- di Saso Bellantone
Ne è passato di tempo. A
parte qualche sporadico post, è trascorso un anno, senza scrivere e
con tanto pensare ma, soprattutto, con tanto da fare. La vita, non
quella virtuale che abbindola dietro gli schermi delle nuove
tecnologie, bensì quella vera, in carne e ossa, chiama e non puoi
voltarle le spalle. Pena: la perdita totale della propria identità,
ammesso di averne una o di essere convinti di averla.
L'identità è la Sfinge,
il lago di Narciso, l'Urlo di Munch dell'essere umano. Sulla base
dell'epoca, della civiltà, del continente, della regione, della
città in cui vive e sulla base della comunità, della famiglia,
dello status sociale a cui appartiene, della formazione ricevuta,
degli incontri avvenuti, dei sogni infranti e delle sconfitte
incassate, ma soprattutto sulla base della sensibilità posseduta,
dell'apertura (o della chiusura) mentale che ha, degli amori e dei
dolori patiti, dei maestri e dei ciarlatani con cui si è confrontato
e di un'incalcolabile ventaglio di incognite che sconquassano la vita
come bandiera strappata alla sua asta e in balia del vento, l'essere
umano traccia e cancella sulla tela invisibile del suo animo uno
schizzo confuso di quella che ritiene la propria identità.
Un'immagine effimera, precaria, che dura il tempo di essere depennata
dalle persone che ha conosciuto e conosce (in realtà, non le conosce
affatto), che costituiscono, rappresentandola, la società e dunque
anche la regola, il giusto, il buono, il bello di essa. E così è
per tutti.
Arriva il momento in cui
ci si sente depennati, archiviati, esclusi, eterei e quello che si è
sempre stati e che si è sempre fatto non ha più valore del tempo
misurato da un orologio qualsiasi. Bisogna fermarsi, staccare,
isolarsi negli abissi più bui e nelle vette più fredde alla ricerca
di una qualche certezza di esserci davvero, concretamente,
materialmente, di essere vivi in un mondo di zombie. Sì, perché è
così che appare il mondo quando si sceglie (o non si può fare a
meno) di vivere al contrario della società e di manifestarsi, agli
occhi degli altri, come l'irregolarità, l'ingiusto, il cattivo, il
brutto. Agli occhi degli altri.
“L'inferno sono gli
altri” dice Sartre. Parafrasandolo: “Gli altri sono l'inferno”.
E ha ragione. Specie quando si scrive (la penna o i tasti sono il
prolungamento del propria essere pensante e senziente) per qualcun
altro. La scrittura dovrebbe migliorare, se non il mondo, almeno
qualcun altro e, invece, ognuno non resta che tale e quale a prima,
anzi peggiora, degenera nella sua regressione, mostrando quello che è
sempre stato dietro le belle facce e le belle parole. Il bello degli
altri, appunto.
Questo, naturalmente,
toglie tutte le forze, fa crollare ogni speranza, smantella ogni
sacrificio svolto. È inutile, ci si dice, continuare a scrivere.
Tanto non cambierà nulla e nessuno. Così ci si autosospende da
questo regno del sottosopra, si posa la penna, si chiude la tastiera
dentro il cassetto e si attende un segnale, un indizio o anche un
presagio che qualcosa, adesso, stia cambiando veramente e che
qualcuno, ora, mostri chiaramente di essere sempre stato quello che
ha manifestato. E così è stato.
In questo anno sabbatico
pochissimi hanno avuto il coraggio (perché in un mondo di zombie e
pecore è l'ardimento che è scomparso) di bussare alla porta, di
suonare il campanello e di attendere una risposta o, per chi era
fisicamente lontano, di prendere il tracciatore istantaneo (il
cellulare), di selezionare il numero e di telefonare (o soltanto di
mandare un messaggio). Nessuna sorpresa, lo si sapeva già che per la
maggior parte non si è mai esistiti se non per interessi personali,
di qualsiasi natura siano. Questo è stato determinante per
distinguere i vivi e i leoni dagli zombie e dalle pecore. E lo è
ancora, adesso che, forse, l'anno sabbatico è sul finire e sta per
iniziare un anno nuovo. Un nuovo inizio che, per essere tale, deve
necessariamente portare con sé le orme del vecchio percorso: sia
quelle profonde, cariche di dolore e gravità, sia quelle più
superficiali, piene di amore e leggerezza.
Chi è stato tra quei
coraggiosi, sa benissimo le gioie e i dolori provati in questo anno
sabbatico e anche prima di esso, e non ha bisogno di vederseli
elencati; chi, invece, non lo è stato, non troverà catalogo alcuno
in questo post, se non il biasimo di saperlo parte della società,
della sua regola, del suo giusto, del suo buono, del suo bello, e che
l'ha rovinata e continua a rovinarla, egoisticamente, fregandosene
non soltanto dei maledetti altri ma anche dei propri cari e di coloro
che verranno.
Alla luce di queste
considerazioni e sull'impotenza della scrittura per cambiare, almeno,
qualcun altro, mi è stato detto: scrivi per te stesso. Ci ho pensato
ma la scrittura è per natura comunicazione, evento, apertura,
ricerca, dialogo; è fatta di parole e, in quanto tale, è sempre
rivolta a qualcun altro. Questa convinzione è tra i pochi detriti
rimasti del vecchio viaggio, con i quali intraprendere il nuovo, e
con essa ho ritrovato tanti altri detriti, ancora solidi e, anzi, più
resistenti di prima, con i quali tracciare un'altra bozza nel mio
animo.
È a voi, pochissimi
coraggiosi, che dedico questo post e, anche, a chi ancora,
naturalmente, non può sapere di questa dedica.
Ben ritrovati!
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