Quando si pensa
all'amore, si riesce sempre a perdersi in un labirinto, in un vicolo
cieco o in un sentiero interrotto. Ci si rifà ad antichi miti, a
storie e leggende d'altri tempi o a semplici racconti di passate
generazioni, di amici e conoscenti oppure sperimentati per mezzo
della letteratura, del cinema o di qualunque altra dimensione
artistica umana. Storia personale, cultura di riferimento, salute,
esperienze e qualunque altro fenomeno appartenente al contingente
viva il singolo individuo, si combinano a quelle narrazioni,
generando così, per ognuno, precisi ideali, immagini archetipiche e
folli fantasticherie concernenti l'amore, al di là delle quali, poi,
non si riesce più ad andare. Condizionano a tal punto il proprio
modo di pensare, sentire e fare, in una parola la vita, che rendono
automatici, inerti, prevedibili come burattini e robot.
Si vive nella convinzione
di conoscere esattamente, qui ed ora, la propria identità e quella
altrui, nella certezza che tutto sia già scritto, inamovibile,
marmoreo; nella sicurezza vittimistica che qualunque cosa sia
precisamente così come la si percepisce e la si interpreta; che
ciascuno abbia il proprio fato al quale, proprio come gli antichi
uomini e dèi, è impossibile sfuggire, specialmente quando si
chiamano in causa gli acciacchi del tempo, che si radicano nel
proprio corpo come parassiti. Ci si addentra, così, in un quotidiano
moto rettilineo e uniforme che, visto nella immutabile ripetizione di
settimane, mesi, anni, diventa un eterno ritorno dell'uguale, dal
quale è impossibile svincolarsi.
Tutto è uguale, tutto si
ripete, ancora e ancora e ancora, e la stessa consapevolezza finisce
col trasformarsi nelle ferree sbarre della volontà, utile ormai
soltanto ad auto-rinchiudersi nella propria intangibile prigione. A
volte se n'è consapevoli, altre volte no. Eppure, è innanzi a
questo bivio che, spesso, si snoda il destino proprio e quello
altrui. È il crocevia della scelta: o si decide di frantumare quelle
sbarre o di restare confinati incessantemente dietro di esse.
Non è sempre facile,
tuttavia, prendere una decisione, quando la propria consapevolezza
coincide esattamente con la gabbia nella quale si è rinchiusi, con
il grigio software che si ripete ogni giorno o con il buio
impersonale che annienta costantemente ogni punto di riferimento.
Perciò si rimanda, si rinvia, si posticipa all'attimo dopo e poi
ancora a quello successivo e così via per tutti quelli seguenti,
permanendo in tal modo in una fissità, una stasi, uno stallo
paragonabile al puro niente, al non esserci, al non essere mai stati,
al non essere qui ed ora, al non essere neanche in futuro.
Inutili diventano i segni
e i segnali provenienti dall'esterno e dagli altri. Si è talmente
insensibili e intorpiditi che qualunque cosa, avvenimento o gesto è
privo di significato. Conta solo la cella, la certezza di stare
dentro di essa. Tutto il resto, tutto ciò che è al di fuori di
essa, non esiste, è finzione o immaginazione.
Così, emerge la
stanchezza. Non la propria ma quella degli altri e in particolar modo
di chi ci ama. Se prima tendeva una mano, regalava un sorriso, uno
sguardo, diceva delle parole o compiva dei gesti, adesso non lo fa
più. Perde il desiderio di andare a trovare chi preferisce la
gattabuia alla vita e si proietta altrove, guarda da un'altra parte,
rivolge i propri passi verso nuovi sentieri. Non, però, in balia
della dimenticanza. Alla ricerca, piuttosto, del motivo, della
ragione, dell'origine dell'annichilimento della persona amata e del
segreto, in definitiva, dell'amore, di quel daimon che ancora
lo possiede, che ancora orienta un'intera vita e che ancora chiede
all'amata.
Si cerca ovunque, nelle
strade del visibile e dell'invisibile, come cieco in un mondo privo
di suoni, profumi, sapori e dimensioni. Non si trova mai risposta
alcuna e si perde la speranza di poterla cogliere. Fino al momento in
cui – quando ormai si è convinti che in un mondo silente, inodore,
insapore e indefinito, la propria cecità è inutile – arriva la
sera dei miracoli.
Un pub, un tavolo per
due, due disabili l'uno di fronte all'altra: lei ha una disabilità
fisica, lui psichica. C'è la musica: lui le canta una canzone, la
guarda negli occhi, le tende una mano; lei lo ascolta, incontra i
suoi occhi, prende la sua mano, la ruota di 180° e gli bacia il
palmo.
Un poeta scrive versi
su un effimero foglio. Li dona alla coppia, li ringrazia e, dopo aver
lodato la loro bellezza, va via.
Lui esce fuori per
cercarlo. Lo trova, lo ringrazia per i versi e chiarisce che la
musica, la canzone, è ciò che li completa.
Il poeta torna dentro
e si avvicina a lei.
Lei racconta di aver
già infilato nella borsa i suoi versi e che, una volta rientrata a
casa, li metterà nel diario segreto delle cose più belle.
Lui raggiunge lei e il
poeta al tavolo. I due si guardano e lei dice: “C'è solo tanto
amore. Siamo felici così. Ci piace dedicarci l'un l'altra le
canzoni. Non vogliamo altro”.
Ecco che tutto è chiaro,
indubbio, evidente. L'origine dell'annientamento della persona amata
e il segreto dell'amore hanno la medesima risposta. Non si può solo
dare, non si può solo ricevere. Occorre dare e ricevere l'un
l'altra. Magari non sempre, non tutti i giorni, non tutte le ore e i
minuti, ma ricordarsi, per esempio, una volta tanto, di andare in un
pub, prendere un tavolo per due, dedicarsi l'un l'altra una canzone,
prendersi la mano, guardarsi negli occhi, sorridersi e non volere
nient'altro. Bisogna reciprocamente dare importanza alle piccole cose, ai dettagli, ai particolari.
Senza questa rimembranza, si finisce entrambi per
rinchiudersi in celle d'isolamento separate, poi queste diventano
monadi e infine si trasformano in universi, i quali, si sa, devono
stare da soli e non possono conoscerne altri.