- di Saso Bellantone
“6.54 Le mie proposizioni illustrano così: colui che le comprende, alla fine le riconosce insensate, se è salito per mezzo di esse, su esse, oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettare la scala dopo esservi salito). Egli deve superare queste proposizioni. Allora vede rettamente il mondo.”
L. Wittgenstein
Questo aforisma è tratto
dal celebre Tractatus logico-philosophicus di L. Wittgenstein,
un'opera cruciale all'interno della storia della filosofia, che ha lo
scopo di chiarirne il senso e i confini. Qui l'autore specifica la
differenza tra “fatti” e “interpretazioni” e spiega come
possano avere senso soltanto i primi, perché rinviano a stati di
cose, indagabili per mezzo della scienza, mentre i secondi non
rinviano ad alcunché, dunque sono insignificanti. Per questo motivo,
Wittgenstein sostiene che la filosofia non dovrebbe parlare di nulla
se non di ciò che appartiene alla scienza naturale. Tutto il resto,
il metafisico, il mistico, persino l'etica, merita soltanto il
silenzio: è impronunciabile, indicibile, non è indagabile
logicamente e scientificamente, non ha valore alcuno, non è
pensabile, perché soltanto ciò che ha valore logico-scientifico è
degno del pensiero. In questo quadro, il filosofo conclude che le sue
stesse proposizioni, usate per chiarire quanto detto sopra, sono
inutili e insensate e chi è giunto a tale consapevolezza deve
abbandonare i suoi stessi ragionamenti perché non hanno valore;
deve, per vedere rettamente il mondo, pensare in maniera
logico-scientifica non filosofica.
Il Tractatus è
un'opera importante per comprendere il modus cogitandi-operandi
della scienza, delinearne le peculirarità, il senso e i confini, per
opposizione a quello della filosofia. Quando, però, si esce al di
fuori di questo ring e si va a vedere la vita concreta delle persone,
la domanda sul senso della scienza e della filosofia, sui “fatti”
e sulle “interpretazioni” si ripresenta sotto altre prospettive.
In questo terreno, alla
singola persona non interessa stabilire definitivamente il metodo del
procedere scientifico o di quello filosofico ma: capire qual è il
senso della vita, dell'esistenza, di se stesso; comprendere in che
modo è giunta a questo attimo qui ed ora e in che modo proiettarsi
verso quello successivo; decifrare degli indizi dal suo passato che
chiariscano il suo presente e la mettano nelle condizioni di guardare
al domani.
L'essere umano potrebbe
dunque concentrarsi su una dettagliata spettroscopia dei “fatti”
del suo passato che hanno scientificamente determinato il suo oggi,
ma senza almeno una “interpretazione” di essi, oggi quei fatti
stessi risulterebbero insensati. D'altrocanto, così vale anche per
la scienza: senza un metro, una misura, una chiave di violino, il
mondo delle cose resterebbe impenetrabile, incomprensibile, magico.
Allora, quale sarebbe la
misura adatta, corretta per analizzare il proprio passato, spiegare
il presente e guardare al futuro?
Non esiste, o meglio ne
esistono tante quante sono le persone viventi – e ancora vive anche
per mezzo delle opere d'arte, letterarie o mediante il mero ricordo
di qualcun altro – e per ciascuna di esse ce ne sono tante quante i
granelli di sabbia di un deserto o i corpi celesti nell'universo.
Di certo, nella disamina
del proprio passato in vista del presente e del futuro, ognuno è
figlio del proprio tempo e ricorre ai punti di riferimento della
società in cui è cresciuto e ha vissuto; stelle fisse che possono
essere sposate o rifiutate, generando così ulteriori sfumature sui
criteri stessi in base ai quali svolgere quell'analisi. Ci si
ritrova, in definitiva, all'interno di una sciarada, di una matassa
di cui non si vede neanche il capo o la coda.
Malgrado ciò, la persona
insiste in questa indagine, in questa azione di comprensione di sé e
della vita, perché non riesce a farne a meno. Ha bisogno di vedersi
all'interno di una cornice, di una prospettiva, di un paesaggio entro
il quale collocare tutto il resto, prenderne atto e interpretarlo.
Ci sono quelli che si
convincono con le interpretazioni dei fatti della propria vita
esterne a sé e quelli che preferiscono interpretare da soli. Lo
scopo di entrambi, per dirla con Schopenhauer e Nietzsche, è di
conservare/potenziare la propria vita, nella quale si opera
principalmente come volontà. A volte ci si accontenta delle
interpretazioni effettuate, altre volte queste non bastano. Ciò
dipende dal grado di felicità/infelicità con cui si guarda ai fatti
del proprio passato, grado naturalmente radicato nel proprio oggi,
nel presente, nel qui ed ora. Chi è felice non troverà mai lacune
nelle proprie interpretazioni; chi non lo è, ne troverà a bizzeffe
e continuerà a interpretare e a interpretare fino al momento in cui
la sua infelicità diventerà il suo esatto opposto. Alcuni riescono
a raggiungere la felicità, altri no. Altri ancora, pur avendola
raggiunta, la perdono di nuovo, poi la riguadagnano poi la perdono
ancora e così via finché morte non li separi da quegli stessi
enigmi.
La grande questione, in
realtà, è capire con quale lente d'ingrandimento si sta guardando
al proprio passato, lente che va messa in relazione al proprio grado
di felicità/infelicità. Viene in aiuto ancora una volta Nietzsche,
con la sua distinzione tra storia monumentale, antiquaria o critica.
Si guarda al proprio
passato in maniera:
- “monumentale”,
individuando grandi avvenimenti vissuti;
- “antiquaria”,
vincolandosi cioè a ciò che è stato;
- “critica”,
intendendo ciò che è stato come un peso da cui sgravarsi per poter
vivere.
Nel primo caso, è felice
chi è sazio di ciò che ha già vissuto, mentre è infelice chi non
è pago di ciò che è stato e vuole vivere ancora altri grandi
avvenimenti. Nel secondo caso, si è infelici perché si resta legati
al passato e qualsiasi accadimento presente non ha valore, perché ha
valore solo quello che è già stato. Nel terzo caso, è felice chi
riesce a liberarsi del passato e, in tal modo, a vivere adesso,
mentre è infelice chi ne resta condizionato e non riesce a vivere il
presente, l'accadere.
Per risolvere i casi di
infelicità di tutte e tre le fattispecie, è possibile utilizzare la
metafora della “scala” usata da Wittgenstein. All'interno dello
scenario in esame, essa va intesa come un sinonimo di “passato”.
Rileggendo l'aforisma 6.54 di Wittegenstein e mettendolo in relazione
alla felicità, ne consegue che è felice – o ha la possibilità di
esserlo – chi è capace di gettare la scala. Per poter svolgere
questa azione è necessario, però, giungere prima ad una
consapevolezza: il fatto cioè che una scala esiste e conduce da
qualche parte. Una volta maturata questa presa d'atto, occorre poi
capire che cosa si vuole fare con questa scala: usarla o no. Qui
entra in scena la volontà della singola persona. Cultura,
educazione, carattere e quant'altro hanno un peso fino a un certo
punto. Tocca alla volontà, qui ed ora, di prendere una decisione:
usare o non usare la scala.
Chi decide di non usarla,
resterà legato all'infelicità in uno degli atteggiamenti sopra
descritti. Chi invece decide di usarla, deve passare dalla volontà
all'azione. Deve attraversare la scala. Deve salire – o scendere –,
perché la scala conduce ad un altro livello, ad un'altra panoramica,
ad un diverso stadio di coscienza e una volta giunto lassù – o
laggiù –, deve gettare la scala e vivere, consapevole che può
trovare o non trovare la felicità.
“Gettare la scala”
non vuol dire naturalmente rinnegare di averne (avuta) una, vuol dire
invece “compiere un'azione che libera”, vuol dire praticare un
gesto senza il quale non è possibile radicarsi profondamente nel qui
ed ora e coglierlo così com'è. Solo dopo quest'azione, questo
gesto, questa pratica si può finalmente vivere liberi, perché
reciso ogni vincolo e legame con la scala, si è finalmente esposti
al possibile e all'impossibile e non si ha certezza alcuna di quello
che accadrà e che sarà. E tuttavia, se ciò che ci si ritroverà
innanzi non sarà di nostro gusto, non corrisponderà a quanto ci si
aspettava, non sarà la felicità, bisogna ricordarsi soltanto di un
fatto: del luogo in cui si è deciso di buttare la scala.
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