- di Saso
Bellantone
Una
candela rossa
e un
fischio di pipistrello;
un muro
grigio e fioco
che può
sembrare un castello.
Ragionando
per gioco
col
proprio mucchio d'ossa,
è bello
che un poco si possa
indovinare
dove
conduce la notte.
La notte... Amica tanto attesa, nemica detestata, presenza, o
assenza, ricorrente nel corso della nostra permanenza in questo
“posto” soggetto da sempre alle più disparate interpretazioni e
congetture. C'è chi la brama già alle prime luci dell'alba, chi
invece la disprezza in ogni bianco istante; c'è, anche, chi vive
soltanto nel suo grembo, poiché all'interno di esso si cela, e si
mostra, il mistero del “posto” in cui ci si trova. Egli si
interroga, vaneggia, sogna e si lascia andare in teorie e
fantasticherie simili a tesori, per i pazzi, e a miseria, per i savi.
Eppure costui vive, sì, vive... Vive il tempo sconnesso di un
“posto”, apposto e alla rovescia assieme. La luce di una candela
tiene compagnia. Rossa, sì, come il colore del volgare “capo
d'anno”, in quanto è nella notte che si nasconde, e si manifesta,
la fine e l'inizio. Già... la fine, e l'inizio, di questo “posto”
matto e logico nel contempo, nel quale si è relegati malgrado sé,
finché la fine finisce e l'inizio... inizia. Fa paura soltanto a
pensarci... la fine e l'inizio, istantanei, fugaci, effimeri, come il
fischio di un pipistrello... nella notte, sì. Nella notte. Dove
riposa il segreto di questo “posto”, il suo cominciare e il suo
terminare... Dove tutto può apparire, contemporaneamente, per quello
che è e che non è. Come un muro, antico e debole può avere
l'aspetto di un castello rievocante altri tempi o... viceversa. Come
un uomo, vecchio e stanco, può sembrare un dio o... soltanto un
uomo.
Qui, nella notte, niente è definito fuorché la notte, il buio,
l'incapacità di vedere e, anche, l'abilità di sapere la propria
mortalità, finitudine, caducità, in questo “posto” che, come
donna timida e imbarazzata e confusa, non vuole spogliarsi degli
abiti che occultano la sua bellezza, la sua verità. E allora si
gioca, si immagina, ci si illude, si tenta a indovinare l'enigma che
tanti altri pensatori e poeti e amanti e semplici mortali hanno fatto
prima di noi, invano. E ciò, coscienti della propria mortalità, ha
un che di bello, di incantevole, di meraviglioso. Perché, se non
nella sua essenza, sempre “altrove” conduce la notte.
In questa poesia, che intitola l'omonima raccolta (Città del Sole,
2012), Carlo Menga esprime in pochi versi le emozioni provate
dall'uomo innanzi alla notte. Ente dotato di un potere capace di
stregare ogni vivente, la notte è il luogo primo della veglia,
dell'esser desti, dell'interrogarsi intorno al senso e alla
definizione di questo “posto” chiamato mondo. Nella notte, in
compagnia della fioca luce di una candela, attraversato dal brivido
che la domanda stessa suscita, l'essere umano pensa e gioca e ragiona
e ironizza sul mistero dei misteri, l'enigma dell'enigma, l'esserci
cioè, come un surplus, in un luogo che non ha volto né concretezza
nonostante la propria materialità, presenza, evidenza. Sconfitto da
una domanda che non troverà mai risposta alcuna, è bello
indovinare, tentare, pronosticare finché se ne ha il tempo; finché
il tempo stesso, non ha svelato ormai la malattia di cui siamo
infetti, soltanto per essere innanzi alla notte nel porci, oppure no,
il suo interrogativo: la nostra mortalità.
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