- di
Saso Bellantone
Riportami, o sole,
al mio destino
agreste,
pioggia del vecchio
bosco,
riportami il profumo e
le spade
che cadevano dal
cielo,
la solitaria pace
d’erba e pietra,
l’umidità dei
margini del fiume,
il profumo del larice,
il vento vivo come un
cuore
che palpita tra la
scontrosa massa
della grande
araucaria.
Terra, rendimi i tuoi
doni puri,
le torri del silenzio
che salirono
dalla solennità delle
radici:
voglio essere di nuovo
ciò che non sono stato,
imparare a tornare
così dal profondo
che fra tutte le cose
naturali
io possa vivere o non
vivere: non importa
essere un’altra
pietra, la pietra oscura,
la pietra pura che il
fiume porta via.
La città uccide. La
società uccide. Il contratto sociale uccide. Nel tempo dello Spread
e della crisi economico-finanziaria, si lavora giorno e notte e,
tuttavia, si è esangui. Tutti i beni, i servizi o le esperienze
necessari alla sopravvivenza, ma anche quelli superflui, hanno un
prezzo, una tassa, un mutuo, un affitto, una rata, una bolletta, uno
scontrino da pagare. Ma il corrispettivo economico che ogni volta si
paga, segna in realtà il sangue versato o da versare per avere quel
che occorre. Si nasce col sangue e si muore dissanguati, perché
tutto costa del sangue. Crescere dei figli, vestirsi, sfamarsi,
abitare una casa, curarsi o curare gli altri, connettersi, viaggiare,
studiare, respirare, amare, donare, lavorare – tutto ha il suo
prezzo vermiglio. Ma ormai la continua offerta di sangue allo Stato
non è più sostenibile. Si muore. Si muore per dissanguamento, prima
ancora del proprio tempo, prima ancora di aver vissuto. O di averci
soltanto provato.
In questo tempo di
inevitabile, costante e innumerabile morte prematura di popoli, ci si
rende conto che non conviene più restare in città e far parte della
società o di uno Stato. L'insostenibilità della vita – anzi della
morte – statale, costringe ineluttabilmente a gettare uno sguardo
al di là della gabbia di cemento, meccanismi e circuiti finora
abitata, ed è in quel momento che si scorge la soluzione. Occorre
svincolarsi radicalmente dal sistema dissanguante statale. Tornare
alla vita agricola, alla terra, al sole, alla pioggia che cade dentro
ai boschi e al suo profumo di terra, alla pace dell'erba e delle
montagne, all'umidità dell'acqua dei fiumi, ai profumi della
vegetazione, alla vitalità del vento che scuote le fronde degli
alberi. Bisogna “voler essere di nuovo ciò che non si è stati”,
ossia smettere di essere dei cittadini e tornare a essere ciò che
sono stati soltanto i nostri antenati: dei contadini. È necessario
imparare nuovamente che l'essere umano non è la creatura centrale
tra tutte quelle generate dalla natura, ma ha lo stesso valore di
qualunque altra, anche di una pietra, nascosta tra le profondità
della terra o portata via da un fiume.
Rileggendo attualmente O
terra, aspettami di Pablo
Neruda, nel contesto sopra sintetizzato, si ha l'occasione: da un
lato, retroattivamente, di gettare uno sguardo critico sulla società
e sulla vita cittadina che si conduce; dall'altro, direttamente, di
considerare il suggerimento di un ritorno alla natura e alla vita
contadina. La città dissangua sì, ma il peso di tale dissanguamento
consiste in una concezione della vita che considera l'essere umano il
centro della natura e dell'universo. Tornando invece alla terra,
l'essere umano rioccuperebbe il posto che gli spetta, in altre parole
pari a quello di ogni altro essere vivente. Che cosa cambierebbe,
dunque, con questo ritorno alla natura e alla terra? Che mentre in
città, per un tempo indefinito, si passa una vita continuamente
dissanguata, priva cioè di significato alcuno malgrado tutti i beni,
i servizi e le esperienze di cui ci si attornia per mezzo del vile
denaro, ritornando invece alla terra si comprenderebbe il significato
dell'esistenza, pur vivendo un tempo breve, come poveri nella
ricchezza della natura.
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