose, sottolinea, ricalca, mette a nudo il concetto di “perdita”: azzeramento dei vecchi valori, da un lato; possibilità/impossibilità di qualsiasi piramide valoriale, dall'altro lato. In ogni caso, quel che vien meno, è la certezza di qualcosa, di un punto fisso, di una stella polare che possa indirizzare il nostro vagare o le nostre scelte. Brancoliamo nel buio.
Eppure in questa cieca erranza, continuiamo a sperimentare nella carne e nelle ossa la perdita. Perdiamo il ventre materno, perdiamo l'infanzia, l'adolescenza e tutto quanto vi è connesso: amori, amicizie, speranze, sogni, prospettive, qualsiasi rapporto e relazione. Perdiamo l'importanza che diamo a un genitore, a un parente, un amico o una persona amata. Perdiamo le passioni, i piaceri, i modi di vivere e di pensare. Perdiamo le abitudini, gli usi, il modo di vestirci e la gente da frequentare. Perdiamo l'autobus, il pronostico, il treno che passa una volta sola, il senso dell'orientamento. Perdiamo continuamente la nostra identità e quella che diamo a qualsiasi altra cosa, avvenimento, persona ci sfiora. Viviamo, quindi, la perdita come un principio regolatore dell'esistenza pur essendone inconsapevoli, e proseguiamo il nostro incerto girovagare in direzione di un orizzonte che abbiamo perso già prima di averlo pensato, oltre che visto di sfuggita. Non facciamo altro, in estrema sintesi, che vivere perdendo tutto, nulla escluso, assuefatti dalla sensazione del perdersi per perdersi nuovamente e ancora, ancora... Per questo motivo, niente e nessuno può essere o rappresentare quella feritoia, quel battito d'ali o di ciglia utile per ritrovare se stessi. Perché ciò che perdi non è più tuo e perché ciò che perdi non sei più tu.
E così veniamo al punto 3.
Eppure c'è qualcuno, e non un qualcosa, che vive la perdita in maniera batailliana, come pura perdita, Pura con la P maiuscola, proprio come la Follia di Erasmo. Qualcuno per cui “perdita” non è che un altro modo per dire “dono”. Perché è un dono questo qualcuno e qualunque fatto si possa sperimentare, assistere, vivere assieme a questo qualcuno.
Per questo qualcuno, è un dono perdere il potere di decidere di sé, dei propri tempi, dei propri spazi, della propria vita in toto. È un dono perdere il potere del capobranco, di quel che c'è da fare, dei luoghi dove andare, così come delle persone da incontrare, delle regole da seguire e di quelle alle quali ribellarsi. È un dono perdere la propria natura, i propri istinti, la propria animalità. È un dono qualunque cosa faccia, bella o brutta che sia: starti vicino, quando non vuoi nessuno al tuo fianco, e riempirti di tante di quelle attenzioni innanzi alle quali un altro essere umano è cieco; romperti le scatole, in quei momenti in cui non desideri altro che non avere nulla a cui pensare, e darti tante di quelle responsabilità innanzi alle quali, se solo fossero di natura umana, passeresti dritto. È un dono, a ben vedere – avendo gli occhi per vedere, naturalmente –, anche soltanto avere questa possibilità, quella cioè di stare al fianco di questo qualcuno per il quale qualunque cosa accada è un momento di gioia di stare con te, è un attimo di difesa, di te, è un istante bello, semplicemente perché è con te.
Ma se questo qualcuno fosse umano, non sarebbe niente di quanto detto finora.
E così veniamo al punto 1.
Feo era un dono e anche la sua perdita lo è. Te ne rendi conto solo a posteriori, perché il suo “non esserci più” mostra la sua essenza, e la tua. Ti fa capire di essere, di continuare a essere, “anche” ciò non hai più e di non essere più quel che eri prima. Ti fa rendere conto che tornerai a muoverti alla cieca, perché non era lui ad essere tuo ma tu ad essere suo. E adesso, non sei più la sua proprietà, non hai più una zavorra che ti tiene coi piedi per terra, non hai più stelle fisse.
Feo era un dono non umano, inumano, sovrumano. Se avesse avuto anche la minima parvenza umana non sarebbe stato un dono e non lo sarebbe neanche ora che non c'è più. Perché il dono che ti lascia è il pensiero: a lui, e a te. Così rivedi un'intera vita, da una parte, e l'ignoto, dall'altra.
Feo era la risposta alla morte di Dio nietzscheana, alla perdita cosmologica e antropologica dei valori, al nichilismo che palpita nella terra e nella carne. Era la dépence, la perdita, però in segno positivo: un dare continuo senza voler ricevere nulla in cambio. Un dare e basta che riempiva il niente, il vuoto di Dio. E adesso quel vuoto rischia di restare incolmabile, di nuovo, ancora, senza la Follia di Erasmo. La Follia che ha scandito il nostro percorso, fin che Feo c'è stato, la Follia che deve continuare a dare un senso al percorso, anche adesso che non c'è più. Quella Follia che manca alla società, e alle civiltà, per invertire la rotta e riscoprire, ricordare, rispolverare quanto di buono c'è, o è rimasto, nell'umanità e in ognuno di noi.