- di Saso Bellantone
Vincenzo Laurendi ha 31
anni e scrive da quando ne ha 17. Nasce nel 1982 a Saronno, in
provincia di Varese, ed il ritorno in Calabria costituirà uno dei
tre spartiacque della sua esistenza. Infatti, a soli tre anni subisce
un incidente stradale che lo segnerà per il resto della vita,
causandogli una paresi facciale. Trasferitosi per diversi anni in
Toscana, a 16 anni torna in Calabria (secondo spartiacque) e inizia a
scrivere: prima una novella satirica sulla scuola e le sue
condizioni, poi comincia con le poesie. Le prime disastrose cotte
sono il tema principale, mentre con la vita accademica si rende conto
di tante altre cose importanti, laureandosi nel 2005 in Lingue e
Letterature Straniere all’Università di Messina. Sfondata la quota
2000 con le poesie (in italiano, inglese, francese, spagnolo e
vernacolo bagnarese), scrive un bel po’ di novelline di ogni tipo,
dal giallo al surreale. Nel 2006 arriva il terzo spartiacque: una
cotta importante non ricambiata, anzi, vissuta dalla ragazza con
spietatezza ed utilitarismo, che involontariamente gli mostrerà come
si sta davvero al mondo. Da ragazzo timido ed indeciso diventa molto
più deciso e guardingo, ma senza mai rinunciare ai suoi valori. Nel
2008 si specializza in Lingue e a novembre viene chiamato a insegnare
alla scuola elementare “Archimede” a Rozzano, in provincia di
Milano. Impara a vivere da solo, senza l’apporto dei genitori, con
le sue sole forze, un’esperienza estremamente formativa. Dal 2009
collabora come corrispondente sportivo con il portale d'informazione
Costaviolaonline.it. Nel 2010 svolge un'altra esperienza didattica,
stavolta in una scuola media, per un mese. Dal 2011 collabora come
corrispondente sportivo con la Gazzetta del Sud e dal gennaio 2012
collabora con la web radio Radiobagnaraweb sia come speaker sportivo
sia conducendo programmi di musica rock alternativa e rap. Nel giugno
2012 pubblica il romanzo “Ti darò il mio cuore” (Caravilla).
Attualmente vive a Bagnara Calabra.
Come ti sei avvicinato
alla scrittura?
Non credo di essermi
avvicinato io, ma che lei si sia avvicinata a me. Ho letto tanto nel
periodo in Toscana, da Verne e Lussu a Tolstoj, ma credo mi abbia
influenzato, soprattutto politicamente, il romanzo “1984” di
George Orwell. Dopo 19 anni è ancora il mio romanzo preferito e lo
rileggo con immenso piacere. Un giorno di scuola, durante un’ora
buca, prendo la penna in mano descrivendo la situazione scolastica,
ma in maniera molto sarcastica. Avevo appena letto “Pancreas” di
Giobbe Covatta, credo di essermi ispirato a lui. Poi, qualche giorno
dopo aver terminato questa novellina che mi piace definire quasi come
un pamphlet, ho iniziato a scrivere poesie.
Che cos'è la
scrittura?
La scrittura è un’amica
fedele, è una psicologa che scava dentro te stesso, e spesso ti
aiuta a risolvere problemi che sembravano insormontabili o che altre
persone non riescono a capire. Dopo la musica, credo sia l’arte più
completa in assoluto.
Cosa pensi riguardo al
senso, allo scopo e agli usi della scrittura, sia a livello
individuale sia sociale, nel mondo contemporaneo?
Che la scrittura debba
avere un senso, uno scopo ed un uso ben precisi. È un’arte troppo
nobile per essere ridotta solo ad un mero mezzo di guadagno, come
fanno alcuni. Sono assolutamente scettico sul fatto che essi abbiano
voluto solo intrattenere un lettore o sfogarsi per qualcosa come
faccio io, e così la scrittura diventa un male, diventa volgare,
improponibile.
I Greci impiegavano il
termine “poiein” per significare “creazione”. Poi questa
parola, nel corso del tempo, si è trasformata di linguaggio in
linguaggio, fino a diventare in italiano per esempio , la parola
“poesia”. Quando un poeta comunica se stesso, cioè scrive una
poesia, è un creatore di mondi, riproduce il mondo, crea nel senso
pieno della parola. Puoi definire le tue storie “poesie”, opere
d'arte, creazioni nel senso pieno del termine?
Magari opere d’arte è
esagerato, ma “creazioni” mi piace tantissimo come definizione.
Le mie prime poesie nascono a tempo di musica, come le “creatures”
di Tori Amos, la mia cantante preferita. In esse creo un mondo,
magari il mio mondo ideale, o semplicemente la maniglia della porta
che mi procuri la libertà di cui spesso mi sento privo.
Perché scrivi? Perché
senti l'esigenza di comunicare mediante l'arte della scrittura?
Come ho detto prima,
molto spesso mi sento soffocare, mi sento estremamente deluso dal
mondo che mi circonda, perché troppe volte è l’opposto di quel
che sognavo. Vedo violenza facile, droga, imbrogli, e per una persona
pacifica, salutista e leale come me non è qualcosa di accettabile.
Mi riparo nel mio piccolo mondo e spero di coinvolgere qualcuno,
perché essere in una situazione bellissima ma non avere nessuno con
cui condividerla è quasi peggio che non esserci.
Che cosa racconti nei
tuoi scritti?
Un po’ di tutto. A
volte mi sono cimentato in gialli, horror, thriller, storie d’amore.
L’amore è centrale nelle mie creazioni, lo è quasi sempre. Ed
indovina perché? Proprio perché ne ho avuto pochissimo, ovvero
quello dei miei genitori e di alcuni dei miei familiari, ma sento di
avere tanto da dare e nessuno che lo riceva. Nei miei scritti,
insomma, vivo come vorrei vivere davvero.
Uno scrittore può
sentirsi tale senza i lettori?
Ci sono i tipi da “torre
d’avorio”, tanto per citare Sainte-Beuve. Io non lo sono. Sono
rattristato da quel che vedo, ma fatto sta che adoro ridere e far
ridere. La condivisione è fondamentale, non solo per fare entrare
altre persone nel tuo mondo personale, ma anche per confrontarti,
scoprire se ci sono errori o cose di questo genere, per migliorarti
anche dal punto di vista artistico e personale.
Che cosa significa
oggi vivere come uno scrittore e vivere esclusivamente della propria
arte? Quali sacrifici comporta accettare questo incarico, questa
missione?
Oggi come oggi, senza la
“pedatona nel sedere” o l‘appoggio di una grande casa editrice
ciò non è possibile. Io sono un piccolo scrittore, e mi sta
benissimo rimanere tale. L’unica cosa che vorrei è poter scrivere
e pubblicare senza vincolo alcuno, perché sono nato uccel di bosco e
così voglio restare.
Cosa ti spinge a
restare nel sud?
“Spinge” è una
parola molto grossa. Più che altro “costringe”. Il fatto di non
avere un lavoro nonostante i titoli è frustrante, doversi ancora
appoggiare ai genitori e non avere la possibilità di formare una
famiglia mia lo è ancor di più. Ciò non significa che io disprezzi
il Sud Italia, ma la sua situazione: mafia, spazzatura, ignoranza, ma
soprattutto disoccupazione. Se avessi un buon impiego resterei qui,
soprattutto per i miei genitori.
Puoi definirti un
sognatore? Qual è il tuo sogno nel cassetto?
Non soltanto mi definisco
un sognatore, ma, come ho scritto in uno dei miei piccoli aforismi,
“Foglie sparse al vento”, sono “un sognatore di professione”.
Per questo polemizzo, protesto, dico le cose senza peli sulla lingua,
e magari risulto antipatico, se addirittura non mi attiro l’odio
della gente. Ciò non so per quale motivo capiti, se perché non mi
capiscono, se perché vengo frainteso, se semplicemente vogliono che
tutto rimanga com’è perché preferiscono una routine sicura,
seppur orribile, piuttosto che un ignoto che potrebbe riservare tante
sorprese. Da piccoli ci insegnano a dire sempre la verità, ma fatto
sta che quando la dici la gente non ti apprezza. Sento gente che
parla di cambiamenti, di rivoluzioni eccetera, ma se queste parole le
uso io vengo stigmatizzato, come se non ne avessi il permesso o se
avessero paura che io potrei riuscire in ciò in cui loro non
riescono. Migliorare le cose non è un obiettivo solo personale,
vorrei fosse una cosa globale. Come detto prima, a che servirebbe
senza qualcuno con cui condividerlo?
Riguardo il sogno nel
cassetto... è avere un sogno. Certo, affermarmi, realizzarmi in
toto, ma non fermarmi mai, continuare senza sosta la ricerca di me
stesso, anche quando son convinto di averlo trovato, perché, citando
Faletti, “mentre decidi se son buono o son cattivo, fa’ che la
morte mi trovi vivo”.
Il tuo ultimo libro
s’intitola Ti darò il mio cuore. Di che cosa parla?
Uno dei lettori, poco
prima della presentazione a Bagnara mi ha detto che è “un inno
all’amore”. No, io non sono il tipo. Il mio romanzo è più che
altro una denuncia della sua mancanza, perché l’amore oggi come
oggi, quello vero, è difficilissimo trovarlo. Ci si “innamora”
per paura di stare soli, o per convenienza. Quando in piazza Marconi
vedi tutte quelle giovanissime coppie, quello non è amore, ma ormoni
adolescenziali impazziti. Vorrei vederli davanti ad un mutuo da
pagare, a dei figli, alle tasse. Si mollerebbero in un secondo. Ma
non c’è solo questo: “Ti darò il mio cuore” è pieno di
motivi, dalla voglia di rivalsa del Sud alla musica, consolatrice e
consigliera, dall’amicizia più pura al troppo potere di alcuni
professori universitari che si approfittano degli studenti perché
non hanno controlli. Molti di quelli che hanno letto il mio libro,
anzi, quasi tutti, mi hanno detto che è “molto scorrevole e
semplice”, ma in realtà è molto complesso.
Alcune parole per i
giovani.
I giovani d’oggi hanno
pochissimi punti di riferimento, la loro unica salvezza è sapere più
cose possibili e diffonderle, perché il male del ventunesimo secondo
è l’oscurantismo propugnato dall’ignoranza, che ha permesso, per
esempio, ai nostri politici di prendersi privilegi che non ha nemmeno
uno sceicco del Dubai. I giovani sono il futuro, e non è un modo di
dire. C’è un bellissimo pensiero di Crozza – ebbene sì, non
Nietzsche, Schopenhauer, Socrate.. ma Crozza – in cui diceva che
quando diventi grande, il mondo non è più tuo, ma è un prestito
per cui devi lavorare sodo per donarlo ai tuoi figli. Secondo me,
quella soglia si è abbassata parecchio, perché oggi come oggi i
giovani devono guadagnarselo, il mondo, o rischieranno di non avere
nulla. Io, nel mio piccolo – perché ancora mi ritengo un giovane,
e “lavoro” da giornalista e da insegnante con tantissimi giovani
– sto tentando di fare del mio meglio, perché voglio scongiurare
un’immagine che mi viene in mente spesso. Sono sul monte Cucuzzo,
ho due bei bimbi sulle mie ginocchia ed ammiro il mondo circostante,
vedo immondizia, criminalità, politici corrotti, gente menefreghista
e dico loro: “ragazzi, un giorno tutto ciò sarà vostro..
perdonatemi.” E ciò non può succedere, non deve succedere, e non
succederà. Basta solo che ci mettiamo tutto di noi stessi. Un
legnetto è facile da rompere, ma un fascio di legnetti no. Insomma,
giovani, liberatevi della tecnologia, o almeno, non fatevi fare il
lavaggio del cervello da lei, liberatevi dall’ignoranza, dai
teoremi facili e dalle superstizioni, ed impegnatevi per essere il
meglio possibile. Certo, soffrirete, dovrete aver pazienza per vedere
dei risultati, ma alla fine.. sapete la soddisfazione?
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