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giovedì 13 novembre 2014

Sette anni e mezzo


- di Saso Bellantone
Il fragore dell'acqua limpida e fresca rendeva quella fontana simile a un totem, a un feticcio che caricava di sacralità l'intera piazza. Da sempre ed eternamente differente, l'acqua scorreva fuoriuscendo dalla bocca di quei buffi leoni ferrosi e arrugginiti, trasportando con sé le note di mondi e di tempi ormai andati. Malgrado fosse sempre la medesima, quelle note liquide generavano una strana sinfonia, un concerto naturale, innocente e antico al pari dell'Om da cui tutto ebbe inizio. Quel suono impareggiabile ammaliava tutti, grandi e piccoli. Attirava chiunque passasse da quelle parti così come il canto di una sirena alle foci di un fiume seduce e attrae a sé le ciurme di pescatori remanti sulle acque del mare attiguo. Non si poteva passare oltre. Come invasati da un potere avulso, occorreva fermarsi, sostare alcuni istanti alla fonte e bere alcuni sorsi di quel fluido cristallino, lasciando che rinfrescasse l'anima con la sua musica ancestrale e attuale nel contempo.
Anche Lazzaro, quel giorno, si era fermato da un lato della fontana per dissetarsi.

Aveva appena iniziato le scuole elementari e fino ad allora era solito uscire di casa assieme ai genitori o ad altri parenti. Quella mattina di domenica, tuttavia, per la prima volta gli era stato concesso di uscire da solo. Tanta era la gioia di poter valicare i confini casalinghi che, una volta varcata la porta e ritrovatosi fuori, non sapeva dove andare.
Aveva cominciato a pensare, a rivedere una per una tutte le immagini e i ricordi che la sua giovane mente custodiva nei magazzini della sua memoria, nella speranza di individuare un posto da visitare o qualcuno da andare a trovare, ma non gli venne in mente niente e nessuno. Non conosceva ancora quel posto al di fuori di casa sua né aveva amico alcuno. Così, per un attimo, era stato tentato di fare dietrofront e di tornarsene dentro casa, quando la sua piccola mente gli aveva offerto l'unica immagine chiara e distinta del paese che custodiva: la fontana nella piazza. Aveva sorriso, felice di aver trovato una meta, e si era subito incamminato sul vialone che portava alla destinazione.
Il cammino era lunghissimo. Doveva oltrepassare la distanza di numerose case, disposte in fila l'una con l'altra, da un lato e dall'altro lato della strada, muovendosi esclusivamente sul marciapiedi, come gli aveva detto la madre:
Nommu vai nta sthrada! Pecchì passanu i machini e ti 'mbestunu! E quandu a' passari i nu marciaperi all'authru, fermiti nte strisci, guarda i nu latu e poi ill'authru, e se no' passunu machini, passa a fujendu! Vo' mi vegnu cu tìa?”.
– No mamma... – aveva ribattuto prontamente – Ormai sono grande ed esco da solo!
E così aveva fatto. Solitario, come una rondine in mezzo al cielo azzurro in cerca di cibo, aveva sfidato l'ignoto del paese alla ricerca della fontana, unico riferimento sicuro per la sua folle, seppur iniziale e infantile, escursione. Che emozione! Finalmente era uscito da solo! Finalmente gli altri bambini non lo avrebbero più preso in giro e lo avrebbero considerato grande, un adulto!
Lungo il tragitto, osservava le case colorate simili all'arcobaleno, le donne che stendevano i panni sui balconi, le vecchie sedute fuori casa che intonavano canzoni antiche pulendo fagioli e fagiolini, i vecchi che passeggiavano l'uno di fianco all'altro commentando le notizie appena lette sul giornale, le automobili che passavano veloci sulla strada dirette verso chissà quali avventure. Il sole primaverile accarezzava la sua pelle con delicatezza e illuminava lo scenario sconosciuto nel quale si muoveva, avvolgendolo di un'atmosfera quasi magica, fatata, come i cartoni che guardava in televisione. Solo che quello che vedeva non era finto. Era vero, e lui era un attore come gli altri nel cartone della vita.
Ammirando la bellezza del paese e gustando pienamente la sua prima uscita “da grande”, Lazzaro non si era reso conto che aveva già fatto parecchia strada e che la fontana era ormai vicina. Aveva capito di trovarsi nei paraggi della fonte perché all'improvviso aveva sentito quel suono incantato che poteva provenire soltanto dalla sorgente collocata in piazza.
Via via che proseguiva, tanto più lo scroscio dell'acqua aumentava la sua musica tanto più il cuore di Lazzaro si riempiva di gioia. Finché, superato l'angolo, finalmente l'aveva vista.
Era lì, bella, esattamente come la ricordava: una colonna di ferro con due goffi leoni da una parte e dall'altra, dalla cui fauci l'acqua sgorgava e precipitava dentro delle aperture poste alla base della struttura, creando in tal modo quella sinfonia indimenticabile e senza uguali che permeava l'intera piazza di un'atmosfera stregata.
C'era riuscito. Era arrivato alla meta. Alla fontana. Adesso, poteva sentirsi un adulto per davvero e sarebbe cominciata per lui una nuova vita, quella in cui entrava a pieno diritto tra “i grandi” e nessuno poteva più dirgli che era soltanto un bambino. Ma era solo. Non c'era nessuno che poteva assistere al suo traguardo e, forse, a scuola non lo avrebbero creduto se avesse raccontato questa vicenda.
Rendendosi conto di ciò, un velo di malinconia era passato nel cuore di Lazzaro. Era bello, sì, uscire da soli come gli adulti, ma era triste vivere esperienze talmente emozionanti, appunto, da soli. Avvicinandosi piano piano alla piazza, si guardava intorno deluso. C'erano degli adulti seduti ai bordi della piscina del Monumento vicino alla fontana. Si sentiva osservato ed era imbarazzato, chiedendosi che cosa stessero pensando di lui “i grandi” che lo avevano visto da solo. Così, per non dare a vedere il suo impaccio, Lazzaro aveva raggiunto la sorgente e, muovendosi nella maniera più spontanea possibile, si era fermato da un lato della fontana per dissetarsi.

Guardò l'acqua fuoriuscire dalla bocca del leone e scorrere come un filo di cristallo per poi perdersi nelle tubature alla base della fontana, suonando in tal modo quel mirabile concerto che lo aveva ipnotizzato, conducendolo là. Si curvò, si avvicinò lentamente e iniziò a bere, lavando via da dentro di sé quel desiderio di diventare “grande” e l'insicurezza di essere visto dagli adulti come un bambino. Bevve avidamente, tanto era fresca l'acqua, e finì col bagnarsi entrambe le guance. Quando fu sazio, si rimise dritto e si asciugò le gote con la manica del bomber che portava addosso, ma non ebbe il tempo di finire il gesto che si accorse di non essere più solo:
– Ciao! – gioì un bambino, porgendogli la mano – Io sono Carmine, e tu? Come ti chiami?
– Mi chiamo Lazzaro – rispose timidamente, stringendo la mano dell'altro e gettando un'occhiata agli adulti che osservavano la scena.
– Quanti anni hai?
– Sette e mezzo. E tu?
– Io sette. Allora possiamo uscire insieme se ti va. Mia mamma dice che devo uscire con quelli più grandi di me... – sorrise Carmine, restando assieme a lui e attendendo una risposta.
– D'accordo!
Non appena Lazzaro ricambiò il sorriso, gli adulti dissero a Carmine di non fare tardi e se ne andarono, salutando entrambi e lasciandoli soli.
Lo avevano scoperto. Avevano capito che non era un adulto ma soltanto un bambino. Proprio come quello che aveva davanti a lui, come Carmine.
Non gli importava. Aveva dimostrato a se stesso di saper raggiungere la fontana e, soprattutto, adesso, non era più solo.
Finalmente aveva un amico.

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