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mercoledì 14 febbraio 2018

From de sabbatical year (ben ritrovati)



- di Saso Bellantone

Ne è passato di tempo. A parte qualche sporadico post, è trascorso un anno, senza scrivere e con tanto pensare ma, soprattutto, con tanto da fare. La vita, non quella virtuale che abbindola dietro gli schermi delle nuove tecnologie, bensì quella vera, in carne e ossa, chiama e non puoi voltarle le spalle. Pena: la perdita totale della propria identità, ammesso di averne una o di essere convinti di averla.
L'identità è la Sfinge, il lago di Narciso, l'Urlo di Munch dell'essere umano. Sulla base dell'epoca, della civiltà, del continente, della regione, della città in cui vive e sulla base della comunità, della famiglia, dello status sociale a cui appartiene, della formazione ricevuta, degli incontri avvenuti, dei sogni infranti e delle sconfitte incassate, ma soprattutto sulla base della sensibilità posseduta, dell'apertura (o della chiusura) mentale che ha, degli amori e dei dolori patiti, dei maestri e dei ciarlatani con cui si è confrontato e di un'incalcolabile ventaglio di incognite che sconquassano la vita come bandiera strappata alla sua asta e in balia del vento, l'essere umano traccia e cancella sulla tela invisibile del suo animo uno schizzo confuso di quella che ritiene la propria identità. Un'immagine effimera, precaria, che dura il tempo di essere depennata dalle persone che ha conosciuto e conosce (in realtà, non le conosce affatto), che costituiscono, rappresentandola, la società e dunque anche la regola, il giusto, il buono, il bello di essa. E così è per tutti.
Arriva il momento in cui ci si sente depennati, archiviati, esclusi, eterei e quello che si è sempre stati e che si è sempre fatto non ha più valore del tempo misurato da un orologio qualsiasi. Bisogna fermarsi, staccare, isolarsi negli abissi più bui e nelle vette più fredde alla ricerca di una qualche certezza di esserci davvero, concretamente, materialmente, di essere vivi in un mondo di zombie. Sì, perché è così che appare il mondo quando si sceglie (o non si può fare a meno) di vivere al contrario della società e di manifestarsi, agli occhi degli altri, come l'irregolarità, l'ingiusto, il cattivo, il brutto. Agli occhi degli altri.
“L'inferno sono gli altri” dice Sartre. Parafrasandolo: “Gli altri sono l'inferno”. E ha ragione. Specie quando si scrive (la penna o i tasti sono il prolungamento del propria essere pensante e senziente) per qualcun altro. La scrittura dovrebbe migliorare, se non il mondo, almeno qualcun altro e, invece, ognuno non resta che tale e quale a prima, anzi peggiora, degenera nella sua regressione, mostrando quello che è sempre stato dietro le belle facce e le belle parole. Il bello degli altri, appunto.
Questo, naturalmente, toglie tutte le forze, fa crollare ogni speranza, smantella ogni sacrificio svolto. È inutile, ci si dice, continuare a scrivere. Tanto non cambierà nulla e nessuno. Così ci si autosospende da questo regno del sottosopra, si posa la penna, si chiude la tastiera dentro il cassetto e si attende un segnale, un indizio o anche un presagio che qualcosa, adesso, stia cambiando veramente e che qualcuno, ora, mostri chiaramente di essere sempre stato quello che ha manifestato. E così è stato.
In questo anno sabbatico pochissimi hanno avuto il coraggio (perché in un mondo di zombie e pecore è l'ardimento che è scomparso) di bussare alla porta, di suonare il campanello e di attendere una risposta o, per chi era fisicamente lontano, di prendere il tracciatore istantaneo (il cellulare), di selezionare il numero e di telefonare (o soltanto di mandare un messaggio). Nessuna sorpresa, lo si sapeva già che per la maggior parte non si è mai esistiti se non per interessi personali, di qualsiasi natura siano. Questo è stato determinante per distinguere i vivi e i leoni dagli zombie e dalle pecore. E lo è ancora, adesso che, forse, l'anno sabbatico è sul finire e sta per iniziare un anno nuovo. Un nuovo inizio che, per essere tale, deve necessariamente portare con sé le orme del vecchio percorso: sia quelle profonde, cariche di dolore e gravità, sia quelle più superficiali, piene di amore e leggerezza.
Chi è stato tra quei coraggiosi, sa benissimo le gioie e i dolori provati in questo anno sabbatico e anche prima di esso, e non ha bisogno di vederseli elencati; chi, invece, non lo è stato, non troverà catalogo alcuno in questo post, se non il biasimo di saperlo parte della società, della sua regola, del suo giusto, del suo buono, del suo bello, e che l'ha rovinata e continua a rovinarla, egoisticamente, fregandosene non soltanto dei maledetti altri ma anche dei propri cari e di coloro che verranno.
Alla luce di queste considerazioni e sull'impotenza della scrittura per cambiare, almeno, qualcun altro, mi è stato detto: scrivi per te stesso. Ci ho pensato ma la scrittura è per natura comunicazione, evento, apertura, ricerca, dialogo; è fatta di parole e, in quanto tale, è sempre rivolta a qualcun altro. Questa convinzione è tra i pochi detriti rimasti del vecchio viaggio, con i quali intraprendere il nuovo, e con essa ho ritrovato tanti altri detriti, ancora solidi e, anzi, più resistenti di prima, con i quali tracciare un'altra bozza nel mio animo.
È a voi, pochissimi coraggiosi, che dedico questo post e, anche, a chi ancora, naturalmente, non può sapere di questa dedica.
Ben ritrovati!

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