- di Saso Bellantone
Un cane, un Folle, un nichilista e un antiutiliritarista.
Sembra già un accostamento folle ma in realtà tale avvicinamento è più dell'apparenza. È, Follia. Follia con la F maiuscola, di quella buona, Erasmo docet.
Crediamo ormai sia sempre un male, una colpa, un peccato a causa del quale vediamo sbarrata la porta per il paradiso, il valhalla o qualsiasi altra speranza le civiltà umane o singoli individui abbiano prodotto nel corso del tempo, con ragionamenti austeri o stupefatti. Eppure, al di là della latitudine e della longitudine, delle mode e delle abitudini, del dna e della cultura, della provenienza e delle chance, del potere e della sua povertà, del destino e del caso, la Follia può “anche” essere un bene, un pregio, una virtù. Dipende da quale lato e con quali occhi si guarda.
La società nella quale viviamo, a nostro piacere o meno, ci abitua, e ci impone, fin da piccoli, a impiegare soltanto una sguardo, un paio di occhiali, una sola prospettiva e per questo motivo non siamo mai necessariamente pronti, preparati – o predisposti, per quei pochi s/fortunati – a cambiare veduta, lenti o angolazione. Leggiamo gli eventi della vita, la nostra e, naturalmente, quella di chiunque altro passi al nostro fianco – sia quest'ultimo fisico, virtuale, ideale, patologico o mediatico – così come ci è stato insegnato a casa, nelle chiese, a lavoro o in qualsiasi altro luogo della società, sia un pub, la parrucchiera o un supermercato. Interpretiamo gli accadimenti nella maniera in cui siamo stati educati, allevati, cresciuti, ispirati e civilizzati, e lo facciamo per essere inconsapevolmente numerati, cifrati, micro-chippati e dunque essere pre-visti, calcolati, pronosticati, preventivati e catalogati, per essere tradotti, infine, in parti di equazioni inimmaginabili che ingrossano i conti di pochissimi; quei visibili/invisibili, in abito ying e yang, talmente divini da pagare altri per tirare i fili delle nostre scelte e del nostro eterno dannato presente, mentre bevono assieme a noi un drink o si riscaldano con noi al fuoco di una brace provvisoria e periferica.
In questo panorama, non siamo capaci di mettere assieme un cane, un Folle, un nichilista e un antiutiliritarista. Tantomeno di dichiararci, o ritrovarci, Folli. A meno che, non sperimentiamo, realmente, la loro intrinseca connessione.
1) Feo è stato il mio cane. Non c'è altro da dire – la sua storia, la nostra storia, i suoi bisogni, i miei bisogni. Era mio ed io ero suo. Probabilmente, io ero il suo cane.
2) Nel tempo della morte di Dio nietzscheana, la perdita è una delle parole chiave che caratterizzano la nostra esistenza e l'esistenza in generale.
3) La nozione di dépence batailliana è quel punto di vista che consente di mettere a fuoco l'impensabile e tale nozione è sempre un giudizio sintetico a posteriori.
Partiamo dal punto 2.
La morte di Dio nietzscheana, enunciata nel celebre aforisma 125 de La gaia Scienza, tra le tante cose, sottolinea, ricalca, mette a nudo il concetto di “perdita”: azzeramento dei vecchi valori, da un lato; possibilità/impossibilità di qualsiasi piramide valoriale, dall'altro lato. In ogni caso, quel che vien meno, è la certezza di qualcosa, di un punto fisso, di una stella polare che possa indirizzare il nostro vagare o le nostre scelte. Brancoliamo nel buio.
Eppure in questa cieca erranza, continuiamo a sperimentare nella carne e nelle ossa la perdita. Perdiamo il ventre materno, perdiamo l'infanzia, l'adolescenza e tutto quanto vi è connesso: amori, amicizie, speranze, sogni, prospettive, qualsiasi rapporto e relazione. Perdiamo l'importanza che diamo a un genitore, a un parente, un amico o una persona amata. Perdiamo le passioni, i piaceri, i modi di vivere e di pensare. Perdiamo le abitudini, gli usi, il modo di vestirci e la gente da frequentare. Perdiamo l'autobus, il pronostico, il treno che passa una volta sola, il senso dell'orientamento. Perdiamo continuamente la nostra identità e quella che diamo a qualsiasi altra cosa, avvenimento, persona ci sfiora. Viviamo, quindi, la perdita come un principio regolatore dell'esistenza pur essendone inconsapevoli, e proseguiamo il nostro incerto girovagare in direzione di un orizzonte che abbiamo perso già prima di averlo pensato, oltre che visto di sfuggita. Non facciamo altro, in estrema sintesi, che vivere perdendo tutto, nulla escluso, assuefatti dalla sensazione del perdersi per perdersi nuovamente e ancora, ancora... Per questo motivo, niente e nessuno può essere o rappresentare quella feritoia, quel battito d'ali o di ciglia utile per ritrovare se stessi. Perché ciò che perdi non è più tuo e perché ciò che perdi non sei più tu.
E così veniamo al punto 3.
Eppure c'è qualcuno, e non un qualcosa, che vive la perdita in maniera batailliana, come pura perdita, Pura con la P maiuscola, proprio come la Follia di Erasmo. Qualcuno per cui “perdita” non è che un altro modo per dire “dono”. Perché è un dono questo qualcuno e qualunque fatto si possa sperimentare, assistere, vivere assieme a questo qualcuno.
Per questo qualcuno, è un dono perdere il potere di decidere di sé, dei propri tempi, dei propri spazi, della propria vita in toto. È un dono perdere il potere del capobranco, di quel che c'è da fare, dei luoghi dove andare, così come delle persone da incontrare, delle regole da seguire e di quelle alle quali ribellarsi. È un dono perdere la propria natura, i propri istinti, la propria animalità. È un dono qualunque cosa faccia, bella o brutta che sia: starti vicino, quando non vuoi nessuno al tuo fianco, e riempirti di tante di quelle attenzioni innanzi alle quali un altro essere umano è cieco; romperti le scatole, in quei momenti in cui non desideri altro che non avere nulla a cui pensare, e darti tante di quelle responsabilità innanzi alle quali, se solo fossero di natura umana, passeresti dritto. È un dono, a ben vedere – avendo gli occhi per vedere, naturalmente –, anche soltanto avere questa possibilità, quella cioè di stare al fianco di questo qualcuno per il quale qualunque cosa accada è un momento di gioia di stare con te, è un attimo di difesa, di te, è un istante bello, semplicemente perché è con te.
Ma se questo qualcuno fosse umano, non sarebbe niente di quanto detto finora.
E così veniamo al punto 1.
Feo era un dono e anche la sua perdita lo è. Te ne rendi conto solo a posteriori, perché il suo “non esserci più” mostra la sua essenza, e la tua. Ti fa capire di essere, di continuare a essere, “anche” ciò non hai più e di non essere più quel che eri prima. Ti fa rendere conto che tornerai a muoverti alla cieca, perché non era lui ad essere tuo ma tu ad essere suo. E adesso, non sei più la sua proprietà, non hai più una zavorra che ti tiene coi piedi per terra, non hai più stelle fisse.
Feo era un dono non umano, inumano, sovrumano. Se avesse avuto anche la minima parvenza umana non sarebbe stato un dono e non lo sarebbe neanche ora che non c'è più. Perché il dono che ti lascia è il pensiero: a lui, e a te. Così rivedi un'intera vita, da una parte, e l'ignoto, dall'altra.
Feo era la risposta alla morte di Dio nietzscheana, alla perdita cosmologica e antropologica dei valori, al nichilismo che palpita nella terra e nella carne. Era la dépence, la perdita, però in segno positivo: un dare continuo senza voler ricevere nulla in cambio. Un dare e basta che riempiva il niente, il vuoto di Dio. E adesso quel vuoto rischia di restare incolmabile, di nuovo, ancora, senza la Follia di Erasmo. La Follia che ha scandito il nostro percorso, fin che Feo c'è stato, la Follia che deve continuare a dare un senso al percorso, anche adesso che non c'è più. Quella Follia che manca alla società, e alle civiltà, per invertire la rotta e riscoprire, ricordare, rispolverare quanto di buono c'è, o è rimasto, nell'umanità e in ognuno di noi.
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