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di Gianmarco Iaria
Velocità,
velocità, velocità. È questa la regola del mondo post-moderno. Velocità di
pensiero, di azione, di reazione. Velocità nei rapporti umani, nelle
interazioni sociali. Velocità di memoria e di oblio. La società dell’I-live, in
cui i fili che collegano una persona con il suo prossimo sono ormai quasi
totalmente virtuali, si basa sulla velocità. La lentezza è, per l’appunto,
parafrasando una celebre espressione di Celentano, “lenta”; il dinamismo è
“rock”, è forza, esprime vitalità, fa apparire meglio di quanto non si è.
Sembra non ci sia più posto per la riflessione accurata, che per i canoni
attuali richiede troppo tempo; c’è troppo altro da fare per potersi concentrare
su una cosa sola, svilupparla, conoscerla in ogni particolare, analizzarla e
imbastire un minimo di pensiero critico. Gran brutto periodo per il pensiero
critico. E non serve nemmeno andare troppo oltre per capirlo: basti pensare ad
un’espressione che ha caratterizzato l’ultimo secolo, attraversando
trasversalmente diversi periodi storicamente determinanti per la condizione
socio-economica del mondo occidentale; l’industrializzazione, il “boom
economico”, la lotta di classe e il materialismo dialettico di marxiana memoria
hanno avuto, per diversi motivi, come punto focale l’ “elevazione delle masse”.
Che bella espressione, vero? Un popolo schiavizzato dalla logica finanziaria,
sottopagato, subordinato al potere economico di pochi pezzi grossi che riescono
a gestire a loro piacimento anche il potere politico, d’un tratto si risveglia,
si accultura, prende coscienza della propria condizione e lotta per la
sopraffazione degli oligarchi che stabiliscono le sorti del mondo,
convincendosi della propria forza derivante proprio dal numero, della serie:
“Siamo di più, armiamoci e partiamo”. Nulla di tutto ciò, purtroppo. De André,
nella sua canzone “Un Blasfemo”, raccontava la storia di un pover’uomo, dedito
all’alcool ed alla vita dissoluta e libertina, che viene ucciso da due guardie
bigotte; i versi che spiegano l’ideologia del blasfemo raccontano di come egli
si allontana da Dio perché crede che sia stato Dio stesso, donando all’uomo
l’Eden, a nascondergli l’esistenza del male, ingannandolo. Quando l’uomo si
mostrò troppo curioso, decidendo di mangiare la fantomatica mela, l’Onnipotente
lo punì inventando il tempo, e quindi, la morte. Una canzone dal senso
metafisico, si direbbe; tuttavia è con l’ultima strofa che essa raggiunge un
fortissimo significato attuale, moderno: “Ma se furon due guardie a fermarmi la
vita / è proprio qui sulla Terra la mela proibita / e non Dio ma qualcuno che
per lui l’ha inventato / ci costringe a sognare in un giardino incantato.”
Quattro versi dalla ferocia inaudita, che condannano l’ammorbamento dei sensi
di cui è vittima da tempo immemore la classe dei “non potenti”, di cui è
fautrice la classe di chi può, di chi ha. Nulla è lasciato al caso: gli
avvenimenti, le leggi, gli sport, la tv, il cibo, i vestiti, le persone, le
parole, ogni cosa, ogni aspetto dell’esperienza umana che può avere un
qualsiasi tipo di influenza sulla mente diviene strumento di controllo, di
pressione ed oppressione. Ogni cosa si sussegue, e viene sfruttata secondo il
grado di importanza che può rivestire in un dato periodo di tempo: lo scandalo
del politico, la vittoria della squadra del cuore, l’omicidio, la bomba che
scoppia ed uccide. Tutto viene utilizzato. Tutto serve per riempire. Il vuoto è
pericoloso. Il vuoto, se c’è, è spazio libero: e lo spazio libero è genera il
pensiero libero. Ed il pensiero libero genera la critica; e la critica genera la presa di coscienza; e la presa di
coscienza genera la rivoluzione.
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