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lunedì 24 giugno 2024

GETTARE LA SCALA

 


- di Saso Bellantone

6.54 Le mie proposizioni illustrano così: colui che le comprende, alla fine le riconosce insensate, se è salito per mezzo di esse, su esse, oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettare la scala dopo esservi salito). Egli deve superare queste proposizioni. Allora vede rettamente il mondo.”

L. Wittgenstein


Questo aforisma è tratto dal celebre Tractatus logico-philosophicus di L. Wittgenstein, un'opera cruciale all'interno della storia della filosofia, che ha lo scopo di chiarirne il senso e i confini. Qui l'autore specifica la differenza tra “fatti” e “interpretazioni” e spiega come possano avere senso soltanto i primi, perché rinviano a stati di cose, indagabili per mezzo della scienza, mentre i secondi non rinviano ad alcunché, dunque sono insignificanti. Per questo motivo, Wittgenstein sostiene che la filosofia non dovrebbe parlare di nulla se non di ciò che appartiene alla scienza naturale. Tutto il resto, il metafisico, il mistico, persino l'etica, merita soltanto il silenzio: è impronunciabile, indicibile, non è indagabile logicamente e scientificamente, non ha valore alcuno, non è pensabile, perché soltanto ciò che ha valore logico-scientifico è degno del pensiero. In questo quadro, il filosofo conclude che le sue stesse proposizioni, usate per chiarire quanto detto sopra, sono inutili e insensate e chi è giunto a tale consapevolezza deve abbandonare i suoi stessi ragionamenti perché non hanno valore; deve, per vedere rettamente il mondo, pensare in maniera logico-scientifica non filosofica.
Il Tractatus è un'opera importante per comprendere il modus cogitandi-operandi della scienza, delinearne le peculirarità, il senso e i confini, per opposizione a quello della filosofia. Quando, però, si esce al di fuori di questo ring e si va a vedere la vita concreta delle persone, la domanda sul senso della scienza e della filosofia, sui “fatti” e sulle “interpretazioni” si ripresenta sotto altre prospettive.
In questo terreno, alla singola persona non interessa stabilire definitivamente il metodo del procedere scientifico o di quello filosofico ma: capire qual è il senso della vita, dell'esistenza, di se stesso; comprendere in che modo è giunta a questo attimo qui ed ora e in che modo proiettarsi verso quello successivo; decifrare degli indizi dal suo passato che chiariscano il suo presente e la mettano nelle condizioni di guardare al domani.
L'essere umano potrebbe dunque concentrarsi su una dettagliata spettroscopia dei “fatti” del suo passato che hanno scientificamente determinato il suo oggi, ma senza almeno una “interpretazione” di essi, oggi quei fatti stessi risulterebbero insensati. D'altrocanto, così vale anche per la scienza: senza un metro, una misura, una chiave di violino, il mondo delle cose resterebbe impenetrabile, incomprensibile, magico.
Allora, quale sarebbe la misura adatta, corretta per analizzare il proprio passato, spiegare il presente e guardare al futuro?
Non esiste, o meglio ne esistono tante quante sono le persone viventi – e ancora vive anche per mezzo delle opere d'arte, letterarie o mediante il mero ricordo di qualcun altro – e per ciascuna di esse ce ne sono tante quante i granelli di sabbia di un deserto o i corpi celesti nell'universo.
Di certo, nella disamina del proprio passato in vista del presente e del futuro, ognuno è figlio del proprio tempo e ricorre ai punti di riferimento della società in cui è cresciuto e ha vissuto; stelle fisse che possono essere sposate o rifiutate, generando così ulteriori sfumature sui criteri stessi in base ai quali svolgere quell'analisi. Ci si ritrova, in definitiva, all'interno di una sciarada, di una matassa di cui non si vede neanche il capo o la coda.
Malgrado ciò, la persona insiste in questa indagine, in questa azione di comprensione di sé e della vita, perché non riesce a farne a meno. Ha bisogno di vedersi all'interno di una cornice, di una prospettiva, di un paesaggio entro il quale collocare tutto il resto, prenderne atto e interpretarlo.
Ci sono quelli che si convincono con le interpretazioni dei fatti della propria vita esterne a sé e quelli che preferiscono interpretare da soli. Lo scopo di entrambi, per dirla con Schopenhauer e Nietzsche, è di conservare/potenziare la propria vita, nella quale si opera principalmente come volontà. A volte ci si accontenta delle interpretazioni effettuate, altre volte queste non bastano. Ciò dipende dal grado di felicità/infelicità con cui si guarda ai fatti del proprio passato, grado naturalmente radicato nel proprio oggi, nel presente, nel qui ed ora. Chi è felice non troverà mai lacune nelle proprie interpretazioni; chi non lo è, ne troverà a bizzeffe e continuerà a interpretare e a interpretare fino al momento in cui la sua infelicità diventerà il suo esatto opposto. Alcuni riescono a raggiungere la felicità, altri no. Altri ancora, pur avendola raggiunta, la perdono di nuovo, poi la riguadagnano poi la perdono ancora e così via finché morte non li separi da quegli stessi enigmi.
La grande questione, in realtà, è capire con quale lente d'ingrandimento si sta guardando al proprio passato, lente che va messa in relazione al proprio grado di felicità/infelicità. Viene in aiuto ancora una volta Nietzsche, con la sua distinzione tra storia monumentale, antiquaria o critica.
Si guarda al proprio passato in maniera:
- “monumentale”, individuando grandi avvenimenti vissuti;
- “antiquaria”, vincolandosi cioè a ciò che è stato;
- “critica”, intendendo ciò che è stato come un peso da cui sgravarsi per poter vivere.
Nel primo caso, è felice chi è sazio di ciò che ha già vissuto, mentre è infelice chi non è pago di ciò che è stato e vuole vivere ancora altri grandi avvenimenti. Nel secondo caso, si è infelici perché si resta legati al passato e qualsiasi accadimento presente non ha valore, perché ha valore solo quello che è già stato. Nel terzo caso, è felice chi riesce a liberarsi del passato e, in tal modo, a vivere adesso, mentre è infelice chi ne resta condizionato e non riesce a vivere il presente, l'accadere.
Per risolvere i casi di infelicità di tutte e tre le fattispecie, è possibile utilizzare la metafora della “scala” usata da Wittgenstein. All'interno dello scenario in esame, essa va intesa come un sinonimo di “passato”. Rileggendo l'aforisma 6.54 di Wittegenstein e mettendolo in relazione alla felicità, ne consegue che è felice – o ha la possibilità di esserlo – chi è capace di gettare la scala. Per poter svolgere questa azione è necessario, però, giungere prima ad una consapevolezza: il fatto cioè che una scala esiste e conduce da qualche parte. Una volta maturata questa presa d'atto, occorre poi capire che cosa si vuole fare con questa scala: usarla o no. Qui entra in scena la volontà della singola persona. Cultura, educazione, carattere e quant'altro hanno un peso fino a un certo punto. Tocca alla volontà, qui ed ora, di prendere una decisione: usare o non usare la scala.
Chi decide di non usarla, resterà legato all'infelicità in uno degli atteggiamenti sopra descritti. Chi invece decide di usarla, deve passare dalla volontà all'azione. Deve attraversare la scala. Deve salire – o scendere –, perché la scala conduce ad un altro livello, ad un'altra panoramica, ad un diverso stadio di coscienza e una volta giunto lassù – o laggiù –, deve gettare la scala e vivere, consapevole che può trovare o non trovare la felicità.
“Gettare la scala” non vuol dire naturalmente rinnegare di averne (avuta) una, vuol dire invece “compiere un'azione che libera”, vuol dire praticare un gesto senza il quale non è possibile radicarsi profondamente nel qui ed ora e coglierlo così com'è. Solo dopo quest'azione, questo gesto, questa pratica si può finalmente vivere liberi, perché reciso ogni vincolo e legame con la scala, si è finalmente esposti al possibile e all'impossibile e non si ha certezza alcuna di quello che accadrà e che sarà. E tuttavia, se ciò che ci si ritroverà innanzi non sarà di nostro gusto, non corrisponderà a quanto ci si aspettava, non sarà la felicità, bisogna ricordarsi soltanto di un fatto: del luogo in cui si è deciso di buttare la scala.

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