- di Saso
Bellantone
1944.
Bagnara. C'è uno strano suono nell'aria. Non è quello
dell'esplosione delle bombe, eppure le pareti della Vecchia Galleria
Ferroviaria e i cuori sembrano scuotersi lo stesso. Vibrano, si
lasciano attraversare da quel suono dolce, melodico, continuo... È
da tempo che non si sente un tale silenzio e anziché lasciarsi
condurre fra le tenere braccia di Morfeo, la gente, incredula, si
sveglia.
È al limite
delle forze. Stanca, sporca, affamata di cibo, di aria fresca e
pulita, e di pace. Uomini, donne, bambini, anziani, tutti gli
abitanti del paese, riversatisi all'interno del vecchio tunnel, nella
speranza di scampare ai bombardamenti, si ridestano come incantati da
quella risonanza e cominciano a uscire fuori. Fuori da quella gabbia
dove per tanto tempo ci si è auto-rinchiusi per sopravvivere alla
follia delle grandi Nazioni. Fuori da un incubo apparentemente senza
fine.
Là, dove il
silenzio sembra insolitamente troneggiare e avere origine, la gente
comincia a raccogliersi. Si guarda incredulamente attorno e poi,
iniziando ad abbracciarsi, a stringersi le mani, si scambia
un'occhiata meravigliata l'una con l'altra, per avere la conferma che
il silenzio è vero e non un'illusione della coscienza. Spunta
qualche lacrima, qualche sorriso. Ma nessuno, nemmeno i più piccoli,
osano proferire parola, per non spezzare le maglie di quel silenzio
incomprensibile. I ricordi di giorni e giorni passati all'addiaccio,
sono ancora troppo vivi. Morti, feriti, ammalati, quante persone sono
scomparse sotto i loro occhi dentro quel benedetto e maledetto
tunnel. Dove nel gelo invernale, per riscaldarsi, è bastato il
respiro di un altro, mentre nell'afa estiva, lo stesso respiro poteva
anche ucciderti, specie mischiandosi con il puzzo della latrina nelle
profondità della galleria, dove i meno coraggiosi andavano a orinare
e defecare.
Quei ricordi
sono ancora intensi ma più intensi, adesso, sembrano i raggi del
sole che spuntano da dietro il monte Cucuzzo, illuminando il paese
distrutto e fumante. Non un colpo di cannone né di mitragliatrice
sembra riecheggiare nelle vie. Non una nave all'orizzonte né volo di
aereo tedesco sembra solcare il cielo. È troppo bello per essere
vero, però nessuno ha il coraggio di pronunciare le parole proibite.
Si attende, immobili e all'ascolto, nella speranza di non sentire mai
rumore alcuno che spezzi il silenzio, confermando che l'incubo non è
ancora finito e la guerra ancora dilaga.
Ma alcuni non
stanno nella pelle. Anziché restare a guardare, scendono in paese,
o, meglio, in quel che ne resta, per fare un sopralluogo e capire
come stanno davvero le cose. Vanno in squadre, adulti e bambini come
sempre, questi ultimi più adatti per i lavori che richiedono
maggiore agilità e più difficili da convincere a rimanere al sicuro
nella galleria.
La gente
davanti alla galleria li osserva taciturna perdersi lentamente nel
curvone all'orizzonte, come antichi spettri svaniti alle prime luci
di un sole che sembra diverso, quest'oggi. Sembra un sole nuovo, più
caldo, più pacato. Un sole auspicante nuova chiarezza, nuovi giorni,
nuovo tempo libero da incubi e presagi nefasti.
Giunte
all'altezza del macello, passando attraverso la montagna perché il
ponte non esiste più, le brigate partite in ispezione dal tunnel dei
rifugiati si dividono: una va a monte, direzione Porelli. Un'altra a
valle. Per cautela, si procede di viuzza in viuzza e di casa in casa,
nascondendosi dietro ogni rudere e rottame. Giunta al rione Milano,
la squadra si divide e si comincia a esplorare le vecchie case. Tra
le macerie, Peppino, un ragazzino di 16 anni, scorge casa sua e non
trattiene la tentazione di addentrarvisi.
È tutto come
l'aveva lasciato. Il tavolo con il cassetto dove la mamma stipava
quel che restava, se si era fortunati, del pranzo o della cena, le
sedie, il baule contenente pochi abiti e alcune lenzuola, la
credenza, continuamente vuota, il lettone nel quale dormiva assieme
alle sorelle maggiori, prima che si scatenasse la guerra. Stupendi
ricordi gli tornano alla mente, vissuti felicemente assieme alla sua
famiglia malgrado la povertà e la fame, scacciati subitaneamente via
dal ricordo del sopraggiungere della guerra.
Stava
tornando a casa quando erano esplose le prime bombe, facendo crollare
su stessi interi palazzi, come fatti di burro. La gente urlava,
piangeva, scappava in ogni direzione, mentre pezzi di calcinacci
volavano in lungo e in largo. Aveva avuto paura e si era riparato in
preda al panico dietro un'automobile. Poi però gli erano venute alla
mente la mamma e le sue sorelle, sole, terrorizzate in casa propria,
in balia delle esplosioni. “Ora sei tu l'uomo di casa” – gli
aveva detto il padre, prima di partire per combattere – “Pensa tu
a loro”. “Te lo prometto papà!” – aveva risposto fieramente
il ragazzino. “Io tornerò presto.” – aveva proseguito il
padre, carezzandogli il mento. Invece non era più tornato. Così
Peppino si era fatto coraggio, aveva raggiunto casa e mantenuto la
promessa, scortando la sua famiglia, da bravo ometto, là dove tutti
si rifugiavano: nella galleria ferroviaria.
I ricordi
sono interrotti da uno strano rumore lontano, continuo, metallico che
si avvicina sempre più assordante, chiassoso, tonante, fino a far
tremare le vecchie mura di casa. Istintivamente Peppino si getta
sotto il tavolo tappandosi le orecchie, sperando che non si tratti
degli invasori. Teme di essere scoperto e di essere deportato, come
gli adulti raccontavano, nelle regioni dell'alta Europa. Poi, quando
le mura cominciano a scricchiolare, lasciando cadere calcinacci sul
pavimento, ecco che l'insopportabile frastuono finisce e torna il
silenzio. Lo stesso silenzio dentro il quale si erano svegliati
stamane.
Ma non è
proprio il silenzio. Strane voci si diffondono nell'aria. Voci
sorridenti, sì, ma incomprensibili, a parte quella di Ciccio il
pescatore, il capo squadra. Sembra rivolgersi a quelle voci
indecifrabili.
Incuriosito,
Peppino esce fuori dall'abitazione e giunto in piena piazza Milano
scorge l'impensabile. L'amico parla con due uomini in divisa ed
elmetto che fuoriescono dalla parte superiore di uno strano mezzo
corazzato, su cui è impressa una bandiera a stelle e strisce. I due
continuano a lanciare con delicatezza degli oggetti a Ciccio, dicendo
parole mai sentite e gesticolando, ma i tre non si capiscono. I
soldati ridono, masticano, scherzano tra di loro, continuando a
rivolgersi all'amico con parole e gesti, l'amico li guarda inebetito
senza rispondere, provocando nuovamente il riso dei due.
Scorgendo il
ragazzino avvicinarsi indeciso verso di loro, i due cominciano a
chiamarlo, facendo segno di avvicinarsi senza paura: “Hi boy! Come
on! Come here! Lest go...”. Mentre il ragazzino si avvicina, uno
dei due sparisce all'interno del mezzo corazzato per poi tornare alla
vista con una manciata di oggetti tra la braccia, che inizia a
lanciare verso di lui.
Peppino
comincia ad afferrarli istintivamente ma non riuscendo a prenderli
tutti perde l'equilibrio e cade per terra, mentre i due soldati
continuano a lanciargli gli oggetti addosso. Peppino li osserva.
Scatolette, gomme da masticare, caramelle, dollari e quant'altro. È
interamente sommerso da alimenti e leccornie. Sorride. Apre un
pacchetto giallo e, scartatone il contenuto, lo annusa. Sembra
cannella. Infila in bocca due o tre lingue del prodotto e comincia a
sgranocchiare. Sono gomme. Gomme da masticare. Le più buone che
abbia mai assaggiato.
“Do you
like?! Ah ah ah ah ah!” – ridono i due, con quegli occhioni più
luccicanti del sole appena nato.
Peppino fa
cenno di sì con la testa, ricambiando il sorriso e mettendo in bocca
altre gomme da masticare.
“Now, give
us an apilus! Understand?! Apilus! Apilus! ” – dicono i due,
guardando ora Peppino ora Ciccio, che continua a osservare incredulo
gli uomini in uniforme. “Oh my god! Apilus boy, apilus!
Understand?! Apilus! Apilus!”
“Ma chi
lingua parranu chìsti, Cicciu! Chi dinnu?!” – Peppino chiede
all'amico.
“Ma chi
ssacciu, Peppinu! Sunnu 'Mericani! Avi na ura chi dinnu apilus
apilus e fannu i sta manera ch'i mani ma jeu propriu non capisciu
chi stannu ricendu!” – gli risponde Ciccio, unendo le mani allo
stesso modo dei soldati, e mostrandole al ragazzino.
“Apilus!”
– ripete Peppino, osservando gli uomini in uniforme che,
continuando a ripetere la stessa parola, fanno finta di portare una
mano in bocca e di azzannare – “Vo' virìri ca chìsti vonnu i
puma?!” – si rialza di scatto il ragazzino, imitando il gesto
dei soldati, i quali, vedendolo iniziano a urlare festosi “Yes boy!
Apilus!”.
Infilatisi
nelle tasche altri pacchetti di gomme da masticare, Peppino fa segno
ai soldati di restare dove sono e si precipita in fretta e furia
dentro casa sua, dalla quale esce rapidamente con uno dei lenzuoli
contenuti nel vecchio baule. Poi corre in direzione montagna e va nei
terrazzamenti dell'amico Mimmo, perdendosi tra i vigneti e gli alberi
da frutto, finché non giunge dinanzi ad alcuni meli. Arrampicatosi
sull'albero, Peppino inizia a strappare le mele e a gettarle sul
lenzuolo aperto proprio sotto di lui, riempiendolo in un batti
baleno. Sceso poi dall'albero e richiuso alla bene in meglio il
lenzuolo, Peppino torna nuovamente dai soldati, mostrando loro il
contenuto del telo ed gridando loro gioiosamente: “Apilus! Apple!
Mela!”.
“Yes boy! Apple! Apple! Great boy!” – rispondono gli uomini in
uniforme, ricoprendolo nuovamente di scatolette, alimenti e qualsiasi
altra cosa in loro possesso.
Riempito il telo di tutto quel ben di Dio, Peppino corre il più
velocemente possibile assieme a Ciccio e agli altri compagni di
spedizione in direzione della galleria ferroviaria, dove li attendono
la mamma, le sue sorelle e gli altri rifugiati. Non vede l'ora di
dare loro tutti quegli alimenti ma soprattutto di pronunciare quelle
parole che, dalla mattina, nessuno osava recitare per paura che il
messaggio annunciato dal silenzio svanisse. Adesso può farlo, può
pronunciarle davanti agli altri e poi assieme agli altri. Sì, il
silenzio mattutino era veritiero. Quel silenzio spezzato da una
parola sconosciuta, indicante qualcosa di così semplice come può
essere una mela, era portatore della notizia che tutti sentivano già
nei loro cuori. “La guerra è finita”. Non è un sogno, ma la
verità. L'incubo nelle cui nere maglie tutti erano rimasti
ingabbiati, ha iniziato a diventare soltanto un brutto ricordo.
* Dedicato a Nonno Peppe.
Nessun commento:
Posta un commento