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lunedì 18 giugno 2012

L’ARTE PERIFERICA: intervista a Ivan Rocco Iannì


- di Saso Bellantone
Nato a Reggio Calabria, Ivan Rocco Iannì si dedica alla creazione artistica fin da giovane, utilizzando diversi tecniche e stili. Frequenta il Liceo Artistico a Reggio Calabria, con il quale partecipa al concorso artistico “La Grande Guerra”. Finiti gli studi, partecipa a un concorso d’arte organizzato da un’associazione reggina, intitolato “La donazione degli organi”. Attualmente, vive a Bagnara.

Come ti sei avvicinato all’arte?
Fin da bambino ho sempre avuto, più che una voglia artistica, una voglia di sperimentare. Quando andavo a scuola elementare si parlava di San Rocco ed io l’ho disegnato sul quaderno senza neanche guardarlo. Ricordo di averlo visto solo una volta a Cetraro e in quell’occasione dimostrai di avere una grande immaginazione e memoria. La maestra e i miei genitori sono rimasti stupefatti perché ricordavo tutti i particolari e mi hanno spinto a frequentare il Liceo artistico. Il Liceo più che un aiuto è stata una distrazione. Però grazie al Liceo ho avuto modo di imparare le tecniche, la modellazione, le strutture in gesso e ho avuto modo di appassionarmi sempre di più all’arte. In che senso il Liceo è stato una distrazione? Quando si pensa a un artista si pensa a un Leonardo o a un Michelangelo, a un qualcuno insomma che è abbastanza possente di immaginazione, di arte e via dicendo, e non a un ragazzo che con un palloncino pieno di pittura macchia un muro. Però dagli un nome a questo ragazzo e anche lui diventerà qualcuno. Questo scoraggia molti ragazzi che hanno molta qualità. Ma in alcuni casi lo fanno anche gli insegnanti. A un ragazzo che sa tirare una linea dritta gli si dice che è un artista, se invece la fa storta – e cioè molto più artistica di una linea dritta – allora gli si dice che non sa disegnare. In questo senso il Liceo è stato una distrazione. Per fortuna, però frequentandolo ho anche imparato qualcosa. Nel corso della crescita disegnavo quando mi veniva chiesto oppure quando avevo un’ispirazione talmente forte da istigarmi a farlo. Per esempio se vedevo una lumaca, pensandoci continuamente prendevo matita, penna e pittura e giocavo sull’idea della lumaca incontrata. Spesso, però, quello che mi frenava era il giudizio, la comprensione di quello che realizzavo. Allora preferivo andare a giocare con gli amici anziché restare a casa per creare. Tuttavia, non riuscivo a frenare il mio istinto di creare o meglio di fantasticare con le cose. Se per esempio andavo in spiaggia con gli amici, prendevo delle pietre e facevo un disegno sulla sabbia. Quindi, pur frenando la mia passione la esprimevo in una maniera diversa. Col tempo questa passione si è evoluta. È passata dal voler vedere al vedere per voler pensare. Cioè una volta finito un disegno, poi mi fermo a guardarlo, immagino altre cose dentro quel disegno e le metto dentro. In un certo senso non è solo uno sfogo mentale ma anche uno studio. Io riesco a dare un titolo a un disegno soltanto dopo averlo visto, non quando lo sto realizzando. Per esempio questo dipinto che abbiamo davanti rappresenta il passaggio dall’infanzia alla maturità. Sono partito disegnando un bambino poi prima di finirlo, dopo aver messo qualche sfumatura e ombreggiatura, ho aggiunto la figura della donna. Il bambino vede sott’acqua questa donna nuda e i suoi occhi non sono più dolcissimi occhi ma due pesci, i quali simboleggiano il passaggio dall’infanzia alla maturità, simboleggiato anche da una bolla dove ci sono due gambe aperte e avviene un’erezione, provocata appunto dal vedere una sirena sott’acqua. I due pesci pagliaccio simboleggiano invece l’infantilità. I pesci disturbano la sirena dal suo sonno, uno le mordicchia la coda l’altro gioca con lei. Poi c’è una grande maschera che rappresenta la fragilità che cade dal bambino, appunto, con la maturità. Quindi, una volta finita l’opera ricordo le sensazioni che avevo mentre la realizzavo e quest’ultime mi suggeriscono il senso dell’opera e il suo titolo.

Che cos’è l’arte?
Non giudico un’opera pittorica arte, la parola stessa arte vuol dire “fare qualcosa”. Dipingere, disegnare sono tecniche artistiche. Per me l’arte è fare o rifare qualcosa con quello che si ha disposizione o sotto mano. Per esempio, quando ero piccolo mi trovavo in Villa Comunale assieme a mia sorella, e lei si era accorta che prendendo dei semi e dei rametti avevo fatto un’ape. L’arte è la capacità di guardare un oggetto e vederne un altro, oppure di prendere un oggetto e di trasformarlo o di ripensarlo mostrando per suo tramite qualcos’altro, ricontestualizzarlo. Per esempio, prendere uno spremiagrumi e farlo diventare un centro tavola o una trottola. L’arte è la comunicazione che avviene esponendo qualcosa. È la traduzione di alcune sensazioni, di alcuni pensieri che inconsciamente si conoscono ma non si hanno ben chiari. Quindi è la comunicazione chiara di quelle che sono le cose astratte, i pensieri, le sensazioni, le immaginazioni. Un artista naturalmente ha chiaro che cosa vuole comunicare con la sua opera rispetto a un osservatore che la vede per la prima volta. Naturalmente un artista può preferire una tecnica rispetto a un’altra o più di una, un linguaggio rispetto a un altro o più di uno, ma quando fa arte comunica sempre qualcosa ad altri.

Cosa pensi riguardo al senso, allo scopo e agli usi dell’arte, sia a livello individuale sia sociale, nel mondo contemporaneo?
Ogni cosa, dunque anche l’arte, può essere osservata da diversi punti di vista. Ogni persona trovandosi a ricevere comunicazioni da opere d’arte prova sensazioni comuni a tutti, ma in un modo diverso. L’arte dovrebbe essere uguale per tutti: dovrebbe comunicare la stessa cosa a tutti in modo diverso, perché ognuno ha la sua esperienza, i suoi ricordi, i suoi pensieri e i suoi modi di percepire le cose. C’è chi usa l’arte per accomunare tutti su alcune sensazioni, pur provate in maniera diversa, c’è invece chi la usa per manipolare gli altri e le loro stesse sensazioni. Quindi, c’è chi la usa in maniera positiva e chi la usa in maniera negativa. Per esempio, nel markentig si usa l’arte in modo negativo. La pubblicità è manipolante. Per vendere una macchina, per esempio, si mette di fronte alla macchina una donna che si comporta in una precisa maniera per indurti, subliminalmente, ad acquistare la macchina. Ma la manipolazione avviene anche per mezzo di colori, forme, oggetti, tutto quello che può tornare utile per lanciare messaggi subliminali e indurre gli altri a comportarsi in un preciso modo anziché un altro. Io uso l’arte per comunicare l’arte stessa, non per lanciare messaggi subliminali o per manipolare la gente.

I Greci impiegavano il termine “poiein” per significare “creazione”. Poi questa parola, nel corso del tempo, si è trasformata di linguaggio in linguaggio, fino a diventare in italiano per esempio, la parola “poesia”. Quando un poeta comunica se stesso, cioè scrive una poesia, è un creatore di mondi, riproduce il mondo, crea nel senso pieno della parola. Puoi definire le tue opere “poesie”, opere d'arte, creazioni nel senso pieno del termine?
Le mie opere, se con creazione intendiamo qualcosa che nasce dal nulla, non sono creazioni. La creazione dal nulla non esiste. Ogni cosa nasce sempre da qualcos’altro. Ogni pensiero o fatto materiale è relativo, nasce da altro che ha istigato quella cosa. Se intendiamo creazione nel senso di modifica di qualcos’altro, allora le mie opere possono essere intese come delle creazioni. Dipende dalla prospettiva con cui si guarda o si rappresenta qualcosa o la si usa, per farla diventare qualcos’altro e manifestarsi come una creazione, cioè come un’opera d’arte. A scuola per esempio i professori ci mettevano sempre in posizione frontale rispetto a un vaso sul tavolo che dovevamo rappresentare. Io cambiavo prospettiva, mi spostavo finché, per esempio, al primo vaso non si accostava un secondo e tra i due non veniva fuori un volto. Per essere più precisi, quindi, con la mia arte non creo nulla, offro soltanto agli altri diverse prospettive con cui osservare pensieri, sensazioni, oggetti e quant’altro.

Perché fai arte? Perché senti l'esigenza di comunicare mediante l'arte?
Se nessuno mi avesse detto che esiste l’arte, la pittura, Leonardo, gli artisti e via dicendo, avrei continuato a disegnare, a raccogliere rametti al parco per poi produrre qualcosa e a fare tante altre cose. Sento l’esigenza di fare arte perché se non facessi niente è come se non esistessi. Ognuno di noi per poter dire di esistere deve fare qualcosa. Io sento l’esigenza di fare arte, di tradurre in arte quel che mi accade o mi passa per la testa ma anche quel che mi viene chiesto da altri. Come ho spiegato prima, nel momento in cui creo un dipinto per esempio, non mi pongo il problema di comunicare ma mi lascio andare nella creazione. Dopodiché, osservo l’opera e comincio a ritoccarla, ad aggiungere o a togliere degli elementi, ricordando le sensazioni che avevo mentre lo dipingevo e, quindi, a comunicare dei significati precisi con quell’opera. Quindi, la comunicazione è indipendente nel momento creativo. Certamente, chi vedrà immaginerà per forza qualcosa guardando una mia opera. A volte, mi capita di spiegare un mio dipinto a qualcuno e questi mi dice di ritrovare i significati appena spiegati. Come avviene leggendo un libro, e cioè che tutti usano le stesse parole ma comprendono in modo proprio il significato di quello che hanno appena letto, lo stesso avviene con l’arte. I colori, le forme, i soggetti sono uguali ma ognuno poi li comprende a modo proprio.

Che cosa racconti con la tua arte?
Le sensazioni, quello che penso in quel momento. È come una persona che vede una cascata o una spiaggia e comincia a pensare oppure quando torna a casa, dagli amici o dai parenti e ha il desiderio di raccontare quello che ha visto. Quindi io racconto pensieri o emozioni suscitati da quel che vedo realmente o in maniera astratta. Naturalmente li racconto in maniera inconscia altrimenti rischierei di somigliare a coloro che usano l’arte per manipolare gli altri.

Un artista può sentirsi tale senza i pubblici?
Sì. All’inizio per esempio non mostravo le mie opere per timore di quello che pensa la gente. Poi ho capito che occorre che gli altri vedano quello che fai. Magari, non mostri loro tutto. Qualcosa la tieni per te, chiusa nel cassetto. Naturalmente mi farebbe piacere che gli altri vedessero le mie opere ma non è il nome o il pubblico che ti rende un artista. Ovviamente se centinaia di persone passassero dritte davanti a un mia opera, mi dispiacerebbe. Se tra queste persone, invece, una si fermasse e restasse a guardare la mia opera, provando delle emozioni, mi farebbe molto piacere, e ciò mi incoraggerebbe nella mia arte.

Che cosa significa oggi vivere come un artista e vivere esclusivamente della propria arte? Quali sacrifici comporta accettare questo incarico, questa missione?
In un certo senso, l’artista è un messaggero, qualcuno che vuole dire delle cose, che si esprime e che riesce a far capire ad altri quello che vuol dire. In questo senso, Leonardo Da Vinci, per esempio, non era abbastanza artista. Aveva cioè lo spirito del messaggero ma produceva la sua arte in maniera tale da non farla capire alla sua società. È vero anche che la società in cui viveva gli tagliava le gambe in partenza, perché non voleva che disegnasse quel che lui voleva disegnare veramente. Come lui, anche oggi la società in un certo senso ti proibisce di esprimere liberamente la tua arte, innanzitutto sul piano economico. Le tele, i colori, i pennelli costano tanto. Per vendere un quadro devi pagare delle tasse e via dicendo. Insomma ci sono tante di quelle sconvenienze economiche che, se ci si sofferma un attimo a considerarle, si decide di non fare l’artista. La società vuole che tutti la pensino nello stesso modo, non vuole pensiero libero né arte libera. Di conseguenza in una società del genere non si può vivere della propria arte, non si può vivere proprio, si può soltanto sopravvivere. Per questo motivo, finché lavoravo cercavo di risparmiare per poter acquistare tele, pennelli e quant’altro. Oggi che sto cercando un lavoro devo accontentarmi di quello che ho. È La società che ti spinge a fare tanti sacrifici ma non ti aiuta mai, specialmente se sei un artista.

Cosa ti spinge a restare nel sud?
La società. Quando lavoro al nord o all’estero, ogni tanto torno qui a trovare i miei parenti. Quando il lavoro non ce l’ho e non riesco a trovarlo, naturalmente, torno qui, perché non ho altre persone a cui appoggiarmi se non la mia famiglia. Se trovassi lavoro qui e mi sentissi a mio agio con la società, cioè se quest’ultima mi permettesse di esprimermi al massimo, allora resterei. Non trovando il lavoro qua, dunque non potendo vivere liberamente e non potendo esprimermi in toto, preferirei spostarmi là dove c’è il lavoro, e cioè dove posso essere indipendente e posso esprimermi artisticamente in maniera completa.

Puoi definirti un sognatore? Qual è il tuo sogno nel cassetto?
Se per sognatore s’intende chi ha soltanto sogni nel cassetto, allora non definisco tale, vado più per istinto che per sogni. Se invece s’intende chi immagina molto, allora sì. Naturalmente come tutti ho un sogno nel cassetto ma nel mio caso è quello di un’indipendenza economica costante, che mi consenta di portare avanti la mia arte.

Chi vuole seguirti e saperne un po’ di più sulla tua arte, dove può rivolgersi?
rccivan@gmail.com – cell. 349/4442422 – blog: caffeecornetto.blogspot.com

Alcune parole per i giovanissimi.
Fate tutto quello che volete, pensate, giocate, divertitevi più che potete. Lasciate stare tutto quello che vi dicono gli altri e se dovete disobbedire fatelo anche, però ragionate sempre su quello che fate, non agite mai senza pensare. Seguite le vostre doti naturali e non lasciatevi scoraggiare da nessuno. Avete la vita innanzi, vivetela tutta seguendo le vostre doti, il vostro pensiero e la vostra libertà. Siate felici.

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