- di Saso Bellantone
Ormai è tutto abituale, monotono, insignificante. La Terra gira intorno al proprio asse e attorno al Sole, quest'ultimo sorge e tramonta ogni giorno, l'onda si riversa sulla battigia e defluisce. Sempre, di continuo, senza sosta. Tutto prosegue, nostro malgrado, muovendosi ciclicamente nelle medesime traiettorie, ancora ancora e poi ancora senza mai sbagliare il tiro, senza incertezze né ripensamenti. La strada è soltanto una, non importa se la si chiama “questa” o “quella”, è già segnata, chiara, trasparente. Non conosce punti di vista, gradazioni o sfumature. Procede sicura in avanti, verso il passo successivo, e ricomincia nuovamente là dove innumerevoli volte è già cominciata ed è già passata. La periodicità è uno dei tratti caratteristici della vita, una costante, un fato al quale neanche gli antichi dèi possono sfuggire. Figuriamoci gli esseri umani...
Si vive ogni giorno esattamente come quello prima e quello dopo. È tutto piatto, monocorde, monocolore. Si ripete qualunque pratica sempre nel medesimo modo: gesti, espressioni, intenzioni, parole, silenzi, percezioni, sensazioni, comportamenti, movimenti e stasi. Da un'alba all'altra e così via verso tutte le altre, si praticano incalcolabili azioni rituali che danno il ritmo, l'accento, la misura con la quale dare una logica al tutto, un senso, un significato ultimo alla vita in generale, alla propria e, dunque, a se stessi.
La ripetizione, tuttavia, svuota, espropria, spoglia di qualsiasi sapore, fragranza o chiave di violino si riesca a focalizzare nel giro precedente della ruota temporale che si ha disposizione. È una forza annichilente che cancella, rimuove, consuma senza lasciare traccia alcuna di quanto vi era prima. Proprio come fa il Nulla nel celebre film “La storia infinita”, tratto dal romanzo di Michael Ende (1979): conduce al niente, al punto zero, alla tabula rasa e lo fa di nuovo e poi ancora una volta e poi ancora ancora ancora...
È in questo modo che si diviene meccanici, automatici, involontari. Proprio come piccoli ingranaggi di un inestimabile orologio appeso a una parete che neanche esiste, del quale né uomini né dèi sanno leggere le lancette, ci si muove, uno scatto alla volta, convinti di non essere altro che quel “tic”, quel “tac” e quell'istante che intercorre tra di essi. Non si ha un volto né pensieri né emozioni. Ci si sente spersonalizzati, disumanizzati, eternamente stretti in uno stato di interdizione sprovvisto di vie d'uscita e porte d'emergenza. Proprio come nel trovarsi dentro una stanza senza porte né finestre, ci si chiede in quale modo ci si è finiti dentro, ci si domanda il perché e per quanto tempo ancora si è condannati a restare rinchiusi là dentro. Fino al momento in cui si viene privati anche dello stesso domandare ed il proprio segnale non è altro che piatto.
Ma proprio come nel film citato sopra e in tantissime altre belle storie, non è fatalmente così.
Ci sono incontri e accadimenti il cui fragore è come quello di un tuono in pieno giorno. Fanno un tale frastuono la cui energia finisce col penetrare dentro la carne e le ossa e oltre di esse e si stabilisce dentro, come seme dentro la terra. Quel granello germoglia pian piano, anche se non se ne è consapevoli. Cresce, cresce e diventa una pianta imponente, coi suoi colori, le sue foglie, i suoi fiori, i suoi frutti, i suoi rami, il suo tronco, le sue radici, le sue venature, l'insieme delle sue variegate forme, tutta la sua struttura. Un albero che dà naturalmente, in maniera incondizionata, involontaria, gratuita; che riempie tutto lo spazio che deve, nella terra e verso il cielo; che prende l'anidride carbonica che si espira, il veleno, e dona ossigeno.
Non ci si rende subito conto dell'azione risanatrice e ricostituente di esso. Lo si capisce quando i suoi frutti cadono dai rami e rotolano via alla ricerca casuale di altra terra, esattamente come quando dal ventre materno nasce un'altra vita. È la vita stessa che vuole vivere, che cerca altra vita e che, in tale ricerca, insegue se stessa. E quando lo si comprende, si è felici...
È proprio come nelle storie.
Quando si è felici, è, anche, il momento di dirsi addio.
Il viaggio è finito, la strada ha condotto alla sua meta, la battaglia si è conclusa e se ne è usciti, per fortuna, vincitori: non più arrugginiti ingranaggi senza volto né origine né destinazione ma pezzi unici con una inconfondibile aura appartenente ad un mondo invisibile, che vuole diffondersi, propagarsi, irradiarsi là dove non è ancora arrivata e vuole approdare; là dove c'è un ciclico buio che attende di essere rischiarato; là dove c'è altra terra che attende il seme.
Andate allora, cari amici, e siate il granello delle piante a cui siete destinati, proprio come quello che ci ha fatalmente accomunato. Lasciate che la vostra aura risplenda nei sentieri segreti del fato e, come ne “La storia infinita”, insegnate a chi vi tocca incontrare che non era Atreju a dover sconfiggere il Nulla ma era Bastian a dover decidere se credere, oppure no, nei sogni.
Addio...
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