- di
Saso Bellantone
Oggi
è luni dumani marti
la
me' sorti 'i ddà si parti
e
si parti 'i longa via
veni
sorti parra cu mia
veni
prestu non tardari
dimmi
comu haju a campari.
Vitti
'na vota 'na musca vulari
'ncoju
purtava tricentu bariji
vitti
nu ciuncu di mani e di pedi
supr'a
n' tignusu tirava capiji
occhju
non vidi e cori non doli
'mbidia
cu l'occhji orba è 'a furtuna
cuntra
'a furtuna non vali 'u sapiri
culu
nci voli u sapiri non giuva.
Il
Destino ha origine nella quotidianità, nella vita. Eppure,
paradossalmente, la sua strada parte da molto lontano.
Noi
percorriamo già tale sentiero ma non sappiamo se il Destino ci
segua, cammini assieme a noi o ci aspetti avanti a noi. Così, ci
chiediamo dove Lui sia, ogni volta che vediamo, sentiamo, assistiamo
o viviamo qualcosa di strano, di particolare, di irrazionale; quando
sperimentiamo fenomeni apparentemente contro le leggi della natura,
della societas o semplicemente del buon senso; quando sperimentiamo
fatti al di là di ogni ragione.
Innanzi
a quegli eventi, in altri termini, ci chiediamo quale sia il nostro
Destino, quale sia la nostra posizione, che cosa occorra fare da
parte nostra, perché non lo sappiamo proprio. Non riusciamo a capire
quegli avvenimenti, a concepirli, a prendere coscienza del fatto che
siano accadimenti reali, pur strofinandoci gli occhi più e più
volte, pensando di stare sognando. Ma quei fatti sono là, innanzi a
noi, veri, concreti, toccabili con mano, e fanno male. Davvero male.
Non
è possibile vedere persone comuni, poveri e sfortunati, caricarsi di
tutto il peso del mondo, con la speranza di andare avanti un solo
giorno in più in questa dannata vita; non è nemmeno possibile
notare persone sofferenti, castigate da Dio, dalla natura e dalla
società, disabili nel corpo e nel pensiero, scontrarsi
meticolosamente con altri ammalati, puniti e inabili esattamente come
noi.
Ma
la cosa che fa ancora più male, è che nessuno si accorge di loro,
anzi, che tutti sanno, vedono tali disperati ma ognuno passa dritto,
fa finta di non vederli, di essere cieco, pensando soltanto a se
stesso.
Eppure,
quando altri hanno raggiunto obiettivi importanti, quando hanno fatto
qualcosa di buono della propria vita, quando hanno un ruolo che conta
o anche semplicemente soltanto perché sorridono, perché sono
felici, perché hanno persone attorno che li amano, perché svolgono
il lavoro più umile del mondo o perché si accontentano di quel poco
o niente che hanno, sia una vecchia giacca, una maglia tutta
sgualcita, una baracca pronta a cadere o le pulci che gironzolano per
tutto il loro corpo – ognuno vede nitidamente e non è più lo
stesso. Si trasforma.
Si
odia, si disprezza l'altro talmente tanto da rovinarsi la vita, da
soffrire amaramente e quotidianamente nella speranza che oggi o
domani possa verificarsi una concatenazione di eventi o semplicemente
un fatto che consenta di distruggere la persona che detestiamo, che
ci ha rovinato la vita, soltanto perché l'abbiamo reputata più
fortunata di noi ma è, esattamente, sventurata come noi.
Siamo
noi a vedere diversamente l'altro. Evidentemente perché non nutriamo
sentimenti sinceri o perché siamo limitati dal nostro passato, dalla
nostra storia, dalle persone che abbiamo incontrato, dalle esperienze
che abbiamo vissuto, dalla musica che abbiamo ascoltato, dai libri
che abbiamo letto, da i film che abbiamo visto, dalla casa e dalla
strada nei quali siamo cresciuti e da tutto quello che ha intessuto
la nostra formazione. Siamo invidiosi e, quindi, non siamo capaci di
guardarci allo specchio e di giudicare prima noi stessi, perché
sappiamo già di essere niente di niente, e questo ci strazia. Non ci
permette di vivere.
È
molto meglio demolire chiunque altro non sia noi: solo così, è
possibile andare avanti.
Ma è
anche vero che in alcuni casi la fortuna è cieca, premiando chi ha
già tutto con altrettanto tutto. E allora ci si chiede che senso ha
la vita e sopportare enormi sacrifici per vedere realizzato, un
domani, un misero sogno, quando altri senza dedizione né sforzo
alcuno, soltanto per puro caso, o Destino, compiono in un istante
soltanto, quello per cui noi abbiamo lottato per tutto il tempo?
E
questo, fa ancora più male di tutto il resto.
Ogni
scienza e conoscenza è inutile se i giochi della vita sono così. Se
occorre soltanto la fortuna, allora è insensato pensare, fare,
vivere così com'è stato finora. È tutto sbagliato. Sottosopra.
Fuori posto. Tranne una cosa, una domanda: il Destino, questa
maledetta forza che regge la strada della vita, ci segue, cammina
assieme a noi o è, ancora, avanti a noi, pronto a manifestarsi?
Questo
interrogativo ci perseguita, permane insoluto innanzi al disordine,
al soqquadro dell'esistenza e del mondo umano, e rade al suolo il
nostro essere, più di qualsiasi altro evento, sentimento o pensiero.
Non
è più far finta di non vedere le disgrazie che accadono agli altri
né focalizzare chiaramente la fortuna altrui. Quello che non si vede
in alcun modo, è la risposta a quel quesito che ci strazia. Non si
comprende il Destino, proprio e altrui, e si rimane sospesi,
interrotti, galleggianti tra contrasti eternamente privi di
definizione, di colore, di chiave di violino che consenta di
penetrarne i segreti e la verità.
Le
parole e le note di Occhiu non vidi dei Mattanza, brano
dell'album “Cu non ha non è”, vanno al di là del mero racconto
popolare e della musica tradizionale. Parlano del nostro tempo, della
nostra società e dell'esistenza tutta. Inquadrano i sentimenti e i
comportamenti chiave, buoni o cattivi, che regolano la nostra vita,
gli accadimenti base che si ripropongono senza sosta alcuna nella
quotidianità, i pensieri e i drammi personali che il singolo
individuo sperimenta nella propria carne, innanzi
all'incomprensibilità dell'essere e dell'esistenza in generale. È
un capolavoro artistico, il cui testo scava negli abissi di ognuno,
rivelandone i contenuti nascosti, e la cui musica accompagna
malinconicamente tale svelamento, quello cioè degli usi e delle
abitudini, pratici e del pensiero, di ciascuno di noi.
Ma è
anche, così piace vedere tale brano, uno dei testamenti del grande
artista e autore, Mimmo Martino, recentemente e repentinamente
scomparso, lasciato a parenti, amici, musicisti a ascoltatori. Occhiu
non vidi fa pensare a come il cantore reggino ha condotto la sua
vita, facendola combaciare con la sua musica e quella dei Mattanza.
Una vita, e una musica, incentrata sulle grandi domande
dell'esistenza, scaturenti dall'ermetismo di una società e di una
quotidianità, nelle quali a mettersi in evidenza sono sempre i
paradossi, e i drammi, che la gente sofferente, povera, disperata e
disgraziata è costretta a vivere continuamente, generando in ognuno
i sentimenti peggiori provati nei confronti di chi vive le medesime
difficoltà; le assurdità e le tragedie che degenerano ogni essere
umano, privandolo della capacità di critica, del buon senso, della
coscienza e conducendolo a una visione della vita e degli altri
storpiata, tetra, illusoria; i controsensi e le sciagure che fanno
male e causano ulteriore dolore nei confronti dei propri simili.
Una
volta messo a fuoco tale scempio e le balorde reazioni a catena che
si sprigionano nell'animo umano, facendolo decadere, ognuno, e qui si
nota il punto di vista di Mimmo Martino, dovrebbe arrestarsi un
attimo e chiedersi qual è il proprio Destino: proseguire così come
è stato finora e continuare a fare come tutti fanno, abbandonandosi
alla degenerazione generale, oppure tentare di fare qualcosa di
diverso, originare un contro-movimento capace, almeno, di mostrare a
quante più persone possibili quanto si è miserabili? Quanta
bestialità è insita nella nostra carne ed è pronta a scatenarsi
non appena si perde il filo della ragione? Come vivere, avendo chiaro
quel che accade tra la gente, e non sapendo cosa fare per contrastare
tale incivilimento, barbarie, decadenza.
Mimmo
Martino camminava già con il Destino al suo fianco. Sapeva già che
cosa doveva fare. E lo faceva.
Raccontava.
Cantava alla gente la miseria, umana, intellettuale e sociale, di cui
ha riempito la propria quotidianità , nella speranza di vederla
cambiare, rinascere, risorgere assieme alla sua amata terra, la
Calabria. Narrava a tutti i propri mali e i propri grandi
interrogativi, li rendeva coscienti delle psico-patologie che hanno
infettato la società e, nel contempo, segretamente, diceva loro di
essere il contrario, di voler bene, di amare l'altro, nella fortuna e
nella sfortuna.
Non
è l'avere a decretare l'essere. Ognuno è, già, indipendentemente
da quello che ha (e che non ha), malgrado la società oggigiorno
convinca del perfetto opposto.
Occorre
essere, andare alla sostanza delle cose, ritrovare con la gente
l'armonia e la simpatia perdute, ritrovare se stessi e fare luce agli
altri per consentire loro di fare lo stesso, anche se tutto questo
comporta notevoli, immensi, infiniti sacrifici.
Non
c'è alternativa. Se non si cambia rotta, se non si cambia, è tutto
finito, e invece oggi, proprio mentre ci lasciamo condizionare dalla
società degenerata e ci abbandoniamo ai peggiori sentimenti che si
possano provare verso l'altro, c'è ancora tutto. Non è finita.
Siamo ancora in tempo per fare, ed essere, quindi, diversamente.
In
Occhiu non vidi, così come in tutti gli altri brani che
scritto, cantato e suonato, Mimmo Martino ci lascia in eredità
qualcosa in più della sua musica, dei suoi testi, della sua voce. Ci
dona il suo punto di vista, la sua prospettiva: la stessa che ha
animato la sua vita e che ha comunicato agli altri con la sua musica,
e che ora tocca a noi fare nostra.
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