- di Saso
Bellantone
Lentamente,
la nave oltrepassava le calme acque dello Stretto, proprio come un
millepiedi attraversa una distanza pari ai gradini dell'uscio di una
casa. Lentamente, la rondine solcava il cielo blu in direzione del
proprio nido, proprio come pescespada salta oltre la schiuma marina
per rintanarsi nella sua tana. Lentamente, le automobili scorrevano
per la via principale del paese, proprio come i barattoli di legumi
sopra il nastro trasportatore all'interno di una catena di montaggio.
Lentamente. Pacatamente, passava la vita nel piccolo paese del
Meridione. Come se tutto fosse avvolto nelle maglie di un sogno
appena cominciato. La fila alla posta o al bar centrale, le ore di
scuola o quelle sul posto di lavoro, la mano a tressette dello zio o
la cottura della parmigiana della nonna, tutto avveniva a rilento,
passo passo, senza fretta, come se il destino di quella bella
giornata primaverile fosse già segnato, deciso, stabilito da
qualcosa, o qualcuno, che si prendeva tutto il tempo necessario per
l'importanza del momento.
Lentamente
il supersantos rimbalzava sulle brune piastrelle che ricoprivano la
terrazza e lentamente Lazzaro gli andava dietro, per afferrarlo con
le sue manine, lanciarlo nella direzione opposta, riprenderlo e
scagliarlo nuovamente dall'altra parte. Era felice, Lazzaro. O
meglio, non sapeva nemmeno lui che cosa provava. Era, semplicemente,
su quel terrazzo, assieme al pallone e ai movimenti automatici e
privi di ragione che la palla stessa gli imponeva di compiere.
Correre, saltare, andare, tornare, afferrare, lanciare, stare. Stare,
sì, seduto per un tempo incalcolabile e indescrivibile sopra la
sfera arancione e a linee nere, finché gli adulti non sarebbero
apparsi dal nulla e l'avrebbero riportato a casa sua. Ma gli adulti,
quegli strani esseri alti e grossi non comparivano, e lui se ne stava
seduto sul pallone, dondolandosi avanti e indietro, tenendosi
sorridente alle sbarre della balconata.
Fu allora
che accadde.
All'improvviso.
Come
temporale sotto il cielo azzurro, come boato in un silenzio
sepolcrale, Lazzaro sentì. Sentì qualcosa colpirlo immaterialmente,
calarsi dentro di lui, riempirlo dalla testa alla schiena, facendo
vibrare le sue orecchie di un suono tonante, profondo e acuto nel
contempo. Come riemergendo dalle acque o svegliandosi di colpo da un
lungo sonno, Lazzaro capì che stava respirando, sentiva l'aria
entrare dentro di lui, riempirlo e svuotarlo armonicamente,
costantemente, senza possibilità di opposizione alcuna. Abbassò la
testa e scorse il suo corpo, il suo petto, la sua pancia, le sue
gambine. Si ritrovò seduto sul supersantos, con le mani aggrappate
all'inferriata che dava sulla via principale del paese. Vide la nave
e lo Stretto, il millepiedi e i gradini della casa di fronte, la
rondine e il pescespada. Udì il cinguettio della prima e il fracasso
del corpo del secondo che sbatteva sul mare. Udì il rumore delle
automobili e quello della catena di montaggio sotto il palazzo, le
voci della gente in fila alla posta e al bar, quelle dei bambini a
scuola e degli operai sul proprio posto di lavoro, quella della zio
che chiamava l'asso e dell'olio che friggeva le melanzane. Percepì
il profumo dell'aria, la sua freschezza sfiorare timidamente la sua
carne. Avvertì il cattivo odore dello scarico della macchine, la
fragranza della frittura proveniente dalla cucina della nonna, il
sapore della saliva nella bocca, la morbidezza del supersantos su cui
era seduto, la freddezza dei ferri a cui era aggrappato. Captò
quell'indecifrabile senso di movimento, di dinamismo, di vitalità
che coinvolgeva tutto, tutte le cose facenti parte di quell'ambiente
che gli stava attorno e di cui soltanto in quell'istante si era
accorto.
Si alzò di
scatto e guardò il pallone su cui era seduto poco prima. Era
sconvolto e provava pace nel contempo. Non capiva cosa gli stesse
accadendo. Gli sembrava di essere stato catapultato su quella
terrazza da chissà dove, da un luogo nascosto di quell'ambiente in
cui si trovava. Si sentiva pesante, si girò rapidamente pensando
qualcosa, o qualcuno, si fosse appoggiato a lui, sulla sua schiena,
ma non c'era niente, non c'era nessuno...
Sentì
qualcosa pulsare dentro di lui, un ritmo ignoto e familiare nel
contempo, incomprensibile ma già udito, nuovo ma già sentito in
qualche altro posto... Mise una manina sul petto e avvertì la sua
pressione. La tolse e, alzata anche l'altra, cominciò a osservarle
entrambe. Strani segni le attraversavano. Le lasciò cadere ai suoi
fianchi e scorse nuovamente la palla colorata immobile sotto di lui.
Non capiva
e non aveva paura, eppure gli sembrava di sapere già quello che
stava accadendo. Poi corse.
Corse
dentro, nella cucina, in direzione della mamma, seduta innanzi alla
nonna che preparava la parmigiana, e la strinse a sé. Riconosceva il
suo volto, forse, era l'unica certezza che aveva in quel momento di
confusione e di innata consapevolezza che avvertiva.
Stringendosi
più forte che poteva alle braccia di lei, l'immagine del pallone
abbandonato sul terrazzo fissa nella sua testa, si chiedeva, per la
prima volta, pur sapendo già la risposta, come fosse stato possibile
di essersi svegliato soltanto adesso.
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