- di
Saso Bellantone
Un occhio. Sta fissando
qualcosa ma non è la luce che si riflette nella sua iride. Può
vedere la luce, sì, ma non quel che si apre in essa. Per farlo, deve
fermarsi al bagliore e lasciare che qualcos'altro passi, entri.
Soltanto allora ciò che si dischiude in quella fenditura, in quella
chiarezza, può essere visto. Quel che vi abita, però, non è però
l'immagine che si rispecchia nella pupilla dell'occhio né a vedere è
quest'ultimo. A vedere nella crepa, nella luminosità, è il
pensiero. E quel che scorge chiaramente è la morte.
Occhio di Maurits
Cornelis Escher offre l'occasione di affrontare un argomento
insolito. Ogni giorno, i quotidiani informano della morte di Tizio,
Caio o Sempronio e ogni volta ci si sente scossi – o indifferenti,
a seconda delle prospettive – perché si pensa al fatto che Tizio,
Caio o Sempronio non c'è più. La notizia consiste nella scomparsa
dalla comunità dei vivi di Tal dei Tali e ciò sconvolge per un
periodo, breve o lungo che sia, a seconda dei casi, dopodiché si
riprende la solita routine, come se non fosse accaduto nulla. “È
ovvio, occorre vivere” si potrebbe affermare “non pensare
costantemente al fatto che Tal dei Tali è morto” e si direbbe
bene. Ma ciò su cui si vuole porre l'attenzione consiste nel fatto
che pur accorgendosi della scomparsa di qualcuno dalla comunità dei
vivi, ogni volta, leggendo o ascoltando una notizia di cronaca, ci
sfugge sempre il medesimo fenomeno: quello della morte.
È
un tratto tipico della nostra società. Non si pensa alla morte. È
un fenomeno evitato, preso alla leggera o addirittura rimosso eccetto
quando si perde una persona cara o, appunto, si è rischiato di
perdere la vita. In questi casi, la morte dà da pensare e, alla fine
– consapevolmente oppure no – non si fa altro che pensare alla
vita.
Per
le civiltà passate la morte è stata il fenomeno a partire dal quale
pensare la vita. Da una precisa interpretazione della morte è poi
originata, in chiave mistico-cultuale, una morale mediante la quale
regolare le condotte di una comunità e, quindi, destinarne –
seppur in parte, in larga parte – la storia. Per la nostra civiltà,
ormai planetaria, la morte non conta. Non si pensa la vita a partire
dalla morte ma a partire da alcuni “fenomeni della vita” – tra
i quali il potere, il successo, la ricchezza, il piacere – che
hanno generato un'etica della quantità, risoltasi ormai nella lotta
di tutti contro tutti, che già produce differenza tra potenti e
impotenti, signori e schiavi. L'avvenire della nostra civiltà è,
quindi, condizionato dall'equazione vita = quantità.
Nelle
civiltà passate, per mezzo dei medium
o simboli mistico-cultuali nei quali si riconosceva e, dunque, per
mezzo della morte, l'individuo dava un senso alla propria esistenza
diverso dalla propria esistenza stessa e dai fenomeni in essa
contenuti. Oggi ciò non accade. Da un lato perché la morte non è
considerata un fenomeno della vita, eccetto nel suo volto
economico-consumistico – dunque, quantitativo. Dall'altro lato,
perché la mistica che regge la nostra società coincide
perfettamente con la sua logica sintetizzata nell'equazione vita =
quantità, la quale significa anche dio = quantità.
L'essere
umano ha un nuovo comandamento “Non avrai altro dio all'infuori
della quantità”. Alla luce di esso interpreta la vita,
venerandola, nel modo della quantità, della ricerca della quantità
di tutto: delle relazioni, della ricchezza, dei beni, dei servizi,
dei piaceri, di qualsiasi fenomeno. Per lui, tradotto in termini
filosofici, “l'Essere è la quantità”. Egli non ha tempo di
pensare alla morte e, quindi, alla propria fine, per il semplice
fatto che la morte è la fine della quantità, quindi è insensata e
inutile. Si concentra, dunque, sulla quantità – cioè sulla vita,
sul nuovo dio – e non si rende conto che continua a imbruttirsi,
avvilirsi e infuriarsi sempre di più, riducendo rapidamente la
distanza che lo separa dal giorno in cui distruggerà sé e l'intero
pianeta. L'essere umano, in breve, è fuori di sé.
Non
è questo il luogo – né se ne ha l'intenzione – di impiegare
l'idea della morte per generare nuove morali o scale di valori con
le quali ripensare la civiltà planetaria e le sue condotte. Si
propone, piuttosto, di tornare a pensare alla morte ogniqualvolta si
legge un articolo di cronaca o un nostro caro svanisce dalla comunità
dei vivi. Chiedendosi “Che cos'è la morte? - Perché la morte? -
Perché esiste la morte? - Perché si muore? - C'è un
dopo-la-morte?” e via dicendo, ci si offre l'occasione di
riappropriarsi di sé; di ricordarsi che, in fondo, si è esseri
mortali, finiti, limitati; di capire che l'innaturale e disumano
circolo vizioso della quantità, che domina la nostra era, non è la
meta ultima del mistero dell'esistenza, ma se si continua così sarà
certamente il nostro ultimo capolinea.
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