- di Saso
Bellantone
Duemila piedi
al di là dell'uomo e del tempo. Appoggiato al suo bastone, un uomo
osserva il paesaggio circostante. Montagne. Nuvole. E nebbia. Mari di
nebbia. È l'offuscamento che coinvolge l'essere umano e il mondo che
abita... C'è pace, quassù. Qua sopra, in solitudine, è tutto
diverso. Tutto sembra avere forma, definizione, ma non un perché.
Neanche la solitudine stessa. L'essere umano si imbruttisce,
degenera, si corrompe. Altera il mondo in cui vive, lo guasta, lo
avvelena principalmente con la sua presenza, poi con i suoi concetti.
Con le sue idee. Con i suoi sogni più remoti. Crede di poter
dominare gli elementi, la materia e l'antimateria, invece non riesce
a governare neanche se stesso. Secoli, millenni di evoluzione, di
storia, ma ad ogni passo diventa più bestiale del passo precedente.
Sempre più assoggettato ai propri istinti, narcisistici e di
continuazione delle specie. Si camuffa da supereroe, giustiziere,
redentore e garzone, mentre dentro di sé cura con estrema
meticolosità il germe del capitalista, dell'arrogante, del tiranno.
Ama sfruttare il pianeta, cedendo ai posteri le sfide per la
sopravvivenza. Ama approfittare degli altri, per instaurare il
proprio egoistico impero. Nato dal caso o dal nulla, attraversa il
sentiero degli istanti edificando sulla polvere il proprio dominio
provvisorio. Ma di quale regno l'essere umano crede di essere il
sovrano? Della precarietà? O soltanto delle proprie egocentriche
allucinazioni? Con il lessico della guerra, della violenza, della
potenza, rende il mondo un baccano di voci stridenti dal dolore e
dalla morte. Urla, che piegano la coscienza come ferro impotente
sotto i colpi del martello dell'inevitabilità. Sono irrefrenabili
queste grida. Fanno male, perché sono il frutto della banalità
della vita. Vita, troppo presa alla leggera, intesa come un gioco
oltre misura, fuori da ogni limite, finché non si cozza contro quel
muro, la morte, dal quale non è più possibile cominciare il gioco
da capo... Ma quassù c'è pace. Si sta bene. Niente grida, niente
abusi né speculazione. Qua sopra non esiste sovranità alcuna, se
non quella del silenzio e della solitudine. Qui tutto è trasparente,
bello, malgrado la tragicità del panorama. Qui la voce della
coscienza, come se fosse diventata un tutt'uno con lo scenario
circostante, parla chiaro. Non siamo altro che nebbia, isolate bolle
di fumo in cerca di una giustificazione o di un dio, destinate a
diradarsi alla prima luce del sole.
Nel Viandante
sul mare di nebbia, Caspar David Friedrich rappresenta quel che
vede l'uomo della conoscenza dall'alto delle vette del pensiero.
Sostenendosi alle conoscenze del momento e alle residue forze
rimastegli, lo scenario che scorge è la nebbia, la fugacità e
transitorietà delle cose. Anche la sua. Tutto appare privo di
senso, ingiustificato, superfluo. Il mondo, l'umanità, la storia,
l'accadere sembrano sprovvisti di una traiettoria nascosta, di una
meta ultima portatrice del significato della vita. Vagando solitario
tra le domande che lo affannano, l'essere umano incontra
l'impossibilità, l'assenza di una risposta. Vede il fluire continuo
delle cose e il loro imperturbabile divenire e si quieta. Sì, trova
la pace. In fondo, l'insensatezza e l'informità dell'essere ha già
un senso: il suo mero apparire, effimero e sublime. C'è del bello
nell'accadere, ed è la malinconia della fugacità. Tutti gli enti
riecheggiano tale tristezza ma soltanto l'essere umano l'ha
dimenticata. Per questo motivo si angustia rendendo ogni sfera della
vita una trincea senza fine. Anziché deturparsi diventando un
soldato per nulla, l'essere umano dovrebbe riappropriarsi di questa
amarezza, di questa bellezza, perché essa è la strada l'etica e la
ragione. Come l'osservatore del dipinto, occorre fermarsi e
contemplare l'esistente, scorgere quel frammento che accomuna gli
enti: la mortalità. Soltanto così dal finito può nascere
l'infinito e, come nebbia, aprirsi per lasciare che le cose
dischiudano la propria verità. Dio, nulla, l'autenticità
dell'esistente può essere garantita da entrambi. Anziché
distorcersi con i mostri partoriti dalla sua follia, l'essere umano
dovrebbe soltanto custodire questo segreto assieme ai suoi simili.
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