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sabato 23 aprile 2016

All'origine del domandare


- di Ernst Junger
"Ma è proprio quando sotto non c'è niente che il problema diventa più inquietante (Il problema di Aladino)".

giovedì 14 aprile 2016

COSI 'I 'NA VOTA: la consapevolezza degli eventi


- ricerca a cura di Mimmo De Pietro
"I guai d'a pignata 'i sapi a cucchjara chi 'mbiscita".

martedì 12 aprile 2016

Un'amicizia disobliata


- di Saso Bellantone

Si crede siano eterne, al pari di un nome scolpito sulla parete di roccia di una grande montagna, ritenuta incrollabile, ma a volte accadono terremoti e cataclismi capaci di livellare e cancellare anche la vetta più alta, sia quest'ultima il monte Olimpo, il Calvario o la catena del Gamburtsev. Per le amicizie è così. Vanno, e vengono, esattamente come gli amori. Un volto esiste finché dimostra la sua amicizia. Quando invece smette di farlo, non esiste più, come se non ci fosse mai stato.
Vi sono tuttavia delle amicizie che, essendo vere e sincere al pari degli amori, è difficile rimuovere, facendo finta che non ci siano mai state, malgrado per molti sia qualcosa di estremamente semplice, come il distinguere il nero dal bianco, il giorno dalla notte, il caldo dal freddo. Non si riesce ad eliminarle dalla propria memoria, conscia e inconscia, perché con esse si è vissuto tanto, anche in un misero sguardo, in una banale parola o in una manciata di istanti.
Sono quelle amicizie che ci si porta per sempre nel cuore, perché con esse si è cresciuti, si è sfidato il mistero della vita, sperimentando tante di quelle cose che costituiscono la nostra odierna identità. Insieme si è sorriso, si ha pianto, si è usciti per la prima volta di casa, ci si è iscritti alla palestra o a un corso di uno sport qualunque; si è sognato, si è guardata in faccia la realtà, si è andati in cerca di un partner facendo il più delle volte brutte figure, si è disobbedito prendendosi spesso le ramanzine degli adulti e anche gli schiaffi. Insieme si è parlato di scuola, di libri, di musica e di argomenti taboo, siano questi ultimi la sessualità, i fumetti e le notizie apocrife di qualsiasi disciplina; insieme si sono fatte quelle stupidaggini come suonare un campanello di un'abitazione e fuggire o imitare i grandi comici della televisione con le quali ci si è divertiti tanto. Insieme, si è stati in vacanza spensierati o si sono affrontati i primi seri problemi della vita. Insieme, si è vissuto tanto, molto, per la prima (si spera ce ne sia una seconda) parte della propria esistenza.
Le si reputa amicizie immortali, imperiture, al pari della Piramide di Cheope o del rompicapo tra l'uovo e la gallina. Si dà per scontato che queste amicizie ci saranno sempre, qualsiasi cosa accada... Qualsiasi cosa accada, sia un evento nefasto o uno miracoloso, gli amici non mancheranno mai. E invece, proprio nel momento in cui si vorrebbe avere al proprio fianco tutte le proprie amicizie, non si ha nessuno e ci si ritrova, forse per la prima volta, soli.
È in quel momento che si capisce qualcosa in più o che, forse, finalmente, si guarda in faccia la realtà davvero, come è sempre stata. È in quel momento che, forse, si usano gli occhi per la prima volta e si comprende come stanno le cose, come sono sempre state. È in quel momento che si ha l'occasione di stabilire, inizialmente, yin e yang, bianco e nero, dolce e salato, sogno e realtà.
È come il risvegliarsi da un sogno, o da un incubo, nel quale tutti avevano consapevolezza dell'accadere, tranne noi. È come l'emergere dal mare e ritrovarsi bagnati, mentre tutti gli altri sono a riva e all'asciutto. È come il sentirsi bruciati vivi, al rogo, mentre tutti gli altri, che credevamo compartecipi delle medesime battaglie, osservano soddisfatti nelle vesti dei castigatori, lanciandoci gli insulti più spietati.
Si perde il senso dell'orientamento, il capo e la coda; si perde anche il cane, che non ha più modo di rincorrere alcunché. Si perde tutto: il sentiero da cui si è venuti, il luogo nel quale si è arrivati e la direzione verso cui ci si stava dirigendo. Si Smarrisce la propria identità. E nella maggior parte dei casi, senza neanche un perché.
Ma per quanto profondo e straziante possa essere il baratro, senza fondo, nel quale ci si sente precipitare, il cammino prosegue. Nostro malgrado. Si fanno nuove conoscenze e si incontrano persone davvero splendide, speciali, delle quali non sapevamo l'esistenza e delle quali, adesso, non possiamo farne a meno. Anche nella distanza, nel tempo e nello spazio, noi siamo costantemente “con” queste persone e “siamo” queste persone. Siamo un volto di noi stessi del quale non sapevamo nulla. Siamo l'etere, l'astratto, l'idea e la consapevolezza silente che ci lega ad esse. Siamo un passeggiata, un'escursione nuova, in un mondo che è sempre stato lo stesso e che adesso è anche qualcos'altro. Siamo, gli amici della conoscenza che abbiamo appena incontrato, portando nel cuore il ricordo, e la speranza di ritrovare, gli amici persi o che ci hanno abbandonato.
Siamo disobliati. Amici disobliati, ma soltanto assieme ai nuovi compagni di viaggio.
Tenaci lottatori contro quelle mode di pensiero e di comportamento con le quali i potenti e gli opportunisti di ogni razza e casta stabiliscono il proprio dominio, gli amici disobliati sono tanti, pur essendo in pochi. Silenti e colloquiali quanto basta, vivono il mondo che può ancora essere dentro il mondo degenerato che purtroppo già è. Amano la letteratura, l'arte, il cinema, la musica, la scienza e svariate discipline di cui si compone lo scibile umano. Amano la buona cucina, quella fatta di prodotti tipici locali, i paesaggi incantevoli ammirabili nella nostra terra, i paesini sperduti nell'Aspromonte e le spiagge mediterranee. Amano gli incontri, le passeggiate, le conversazioni, il frequentare gli eventi culturali o organizzarne di propri. Amano la compagnia, perché passano il resto della loro vita in maniera solitaria, studiando, leggendo, osservando, scrivendo, dipingendo, componendo, creando. E soprattutto, amano restare qui, al sud, alla ricerca di quei punti di vista e di quelle lenti d'ingrandimento capaci di scuotere le coscienze, e le anime se ci sono, e di determinare un beneficio per i più. Per gli ultimi, i deboli, gli schiavi della nuova era.
Basta uno sguardo, un sorriso, un bacio, un abbraccio o una stretta di mano con questi amici disobliati, basta soltanto la loro presenza o il ricordare la loro esistenza e il loro umile operato, per sentirsi più luminosi. Perché si comprende che noi siamo molto simili a loro e loro a noi. Folli, decisamente. Sognatori e illusi, di certo, di poter contribuire al cambiamento e al risanamento delle menti atrofizzate e narcotizzate che abitano la nostra terra.
È probabile che questi amici riusciranno nel loro intento così come è probabile che non ce la faranno mai. Eppure, è importante che questi sforzi ci siano, è fondamentale che loro ci siano. Perché senza di loro, oggi, non ci saremmo neanche noi.
E allora non resta che augurare agli amici disobliati, di continuare il loro viaggio nella conoscenza, perché con il loro persiste il nostro e si addensa la consapevolezza di essere davvero qui, davvero vivi.
Anche se ognuno di loro, di noi, non riuscirà a realizzare il sogno di vivere in un mondo completamente diverso da quello attuale, potremmo dire almeno, alla fine, di avere avuto tante tra le più belle amicizie che si possano mai desiderare: un'amicizia, appunto, disobliata.

lunedì 11 aprile 2016

L'ARTE PERIFERICA: Intervista a Giusy Staropoli Calafati


- di Saso Bellantone
Giusy Staropoli Calafati, Vibo Valentia 1978.
Vive e opera a Briatico. Ha terminato i suoi studi nel ’97 e ha poi coltivato la sua passione per la letteratura con uno studio da autodidatta. Il suo “genio” creativo, viene sempre più riconosciuto ed annoverato nella grande tradizione letteraria calabrese che spazia da Alvaro fino al suo amato Saverio Strati. É vincitrice di importanti concorsi e premi letterari in Italia. Ha inoltre conseguito diversi riconoscimenti per il merito di narrare con impeto un Sud che è un destino dentro al cuore che ti prende e non lo sai lasciare. Presente in varie antologie di poesia contemporanea, ha pubblicato: “La mia terra”, Sabinae 2008, (prefazione di Gerardo Sacco); “Pensatori e Poeti”, Leonida 2010; “Natuzza Evolo due chiacchiere con Maria”, Falco 2013 (prima edizione); “SUD –La terra di Costabile”, Thoth 2014, (pref. a cura del prof. Luigi M. Lombardi Satriani); “ A passioni, canto in dialetto calabrese”, Thoth 2015; “SAVERIO STRATI non un meridionalista ma il Meridione in sé che parla”, Disoblio 2015.

Come ti sei avvicinata alla scrittura?
Senza voler tralasciare quella parte di verità che più mi si addice e che vede innata in me la passione per la scrittura, confermo di essermi avvicinata ad essa, e con passione, più o meno in terza elementare, quando, grazie alla mia maestra, ho avuto la possibilità e la fortuna di dare ampio spazio alla scrittura creativa con la formulazione di testi di ogni genere, durante la stesura dei quali io riuscivo senza inibizioni alcune, a liberare i miei pensieri, vivendo uno stato assai benefico.

Che cos'è la scrittura?
Per me la scrittura è la più ampia forma di libertà.
Più della parola, è scrivere che mi rende libera. Anche al Sud.

Cosa pensi riguardo al senso, allo scopo e agli usi della scrittura, sia a livello individuale sia sociale, nel mondo contemporaneo?
Essendo per me uno stato libero la scrittura, penso essa abbia sensi e scopi imprescindibili.
Comunicare, dire, affermare, denunciare, fare, amare…
Nel mondo contemporaneo ha certamente un ruolo fondamentale sia a livello individuale che sociale. Resta una forma d’arte raffinata e autentica allo stesso tempo, alla quale anche i giovanissimi ricorrono con sempre più assiduità, riscoprendola come una seconda forma di vita.

I Greci impiegavano il termine “poiein” per significare “creazione”. Poi questa parola, nel corso del tempo, si è trasformata di linguaggio in linguaggio, fino a diventare in italiano per esempio, la parola “poesia”. Quando un poeta comunica se stesso, cioè scrive una poesia, è un creatore di mondi, riproduce il mondo, crea nel senso pieno della parola. Puoi definire i tuoi scritti “poesie”, opere d'arte, creazioni nel senso pieno del termine?
Non sono io a dover definire i miei scritti “poesie”. Non potrei mai.
I miei sono tutti semplicemente ‘scritti’. Spetta al lettore, in tutta la sua crudezza, tradurre uno scritto in poesia, opera d’arte, creazione. E questo per fortuna avviene spesso e mi dà immensa soddisfazione.

Perché scrivi? Perché senti l'esigenza di comunicare mediante l'arte della scrittura?
Scrivo per soddisfare un ‘piglio’ forse?
Ma no!, la scrittura è un’esigenza che ho dentro. Una forma d’arte che mi permette di raccontare me stessa raccontando gli altri.

Che cosa racconti nei tuoi scritti?
Nei miei scritti racconto la vita. Quella che va e quella che viene. Racconto storie e memorie antiche ma non vecchie. E ancora racconto la mia terra. Un Sud che è un destino dentro al cuore che ti prende e non lo sai lasciare.

Una scrittrice può sentirsi tale senza i lettori?
I lettori completano l’opera di una scrittrice.

Che cosa significa oggi vivere come una scrittrice e vivere esclusivamente della propria scrittura? Quali sacrifici comporta accettare questo incarico, questa missione?
Vivere come una scrittrice è bello, ma porta con sé un grande carico di responsabilità. Tocca dare al lettore ciò che questo, di volta in volta, si aspetta e vuole, e non è sempre così semplice.
Vivere della propria scrittura, di questi tempi è certamente dura. Ma scrivere è una missione e come tale vi sono sacrifici da sopportare. E io per la gioia di scrivere, sopporto!

Cosa ti spinge a restare nella tua terra natia?
Le radici. Ché sono più forti delle mie ali.

Puoi definirti una sognatrice? Qual è il tuo sogno nel cassetto?
Non mi definisco sognatrice. Sognatrice lo sono. Ho un grande sogno nel cassetto: “il riscatto culturale e sociale della mia terra”. E scrivo perché questo sogno si realizzi.

Parlaci del tuo ultimo libro, “Saverio Strati. Non un meridionalista ma il Meridione in sé che parla”.

Il mio ultimo libro riporta alla luce la figura pragmatica del grande scrittore calabrese, Saverio Strati, con il quale si ha la possibilità di entrare con sensibilità ed efficacia nel vero stomaco della Calabria.
Un libro che nasce dalla volontà di negare al maestro Saverio il diritto all’oblio che altri prima di me gli hanno gratuitamente dato.
Un dovere nei confronti di un uomo e di uno scrittore che a Ponte Vecchio, guardando l’Arno, pensava al suo Ionio e piangeva.
Un autore di spessore, tradotto nel mondo, premio Campiello, pubblicato dalla più grande casa editrice italiana, che le nuove generazioni hanno l’obbligo di conoscere per conoscersi meglio. Perché, i libri di Strati sono veri lezionari di vita quotidiana; una sorta di Bibbia calabrese con parabole più d’una.
Un segno di riconoscenza dunque, a Saverio Strati, che grazie a questo libro, ritorna e con dignità e orgoglio in Calabria, nelle scuole, tra i calabresi suoi di sempre.


Chi desidera seguirti e saperne un po' di più sui tuoi scritti, dove può rivolgersi?
Può farlo attraverso i social: Facebook, Twitter; Instagram. O anche attraverso il mio blog personale all’indirizzo: giusystar.myblog.it

Alcune parole per i giovani.
Ai giovani il messaggio che mi sento di dare, è quello di darsi, in questa terra, nuove opportunità. Sono loro il futuro del Sud e del mondo intero.
“Lottate per le vostre idee, i vostri sogni. Non sentitevi offesi tutte le volte che altrove vi chiameranno ‘i calabresi’, o i ‘terroni’. Siatene fieri. Noi del Sud veniamo, e orgogliosamente, dalla terra. La terra tempra, ragazzi!
Difendete i valori che vi hanno trasmesso i vostri padri e le vostre madri. Salvaguardate la loro e la vostra lingua. Custodite come fosse memoria, sempre, la vostra identità. Date valore al senso dell’appartenenza e a quello dei luoghi. Pretendete che ‘i grandi’, siano questi le scuole, le chiese, la politica, la cultura, vi diano l’opportunità di scegliere se andare o restare nella vostra terra. Perché questa non è terra di nessuno. È la vostra (nostra) terra, appunto!

sabato 9 aprile 2016

L'ideazione traditrice


- di Oscar Wilde
"C'è qualcosa di tragico nel fatto che appena l'uomo inventò una macchina capace di sostituirlo nel lavoro, cominciò a patire la fame".

lunedì 21 marzo 2016

COSI 'I 'NA VOTA: l'insicurezza dei cambiamenti


- ricerca a cura di Mimmo De Pietro
"Cu' cangia a vecchja c'a nova, o 'nperra o 'nchjova"

venerdì 4 marzo 2016

FIMMINE di Natascia Cucunato




- di Saso Bellantone

Il caos. Sembra costituito da rumori senz'anima. Ma in realtà è fatto di fucilate e pistolate. E non è disordine. È tutto pianificato, predisposto e attuato dalla criminalità, organizzata appunto, delle quale fanno parte anche donne. Sì, le donne, che comandano e che sono soltanto comandate. La realtà della 'ndrangheta è fatta di potere e di morte, di litanie e di ninne nanna di dolore e di vendetta. Perché la vita è un elastico tirato troppo spesso e che si spezza troppo frequentemente per mano delle mafie, a causa delle quali si prega per i morti, ma anche per i vivi. Perché il destino di alcuni è già scritto, li raggiunge e li colpisce troppo facilmente. La morte insegue e ferisce chiunque e ovunque, addolora, ti guarda e ti tormenta. È una dannazione senza uscita alcuna, che brucia la luna e il cuore. Il potere delle mafie deriva da “ciò che lo Stato non sa dare o non ha mai voluto dare”. Ma a volte si racconta, spinge a raccontare, proprio per bocca di donna, nella speranza che questo circolo vizioso sia interrotto una volta per tutte.
E allora troviamo storie di donne disperate, folli, punite, sottomesse o uccise per aver infranto le regole e le tradizioni della famiglia; storie di donne dalla vita facile e felice proprio perché all'apice del sistema mafioso di cui imprtiscono leggi e usanze, mentre il resto della gente vive la propria esistenza inconsapevole, fregandosene o facendo finta di non vedere; storie di donne mafiose che una volta deciso di collaborare con le forze dell'ordine, si ritrovano con una coscienza infranta tra il desiderio di dire tutto e l'ammonizione di non dire nulla.
Sono questi i temi rappresentati da “Fimmine”, il nuovo spettacolo delle Produzioni Tersicore, andato in scena per la prima volta (in sold out) domenica 28 febbraio 2016, presso il Teatro dell'Acquario di Cosenza. Diretto dal regista Natascia Cucunato, con la collaborazione di Daniela Arena (vocal couch), di Tommaso Muto (musiche) e di Eros Leale (disegno luci), “Fimmine” racconta la storia di alcune donne di mafia che “agiscono, coordinano, istigano alla violenza e al potere”, ma anche quella di donne “che si ribellano, che infrangono le leggi del clan” e che per questo motivo vengono punite per far riacquistare alla famiglia l'onore perduto.
Sedie, rosari, telefoni, calzini rossi, è soltanto questo il materiale di scena utilizzato da Stefania Mangia, Marianna Esposito, Nadia Mele, Linda Fassari, Alessandro Urso, Sonny Rizzuto, Elvira Gallo, Chiara Garritano, Shelly Perna, Alessia Mazzei, Francesca Carolei, Francesca di Benedetto, Simona Bozzo, Francesca Allevato, Martina Felicetti, Mauro Settembrino, Giuseppe Turchiaro, Teresa Cupiraggi –, dagli attori cioè che con grande coordinazione, prontezza e teatralità hanno saputo impiegare all'unisono i loro corpi per trasmettere i messaggi dello spettacolo, che andrà nuovamente in scena il 4 aprile, sempre al Teatro dell'Acquario di Cosenza. Coreografie e luci semplici, musiche accurate, una narrazione chiara e immediata al pari dei suoi contenuti di estrema attualità e brutalità. Uno spettacolo che lascia senza fiato fin dai primi istanti e che si vorrebbe vedere di nuovo una volta concluso, per rendersi davvero conto del dramma che alcune donne, alcune "madrine", hanno vissuto e vivono ancora.
“Ogni spettacolo – ha detto Natascia Cucunato, autrice e regista di “Fimmine” – parte da un laboratorio. Ci si incontra, si comincia a sperimentare e poi si inizia a montare ogni parte delle coreografie, puntando tutto sulle doti dei ragazzi e dei loro corpi, intesi come unici strumenti di comunicazione. Sono molto soddisfatta del loro lavoro. Quando la gente riceve i messaggi che rappresentiamo, allora vuol dire che abbiamo lavorato bene. Rispetto a Sara Kane – 4:48, è stato più difficile mettere in scena Fimmine. Se nel primo avevamo tutto, nel secondo abbiamo dovuto scrivere ogni cosa, persino le musiche, grazie al lavoro di Tommaso Muto, registrate e rielaborate. Ringrazio tutti i ragazzi, i miei collaboratori e il Teatro dell'Acquario, dove il 3 aprile replicheremo lo spettacolo. Sono convinta che il teatro abbia ancora qualcosa da dire, serve a sognare, a denunciare, a lanciare dei messaggi e a far riflettere, anche su temi attuali come quello della criminalità organizzata e del ruolo delle donne al suo interno”.

sabato 20 febbraio 2016

Nel Nulla il Tutto


- di J. W. Goethe

“Tu parli come il primo di tutti i mistagoghi
che abbiano mai ingannato confidenti
neofiti.
Ma a rovescio. Nel vuoto tu mi mandi
perché in sapienza e in forza io vi cresca.
Mi tratti in modo che, come quel gatto,
sia io a cavarti le castagne dal fuoco.
Su, comunque! È qualcosa che voglio
esplorare
fino in fondo. Io, nel tuo Nulla spero
trovare il tutto”.

giovedì 4 febbraio 2016

L'ambivalenza della solitudine

- di Saso Bellantone*

Si vive ingabbiati in casa propria, senza lavoro alcuno né speranza di trovarlo. Oppure si lavora quotidianamente, chiusi tra le pareti del proprio ufficio, quelle dell'abitacolo del proprio mezzo di trasporto o quelle invisibili e trasparenti che separano il cantiere dal resto del paesaggio. Non si ha tempo, incatenati dall'isolamento della nullafacenza o da quello di un attivismo lavorativo che sembra non avere fine, né per se stessi né per le mansioni quotidiane che fanno stare bene e fanno provare la sensazione di trovarsi a casa. Non si ha tempo nemmeno per pagare le infinite tasse di questo Stato decomposto, che va avanti come uno zombie, una marionetta sempre scarica o un vampiro, che succhia tutto il sangue dei suoi cittadini per distribuirlo a quei pochi che di sangue non ne hanno proprio bisogno, essendone già sazi per l'eternità. Né si ha più il tempo per saldare quelle bollette dal momento che lo Stato, fantoccio per burattinai ben più spietati del celeberrimo Mangiafuoco, ha già preso tutto: casa, futuro e dignità.
Eppure, in questo isolamento incorruttibile e delirante, gracile soltanto alla signora nera che attende un passo falso nostro, del nostro corpo o di qualche altro disperato al pari di noi, si sente l'esigenza di infrangere a testate le barriere che ci tengono segregati al mondo e di spezzare a morsi i chiodi che ci tengono saldati alla nostra croce, per prendersi il tempo e uscire: fuori di casa, dall'ufficio, dall'abitacolo, dal cantiere, dalla nostra afflizione, fuori di noi e incontrare altri, coi quali stare finalmente in compagnia, patire insieme e riflettere a due (o più) sull'amara condanna di vivere questo momento storico.
Non sempre, tuttavia, gli incontri sono quanto sperato. Anzi, spesso dopo il “buongiorno” e il “buonasera”, non c'è compagnia né patimento comune né riflessione alcuna. C'è la strada e il vuoto, lo stesso che è nei nostri occhi e in quello di chi ci passa al fianco.
Altre volte, dopo i saluti di routine, la conversazione si installa su stupidaggini e dicerie che svuotano maggiormente il senso di inconsistenza che ci accompagna, e qui si conclude. Oppure si persiste in tali argomentazioni per mostrare ad altri passanti che si sta conversando con qualcuno, che va tutto bene quando è vero tutto il contrario.
Non facciamo domande all'altro, perché temiamo che l'altro le faccia a noi. Non rivolgiamo all'altro domanda alcuna perché l'altro non vuole rispondere, non vuole parlare di sé né raccontarsi. Vuole soltanto mostrare, esattamente come noi, che sta conversando con qualcuno e che va tutto bene, nonostante tutto.
Non ci si fida più dell'altro, anzi si ha paura. Si teme che l'altro non ci comprenda, che capisca male o che lo faccia volontariamente per crearci disastri e metterci in ridicolo. Al massimo, si conversa con l'altro per mostrare ad altri ancora di essere capaci di conversare con Tizio su temi e questioni estranee a tanti altri Caio che ci notano. E viceversa, naturalmente. Dopodiché, si prosegue con la stessa formula finché giunge l'ora di ritirarsi nella propria cella di isolamento.
Teatrino. Vuoto estetismo. Apparenza.
È una vita impostata sul mero apparire, privo di contenuti e anche di sostanza.
A ciascuno non frega niente di qualcun altro in particolare né di tutti gli altri. Al limite, interessa soltanto il piacere di incontrare se stessi e non quello di incontrare l'altro per i motivi che hanno spinto a forzare le sbarre e a strapparsi i chiodi dal corpo. Oppure si ride. Si ride assieme di quello che ci sta attorno e delle disgrazie altrui, mascherando che quegli stessi avvenimenti toccano anche noi e che quelle sono anche le nostre sciagure.
È una vita solitaria quella della nuova era. Ognuno edifica il proprio “altro” mondo dentro il mondo, con e senza tecnologia, e nessuno riesce neanche soltanto a sfiorare quello altrui. Ognuno costruisce le sbarre della propria gabbia e i chiodi della propria croce, per il piacere di lamentarsene e per quello di rinchiudersi ancora dentro di esse e di infilzarli nuovamente dentro la propria carne.
Amiamo l'isolamento della nullafacenza o dell'iperattivismo lavorativo col quale si torna punto e a capo. Amiamo questo Stato parassita che ruba il nostro passato, il nostro presente e il nostro futuro. Amiamo patire, piangerci addosso, patire, piangerci addosso e così all'infinito. E amiamo essere soli, per incontrare nella nostra solitudine qualcosa, o qualcuno, che non siamo nemmeno noi.

* fotografia di Linda Fassari

sabato 16 gennaio 2016

Onirica autocritica (e buon disoblio a tutti)


- di Saso Bellantone
Dicono che i miei scritti siano monotoni. Che affrontino continuamente gli stessi argomenti. Che parlino sempre delle medesime cose. Crisi economica, crisi dei valori, disoccupazione, fame, povertà, solitudine, lotta di classe, potere, caste, cospirazioni locali nazionali e internazionali, fallimento Italia ed Europa, e la lista prosegue. Inutile citarle tutte le questioni, dal momento che già le conoscete.
Ma voglio raccontarvi del sogno che ho avuto stanotte.

“Basta! Parla di qualcos'altro!” mi dicevano i più fervidi lettori, nella conferenza stampa svoltasi sul Pianeta Piano, Galassia Galatina, Palazzo delle Pale, Trono di Coppe.
“E di cosa dovrei parlare?” chiedevo, guardando sconfortato Totò e Peppino, Franco e Ciccio, Roger Rabbit e Shrek.
“Parla di altro! Il mondo va come deve andare e va bene!” mi ribadivano continuamente, senza riuscire a specificare.
“Così sia.” rispondevo “Prometto di parlare, e di scrivere, di qualcos'altro.
D'ora in poi, cercherò di indagare a fondo, e di capire, quale lingua parli Paperino, se sia più forte Batman o Superman, se Dylan Dog abbia sempre la camicia rossa perché è solito macchiarla di pomodoro quando mangia gli spaghetti (così non si nota), se Dart Fener sia in realtà il diminutivo del moschettiere D'Artagnan che suona una Fender Stratocaster, travestito da carnevale.
Cercherò di comprendere se nella pasta al pesce ci vada il formaggio oppure no, se si trattava di fuorigioco, se Marika farà la scelta, se Cinzia aveva nel pacco i cinquecentomila euro.
Lo giuro, investigherò il pagliaio alla ricerca dell'ago, e all'interno della sua cruna ci farò passare un cammello, con le sue sigarette, il suo condizionatore e la sua automobile preferita, quattro per quattro ovviamente. Chiarirò se la pizza sia nata a Napoli o ad Hong Kong (passando per Londra da Roma fino a Bangkok, certamente), se quella vera, originale (così come Dio l'ha creata, prima di riposarsi il settimo giorno) sia con o senza mozzarella e se quest'ultima sia preferibile di bufala o di Buffalo Bill. Mi accerterò che in ogni locale nel sabato sera tutti abbiano i propri chupiti gratis e spiegherò che le chupa chupa sono state inventate prima di una celebre gag da cabaret.
Parlerò del tempo, sì. Avete capito bene. Sono io a non aver capito se debba parlare del movimento degli astri o della storia, di un'epoca, del clima, della cottura di un alimento, di quanto ci mette una Ferrari a fare un giro del percorso del GP di Monza, o se debba semplicemente dire che ore sono, evitando di cantare il celebre brano di Jovanotti.
Ma dubbi a parte, state tranquilli che parlerò, che racconterò tante cose, che scriverò di tanti di quegli argomenti da farvi felici e contenti per sempre, da farvi ridere più di tutte le droghe leggere e pesanti e di tutti i superalcolici che abbiate mai consumato nella vita, da farvi vivere esattamente come prima e proprio come volete voi (o loro).”
Gli applausi scrosciavano come sinfonia di patate fritte amplificate da un impianto per un concerto da stadio. Tutti i rappresentanti dei popoli dell'universo conosciuto sorridevano e si abbracciavano commossi e ballavano la macarena. I fuochi d'artificio ricoprivano di colori stupendi i cieli con le loro quindici lune e i loro sedici soli, al di sotto dei quali si svolgevano parate trionfali, di Buffon, Andanovic, Peruzzi, Zenga e di tutti gli altri portieri degli edifici dell'isolato accanto.

Poi mi sono svegliato. Ho capito di avere sognato e mi sono chiesto se fosse un sogno premonitore o se si trattasse soltanto di un sogno e basta.
“Parla di altro! Il mondo va come deve andare e va bene!”
Questa frase mi ronza ancora nella testa.
È vero, il mondo va come deve andare.
Ma non va bene.
E non posso parlare di altro.
Buona monotonia a tutti.
Anzi, buon Disoblio.