- di Saso Bellantone
Foglie secche, non ancora portate
via dal vento, sono sparse su di un sentiero di campagna che si snoda
attraverso prati appassiti e alberi spogli, in direzione di una casa. Su di una
collina vicina a quest'ultima torreggiano dei sempreverdi, mentre le colline
sullo sfondo, che racchiudono la cittadina, celano un sole nascente o un
tramonto, i cui raggi si riflettono sulle statiche nuvole, colorandole
d'inverno.
È questo il Paesaggio d'inverno di Vasilij Vasil'evič Kandiskij. Un luogo
desolato, sì, ma pigmentato d'anima o... di pensiero. È il momento del ritorno
in casa propria, sia “casa” una dimensione concreta oppure la propria
interiorità. L'osservatore sembra spinto a muoversi attraverso l'arido sentiero
rappresentato nel dipinto in direzione di uno spazio sicuro, di un ultimo
baluardo per proteggersi dalla società o semplicemente da se stesso. Sfiorita,
è ormai la realtà, dove ha camminato fino ad alcuni istanti prima, spoglie sono
le certezze con cui finora ha orientato il proprio passo, fuorché l'imperitura
evidenza, a volte schivata, che la “casa” è l'unico ambiente in cui sentirsi
davvero custoditi, preservati, difesi. Ma da che cosa tutelarsi? Dalla società,
da se stessi o da entrambi?
Vivere nella società implica la piena
accettazione delle sue regole, spesso a scapito delle proprie. È un cammino
totalmente programmato, dalla culla alla bara, durante il quale ogni passo non
è altro che l’attuazione dei suoi imperativi prestabiliti e inviolabili. Fin dalla
tenera età, si è educati a macchinizzarsi, a omologarsi, a diventare un numero
della grande catena di montaggio che è la società stessa. Vivere in essa vuol
dire appartenere attivamente al ciclo lavoro-produzione-consumo, fin quando si
respira. Nei tempi di riposo da questo ciclo, la società consente, o meglio
comanda, ai suoi ingranaggi di narcotizzarsi con la tv, la musica, la
letteratura, il cinema, i quotidiani, la religione, le vacanze, gli acquisti e
tutti i servizi in e out door preparati, allo scopo di offrire loro una
parvenza di libertà e di convenienza, dunque, nel far parte di essa. Per questo
motivo, non ci si accorge che quanto si è prodotto, con sacrifici, non è mai
proprio bensì una temporanea concessione che la società stessa, rapidamente, si
riprende, sia esso una casa, un’automobile, una famiglia, dei figli, un abito o
qualsiasi tipologia di produzione intellettuale. Ma a un certo punto, l’illusione
dell’opportunità di far parte della società comincia a traballare, specialmente
quando s’inizia a capire che tutte le forme di narcosi presenti in essa non
sono altro che progetti pensati, appunto, per il consumo e la schiavitù eterna alla
catena di montaggio. Si comincia così ad avvertire stanchezza, fisica e
mentale, insicurezza, spaesamento. Comincia a pesare la certezza che il lavoro,
la produzione non basta mai in relazioni ai consumi inconsciamente suggeriti e
a cui ci si è stati abituati. S’inizia a comprendere che la propria vita è
stata interamente immaginata, calcolata allo scopo di restare continuamente
legata alla catena di montaggio, senza possibilità di fuga, senza via d’uscita
alcuna. Allora ha inizio il disgusto, il rifiuto della società in tutti i volti
che la costituiscono e il disprezzo verso se stessi. La monotonia sociale ormai
assimilata appare come un incubo, una follia, e ci si chiede se ancora esiste
qualcosa in se stessi che possa essere individuato come la propria identità, la
propria unicità. In questo momento, si voltano le spalle alla catena di
montaggio e ci si avvia altrove, seguendo quel sentiero che conduce al proprio
rifugio.
L’ambiente è spettrale, la strada
su cui ci si muove dolorosamente è arida al pari del proprio io. Le certezze
sono avvizzite, spoglie sono le colonne d’Ercole su cui quest’ultime
poggiavano, ingiallito è il terreno su cui esse crescevano. È difficile
procedere e la tentazione di arrestarsi e di abbandonarsi al fato è allettante,
ma ecco che poco più avanti s’intravede finalmente il proprio asilo.
È il momento. È la scelta. Il ricovero
nel proprio sé può essere l’alba di un nuovo inizio o solamente il tramonto
definitivo delle possibilità. La porta non si vede. Non è facile entrare. Manca
soltanto un passo, con il quale smettere di essere un numero e cominciare a
essere ciò che il proprio stesso nome mostra e nello stesso tempo nasconde. Ci vuole
forza per farlo, quella forza che si crede di non possedere più e che invece
attende di essere evocata. Ma attendendo indecisi sull’uscio, si comincia ad
avvertire ciò che non si è mai provato nella catena di montaggio: aria pulita,
aria libera, il proprio respiro vitale. E quando ci accorge di questo, si
scopre di trovarsi già all’interno del riparo, dentro se stessi, dove tutto ha
un altro senso e dove la propria “casa” non può essere altro che la natura.
Paesaggio d’inverno di Kandiskij offre l’occasione di pensare per
dicotomie – società/natura, io/sé, calcolo/pensiero eccetera – e di mettere a fuoco
le risposte a quegli interrogativi che all’interno della società non è
possibile trovare. È un’opera spirituale… o del pensiero, perché osservando
tale paesaggio invernale, l’osservatore focalizza l’inverno che dimora nel
proprio animo, a causa di una società programmata schiavizzare l’essere umano e
avvizzirlo, riducendolo a un pezzo intercambiabile per il proprio
sostentamento. I colori del dipinto sono vivi, accesi, inducono l’osservatore a
caricarsi di quella speranza che la società invece sciupa, e cioè che il mondo
umano e l’essere umano stesso possono differenziarsi da quanto imposto loro
finora, in maniera definitiva. Basta volerlo, operando quel ribaltamento di
fronte tante volte auspicato e pensato, che richiede tutte le proprie forze. Basta
trovare il sentiero che conduce al di là del circuito spersonalizzante lavoro-produzione-consumo
e passare, per esempio, al ciclo cura-ricezione-servizio, più naturale e più
umano, perché presuppone un rapporto diverso con la terra in cui si dimora, e
in cui si è nati, con se stessi e con gli altri, concepiti questi ultimi come “terra
che possiede un volto” al pari di sé.
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